di Alessandro Riva
Diciassette anni sono passati da Palermo Blues, la prima, grande mostra pubblica, tenutasi ai Cantieri della Zisa, in una Palermo così distante e forse anche così drammaticamente sempre uguale a se stessa, che li consacrò ufficialmente, all’epoca, come i rappresentanti della “Nuova Scuola Palermitana”, o semplicemente “Scuola di Palermo” come si preferisce invece ricordarla oggi – il “nuova”, col passare del tempo, è infatti rimasto fra le righe, forse perché nel frattempo anche il mito del “nuovo che avanza”, con tante altre analoghe illusioni, s’è lentamente sbiadito perdendo di smalto e di senso, in ogni campo, dalla politica alla cultura, col suo immenso carico di delusioni, di fraintendimenti, di frustrazioni, furbizie e gattopardismi che si è fatalmente portato dietro in questa manciata d’anni.
Oggi, però, eccoli dunque di nuovo insieme, nel cuore di Palermo, appunto, a Palazzo Riso: sono Alessandro Bazan, Francesco De Grandi, Fulvio Di Piazza e Andrea Di Marco (quest’ultimo nel frattempo scomparso, purtroppo, nel 2012, a soli 42 anni), finalmente riuniti, coi lavori più recenti e molti dei quadri “storici”, quelli che hanno formato generazioni di pittori più giovani e stregato collezionisti e (alle volte) anche alcuni critici un po’ più attenti, curiosi e meno codini e conformisti di altri, in una mostra antologica che ci piacerebbe oggi poter definire riflessiva, più che banalmente celebrativa.
Una mostra che arriva dopo anni in cui tutto, anche nell’arte, è nel frattempo radicalmente cambiato: il dibattito tra pittura e installazione, tra figurazione e concettualismo, tra recupero delle identità linguistiche e utopie avanguardistiche – dibattito in fondo già stanco e forse poco sensato all’epoca, ma certo più necessario allora di oggi, per cercare di dare senso e forza al lavoro di artisti che non si riconoscevano (o non venivano riconosciuti tout court) in un sistema che aveva fatto di coprofilie, fumosità, sciocchezzai, egotismi, pseudo-sperimentazioni e rarefazioni linguistiche una serie di dogmi indiscutibili –, ebbene, quel dibattito è oggi un relitto di cui, diciamocelo pure, a nessuno frega più nulla: su tutto è arrivata (per fortuna) la corsa livellante del tempo, dei ripensamenti, dei ragionamenti, del giudizio critico serio e ponderato rispetto alle partigianerie “militanti” del momento, insomma del ragionamento a freddo sul lavoro, sul senso e anche sullo stile dei singoli artisti, oltre che sulla loro tenuta sul mercato e sul nostro immaginario, nella media o lunga distanza.
Eccoli, allora, bisogna dirlo, i quattro della Scuola di Palermo, più freschi che mai, col loro carico di giochi linguistici, di guizzi, di giravolte, di scarti di lato, di ingegnosità, di invenzioni, anche di bravure tecniche e stilistiche, e poi – soprattutto – di innovazioni e di anticipazioni rispetto a temi e suggestioni che avrebbero, piaccia o no, contraddistinto gli anni a venire, quelli in cui ci troviamo a vivere oggi. Eccoli, dunque, riuniti finalmente, di nuovo, per un confronto a freddo sul lavoro fatto e su quello ancora da fare.
Quanto mai significativo, dunque, è che la Palermo di oggi, quella Palermo nominata proprio quest’anno Capitale italiana della cultura, e in cui si sta per inaugurare, piaccia o no, Manifesta, apra simbolicamente i balli proprio con la riunione di quella Scuola che ha di fatto, una ventina d’anni fa, aperto una strada nuova – non sempre riconosciuta come dovrebbe, va da sé, ma quando mai le novità vengono recepite subito e senza resistenze nel pigro e storicamente conformista sistema culturale italiano? – nella storia recente della pittura e dell’arte italiana. Comunque la si voglia rigirare, è infatti indubbio che Palermo è – e probabilmente sempre resterà – un’anomalia, un’eccezione, un immenso buco nero vivo e sfuggente dentro al cuore delle mille trasformazioni e dei mille trasformismi italiani.
Non è dunque un caso che quattro artisti che a Palermo sono nati e che qui hanno passato le loro adolescenze e parte delle loro giovinezze, oggi vengano ricordati (con conseguenti gelosie e malcelate diffidenze in loco) come una scuola, pur essendo soltanto in quattro e pur volendo, e da sempre, far di tutto fuorché davvero connotarsi tra loro come gruppo organizzato e stilisticamente affiatato: perché è qui, nel cuore della Palermo a cavallo tra anni Novanta e primi Duemila, che si è giocata parte della loro storia personale e artistica, benché sempre vissuta (chi li conosce bene lo sa) con una sorta di continuo alternarsi di amore atavico e profondo e altrettanta profonda insofferenza, di attrazione mista a fastidio, di sprazzi di gioia mescolati a un eterno sfinimento esistenziale, insomma di quell’orgoglio tipicamente palermitano misto a un’immensa frustrazione per tutto ciò che vi è di mancato, di mai risolto, di confusionario e di irrecuperabile in questa terra che da sempre attrae anche chiunque non vi sia nato o vissuto per le sue insanabili contraddizioni e la sua irriducibilità a qualunque reale cambiamento, ma anche nel suo stare sempre in bizzarro e instabile equilibrio tra desiderio di cambiamento e vanità dell’azione, tra effervescenza e fatalismo, tra sogno e irrealtà.
Palermo, allora, ieri come oggi, è forse la metafora perfetta di quella che in qualche modo è diventata la “tipicità” di questa Scuola palermitana: proprio perché qui, e forse solo qui, si può respirare un sentimento che non è né del tutto piantato nel reale né del tutto appartenente solo alla dimensione dell’immaginario: quello che lo stesso Bazan, il più “vecchio” del gruppo, ha definito, ancora ai tempi della loro prima mostra comune, un restare sempre “sul lembo del sogno”, sul confine tra sonno e veglia, in quel territorio franco che sta tra la lucida razionalizzazione di ciò che si sta compiendo e la vaga, incosciente e fatale ignoranza di quello a cui si andrà incontro, mantenendo sempre, però, un che di scanzonato, di felicemente irrazionale e confuso, di fatalista, di gioiosamente irrazionale e fantastico. È qui, forse, il senso del loro esser gruppo, del loro aver “fatto scuola” anche tra gli artisti che sono venuti dopo di loro: in quella naturale, involontaria attitudine a rimanere sempre in bilico tra apparente realismo e rêverie, in quel loro stare ineluttabilmente in bilico sul bordo di un immaginario precipizio, che è quello dell’irrazionalità, del paradosso, dell’estremizzazione folle e bizzarra di ogni immagine o situazione che si manifesti ai loro occhi o alla loro mente, in questo tendere alla forzatura del reale senza per questo mai perdere il senso di una possibile verosimiglianza, in questo stare in mezzo a un passo fatalmente impervio, che non si sa mai dove potrà condurre, in questo essere insieme attenti al dettaglio del reale e perennemente in viaggio verso i confini dell’assurdo, del fuori-scala, dell’orrido, del mostruoso, del barrocchismo esasperato di situazioni e folli dettagli anatomici o architettonici, o di una metafisica incantata e vagamente stregata, o di un disperato, inquieto e fremente nuovo romanticismo; in questo continuo e spaesante rimescolamento di carte tra gioco e pomposità, tra realismo e caricatura, tra rigore del fare pittorico ed esasperante bizzarria della narrazione. Il fil rougeche lega indissolubilmente i quadri di tutti è infatti quella che potremmo chiamare la legge del paradosso. Bazan, De Grandi, Di Marco e Di Piazza non cercano mai di analizzare o descrivere la realtà così com’è: la loro è, al contrario, una scanzonata e infinita scorribanda nei territori del mito – il mito non come summa “chiusa” e asfittica di storie passate, lontane nel tempo e nello spazio, non come ricerca simbolica di un’innocenza ormai perduta all’alba del mondo, ma piuttosto come quel coacervo di “storie selvagge e assurde, avventure infami e ridicole, incesti, adulterii, assassinii, furti, efferatezze, pratiche cannibalesche, vicende ripugnanti” (così in Marcel Detienne, L’invenzione della mitologia), di cui la contemporaneità è oggi più che mai prodiga, un mito contemporaneo che vive di paradossi, di contraddizioni, di bizzarrie, di esagerazioni, di ingenuità, orrori, banalità e nefandezze strettamente connesse tra loro, di elementi apparentemente distonici e apparentemente non amalgamabili l’uno con l’altro, dei quali tuttavia il reale si nutre voracemente ogni giorno.
I quattro di Palermo lavorano infatti da sempre sul materiale grezzo che la contemporaneità offre come “riserva di caccia” ai moderni mitologi e antropologi dell’oggi: le vicende oscure, assurde, paradossali e insieme esilaranti e grottesche del mondo di oggi. Che si tratti delle spaesanti tranches de viedi Fulvio Di Piazza, i cui protagonisti sono strani esseri antropomorfi fatti di piante, di nuvole o di pesci, o che si tratti invece delle città insieme antichissime e futuribili, o dei drammatici e inquietanti scenari naturali in bilico tra preistoria e preveggenza di un qualche improbabile “trapassato futuro” di Francesco De Grandi, o piuttosto dei bulli con cravatte svolazzanti, delle algide ragazze circondate di scimmie e di bellimbusti intubati in corazze in similpelle sadomaso di Alessandro Bazan, o ancora dei “rottami” e degli oggetti-feticcio di Andrea Di Marco, desueti e abbandonati ai margini delle immense periferie cittadine, rifiuti simbolici del nostro vago e apparente benessere quotidiano (automobili, sedie vuote, camion, saracinesche, immondizie varie: oggetti “che si legano al paesaggio e che io fotografo, estraggo dipingo”, come ha detto una volta lo stesso Di Marco, “sia per fare un dispetto alla globalizzazione sia per quel sentimento di riconoscenza, di aspettativa enigmatica, di quell’imperscrutabilità che si rivela a volte come una metafora dell’incertezza del vivere”); ebbene i personaggi, gli scenari e le storie che fanno da sfondo ai quadri dei quattro palermitani sono quelli di un inesausto e immaginifico luna park post-contemporaneo, relitto di esperienze che paiono insieme appartenere all’oggi ma anche a un tempo vago, sospeso, insieme reale e immaginifico, un po’ come accade quando cerchiamo di scavare nel ricordo sfuggente di un sogno di cui non riusciamo del tutto, una volta svegli, a snodare la matassa delle circostanze, delle situazioni, delle trame e delle fisionomie che abbiamo visto e incontrato da dormienti.
Che in tutti e quattro vi sia una forte componente immaginifica e simbolica, al limite dell’apocalittico e del paradossale, e che tuttavia questa volontà di utilizzare la figura retorica del paradosso e dell’assurdo venga rigidamente e lucidamente strutturata per raccontare null’altro che il nostro presente, attraverso gli archetipi narrativi di una mitologia diffusa, “bassa”, spesso anche “volgare” e popolare, è dunque forse la chiave più autentica per leggere, anche a ritroso, la storia di questo gruppo di artisti che, piaccia o no, ha dato un contributo importante alla nostra storia recente, e al quale oggi finalmente viene reso lo spazio e (ci auguriamo) anche il peso che merita nella storia dell’arte italiana di questi ultimi decenni.
La Scuola di Palermo
Alessandro Bazan, Francesco De Grandi, Andrea Di Marco e Fulvio Di Piazza
a cura di Sergio Troisi, con la collaborazione di Alessandro Pinto
Palazzo Belmonte Riso
Corso Vittorio Emanuele, 365, Palermo
22 marzo – 25 Aprile 2018
https://www.poloartecontemporanea.it
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