Occupypac. Al Pac di Milano un’occupazione simbolica per portare a galla contraddizioni, repressione, ipocrisie sul tema dell’arte pubblica

di Alessandro Riva

#occupypac. È con questo slogan che un gruppo di artisti e “agitatori culturali”, tra i quali c’è chi scrive, alcune sere fa ha preso simbolicamente possesso del Pac, il Padiglione d’arte Contemporanea di Milano, durante la conferenza di apertura del convegno “Street Art Sweet Art dieci anni dopo” (convegno affidato alla cura di Chiara Canali), che lo stesso museo aveva indetto per celebrare la mostra del 2007 che ha aperto per la prima volta la strada all’ingresso della street art nelle sedi museali e istituzionali, oltre che per fare il punto sullo stato della scena street milanese e italiana a dieci anni di distanza da quell’esperienza. Ma le cose non sono andate come avrebbero voluto l’Assessore alla Cultura Del Corno e il direttore dei musei milanesi Piraina. Non sono andate come volevano loro, con una presentazione ingessata e istituzionalizzata, e la parola “concessa” agli artisti solo in seconda battuta e dopo una lunga trafila di interventi istituzionali, per tanti motivi.

Malumori che covavano da anni, senso di rabbia e frustrazione verso la politica cittadina che ha sempre promesso spazi, agibilità, iniziative nei quartieri, e che poi ha sempre risolto con poco o nulla di fatto, con “tavoli” che non hanno mai portato a nulla, salvo il ridicolo contentino dei “100 muri liberi”, con spazi museali gestiti in maniera elitaria, burocratica e senza alcuna apertura nei confronti degli artisti indipendenti, estranei ai giochi di potere delle grandi gallerie e delle ingessatissime associazioni di collezionisti, e infine con una politica repressiva nei confronti del graffitismo illegale che non ha eguali in nessun’altra città italiana: a Milano, oggi, per chi non lo sapesse, se i vigili beccano un ragazzo con una bomboletta a dipingere per strada vanno a casa sua, gli sequestrano telefono e computer, gli setacciano il computer a caccia delle foto dei suoi altri lavori per poi imputarglieli tutti, uno per uno, come “fatti criminosi”. E non solo: se il ragazzo beccato non è da solo, ma in compagnia di amici e compagni di strada, se insomma quello beccato non è un singolo artista ma un’intera crew, sapete cosa fa la magistratura? Va per le spicce, e manda tutti a processo per associazione a delinquere. Come fa con i mafiosi, o con i terroristi.

Questa è oggi la situazione della città della moda, dei locali, dei grattacieli e dei designer, dove i responsabili della Cultura si fanno belli celebrando Keith Haring e Basquiat, ricordandone, sempre e solo a parole per carità, il loro carattere “ribelle”, per poi mandare in giro le squadre dei vigili a caccia di ragazzi con la bomboletta da sbattere in galera. Una politica della repressione scriteriata e cieca, che non può in nessun caso e in alcuna maniera conciliarsi con un’ipocrita celebrazione di facciata della street art, che sulla pratica illegale nasce e prende ossigeno e vita. Questa è la situazione che volevamo portare allo scoperto e denunciare con un’occupazione simbolica che ha rovesciato le regole e la scaletta di un convegno nato già storto, che ha eliminato preventivamente dal suo programma il nome del curatore della medesima mostra che si preparava a celebrare, che è nato incentrato tutto intorno alla questione del murale di Blu ed Ericailcane sulla facciata esterna del Pac (unico retaggio della mostra di dieci anni fa, da sempre malsopportato dalla Direzione del museo e dai responsabili della Cultura, forse per il suo carattere provocatorio e diretto, con la denuncia della montagna di cocaina, la droga dei ricchi nella quale sguazza allegramente la città, che ogni giorno migliaia di professionisti e bella gente della ex “Milano da bere” si pippa nel segreto dei bagni), sulla permanenza o meno del quale sulla facciata del Pac oggi si chiede alla cittadinanza un voto e un parere, un sì o un no: idea risibile, demagogica e populista, che non porterà un minuto di chiarezza in più e molta confusione al destino di un’opera che in dieci anni è rimasta sulla facciata di uno dei più importanti musei italiani nell’indifferenza generale, nella trascuratezza di chi avrebbe dovuto gestirlo e tutelarlo, nella totale amnesia e oblio dell’Amministrazione e di chi dirige la cultura cittadina, che lo hanno sempre vissuto come un malanno, una malformazione, una malattia da cui doversi guardare e di cui diffidare, e sull’esistenza della quale è meglio far finta di nulla, non parlarne, non promuoverlo e non farlo visitare.

Questa è stata la molla che ha fatto scattare la serata #occupypac, dove Atomo, prendendo la parola prima che Piraina e l’assessore Del Corno potessero aprir bocca, ha letto un comunicato in cui si ponevano all’Amministrazione una serie di rivendicazioni, tra cui: un confronto sugli spazi agli artisti, un piano di lavoro comune con gli artisti sulla politica dell’arte pubblica, la tutela dei muri decorati dagli artisti, anche illegalmente, e un cambio radicale di politica sulla repressione del graffitismo illegale. Questo è stato letto e argomentato nei primi interventi, dopodiché, una volta saltato il tappo, il caos e la gazzarra hanno preso il sopravvento, tra lo sconcerto, l’imbarazzo e lo shock dei responsabili del museo, dell’Assessore e dei dirigenti del Comune impietriti al tavolo della conferenza, a barcamenarsi e difendersi alla bell’e meglio da quello che non si aspettavano si sarebbe trasformato in un boomerang, un “J’Accuse” verso le politiche culturali e sociali dell’Amministrazione. Per chi scrive, però, anche il caos e la gazzarra, nati autonomamente e senza che nessuno ne potesse prevedere lo scoppio, la direzione e lo sviluppo, sono lo specchio del disagio che covava sotto la pelle di una scena artistica composita e articolata, che era ed è comunque viva, fremente, frizzante e tutt’altro che morta, ed è stato un bene, che solo ipocriti, furbetti e frustrati da tastiera, sempre bravi a fare i bulli dietro lo schermo del computer ma incapaci poi di confrontarsi, anche con toni aspri e urla, nella vita reale, hanno invece potuto considerare “indecente” o “imbarazzante”, solo perché rompeva le regole del dibattito civile e composto che avrebbero auspicato gli organizzatori. La vita reale, e l’arte reale, ce ne si faccia una ragione, è fatta anche di questo: di scazzi, di urla, di momenti di tensione e di discussione anche violenta e sopra le righe. Sano e liberatorio, allora, è stato far venire a galla, pubblicamente e senza ipocrisie, come in uno psicodramma collettivo, la rabbia e l’incazzatura che da anni covavano sotto la pelle di questa scena artistica e che da settimane, durante la lunga preparazione del convegno, si rincorrevano via mail e via chat tra gli artisti, in mezzo a montagne e montagne di veleni, di insulti, di recriminazioni e dileggi reciproci. Le tensioni, noi crediamo, vanno fatte esplodere, non lasciate a covare sotto la pelle per ipocrisia e terrore del caos che ne potrebbe seguire. Chi dà lezioni agli altri di galateo e di superiorità intellettuale standosene ben chiuso nella propria stanzetta e da dietro la tastiera del computer non ha e non può avere voce in capitolo.

Ma facciamo un passo indietro per cercare di contestualizzare ciò che è accaduto in questi anni, e in questi giorni, a Milano. “Nella città ci annoiamo. Non c’è più il tempo del sole”, scrivevano i situazionisti nel 1958, nel Formulario per un nuovo urbanesimo. In queste città, i situazionisti avevano trovato una (impossibile) soluzione alla “noia” dello spettacolo imposto dall’alto e monodirezionale della città moderna, nella “creazione di situazioni” (teoria della deriva, psicogeorafia, etc.). Molti anni dopo quel formulario, gli artisti che oggi noi raggruppiamo, un po’ alla buona, sotto il nome di “street artist”, hanno fatto proprio, spesso inconsapevolmente, alcuni di quei concetti, riscoprendo tra le pieghe della spaventosa prevedibilità delle città contemporanee, fatte di regole, obiettivi, dazi da pagare e incontri preordinati, la possibilità di trovare nuovi punti di vista, inaspettate soluzioni di fuga, attraverso, ancora una volta, la “costruzione di situazioni”: non solo e non necessariamente disegni o scritte su muri o su treni, ma creazione di situazioni imprevedibili, non codificate dalle regole urbane tradizionali o dal mero passaggio di denaro tra un datore e un fruitore: raggruppamenti, alleanze, scazzi, invenzioni poetiche, linguaggi in codice, esercizi di stile. In ogni caso, un’attività che trascende l’immobilità dello spettatore-fruitore, per divenire attività autonoma e attiva (Débord: trascinare lo spettatore “all’attività, provocando le sue capacità di mutare la vita”).

Ma oggi, che una buona parte di artisti irregolari e privi di padri e di padrini ha sperimentato, ormai da anni, la possibilità di uscire dalle regole per “trascinarsi nell’attività” e conquistare liberamente le strade della città, diventando esempio e modello per migliaia di altri ragazzi più giovani, i musei e le istituzioni culturali rimangono invece ancora fatalmente chiusi, impermeabili a qualunque rivoluzione. Parafrasando l’incipit del Formulario, anche noi oggi potremmo allora dire: Nei musei d’arte contemporanea ci annoiamo. Nessuno scatto di intelligenza, nessuna novità, nessuna sperimentazione che non sia quella già trita e ritrita dell’avanguardia che cita all’infinito se stessa. L’arte contemporanea, questa palestra di elitarismo che si ripete sempre uguale a se stessa da decenni, non interessa a nessuno, non emoziona nessuno, non scalda i cuori, non eccita, non appassiona, non diverte, non fa muovere folle oceaniche. I musei d’arte contemporanea – e il Pac, in questo, non fa eccezione – sono cattedrali nel deserto, con quattro gatti che si salutano tra loro alle inaugurazioni e vuote per il resto dell’anno. Diciamocelo una buona volta: le mostre d’arte contemporanea, così come sono fatte e concepite oggi, non interessano nessuno, non eccitano nessuno, non scaldano il cuore di nessuno. In una parola, sono ininfluenti, e fra trent’anni non saranno ricordate se non dai quattro gatti che ci hanno costruito su una carriera di artisti “laureati” o di funzionari o direttori di museo dei quali nessuno, per fortuna, ricorderà più neppure i nomi.

Provate oggi a chiedere a un ragazzo di sedici o vent’anni se si ricordi di una mostra d’arte contemporanea vista al Pac, se conosca il nome di un artista vivente che vi ha esposto, se conosca anche solo l’indirizzo di quello che dovrebbe essere il primo dei musei milanesi, il più aperto alla cittadinanza, ai giovani, alla sperimentazione. Statene pure certi: non ne ha la più pallida idea, e la cosa non gli fa né caldo né freddo. Semplicemente, non ha alcun interesse per un museo che, come la maggior parte dei musei d’arte contemporanea oggi, si occupa solo della sopravvivenza di un sistema elitarista e autoreferenziale.

Questa è l’idea d’arte e di cultura che oggi la maggior parte di assessori, funzionari, responsabili di musei senza fantasia, senza passione, senza uno straccio di politica culturale per la cittadinanza e men che meno per i giovani artisti, stanno portando avanti e stanno sostenendo, con ottusa coerenza, da decenni. Anche solo per entrare al Pac, bisogna pagare 8 euro (6,50 con riduzione), il corrispettivo di un cinema, di una pizza, di un kebab e di una birra, di un pacchetto e mezzo di sigarette. Statene pur certi: tra un kebab con birra e una visita a una mostra che non capisce e non gli interessa, un ragazzo preferirà sempre il kebab e la birra. Le visite guidate per le scuole, i programmi didattici non cambieranno nulla, non influiranno per nulla su una situazione che andrebbe risolta alla base, radicalmente, rendendo per prima cosa gratis un museo che altrimenti non serve a niente e a nessuno, eccetto che alle quotazioni dei pochi artisti che vi riescono ad esporre e ai portafogli dei loro galleristi.

L’unica mostra che ha smosso folle di ragazzi, che ha interessato e appassionato decine di migliaia di giovani e di meno giovani senza pubblicità, senza soldi, senza aiuti, senza collaborazione alcuna da parte della macchina comunale e dei funzionari che oggi volevano celebrarla come un “loro” successo personale (ma non è così, e noi abbiamo inventato #occupypac per ribadirlo) è stata proprio Street Art Sweet Art, nel 2007. Sessantamila visitatori in meno di un mese, quello che il Pac normalmente forse non mette insieme neanche in tre anni di mostre elitarie e spesso (non sempre, ma spesso) noiosissime. Per uguagliare e superare il numero di visitatori di questa mostra, il Pac ha dovuto permettere lo scandalo, o il non-senso, di far allestire una mostra alla Pixar, la multinazionale dell’intrattenimento che nulla ha che fare e a che spartire con l’arte contemporanea. Il Pac ha avuto soldi dalla Pixar per permetterle con tanta leggerezza di entrare nel tempio dell’arte contemporanea? Se sì, come li ha spesi? Per promuovere mostre di arte giovane, di sperimentazione, per dare modo agli artisti italiani di poter crescere e svilupparsi? Non sappiamo, ma al momento non ci risulta. Sarebbe d’altra parte ora di rendere pubblici i numeri, i costi, i meccanismi e le scelte di gestione di quello che dovrebbe essere l’eccellenza dell’arte contemporanea a Milano, e che da anni e anni non ha alcuna influenza sul sistema culturale milanese, e men che meno in quello italiano.

Ma veniamo a noi. Nel 2007 io stesso, con un manipolo di artisti di strada, decisi dunque di fare una mostra al Pac su quella che era allora la scena “street”, ancora divisa tra writing tradizionale e nuovi esempi di street art. L’idea è cresciuta e maturata collettivamente, in ore e ore di riunioni, di discussioni e anche di bevute, come un tempo era normale e sarebbe normale anche oggi che nascessero i progetti che lasciano un segno nella storia, e non al chiuso di un ufficio comunale. L’idea di farla al Pac e non altrove è venuta a un artista, Ozmo, e non a un funzionario o a un assessore. Il Pac, perché è il luogo del contemporaneo, per consacrare e mettere alla prova un movimento che era maturo e pronto per confrontarsi alla pari con il sistema dell’arte contemporanea italiano. La mostra non ci è stata concessa dall’alto. Nulla ci è stato concesso. Ci siamo presi quello che era giusto, quello che era il momento giusto per prenderci, complice un assessore fuori dalle righe e fuori dagli schemi e dalle logiche della prudenza e del conformismo di ciò che è artisticamente corretto e ciò che non lo è, un uomo che non ha bisogno di presentazioni, Vittorio Sgarbi.

Abbiamo voluto e costruito quella mostra passo per passo, con le nostre sole energie, con le nostre idee, con le nostre discussioni, con le nostre mani. Un gruppo ristrettissimo di artisti, quelli che fin dalla prima ora ha voluto e creduto nel fatto che fosse il momento giusto per fare uscire, anche solo per un momento, la street art dalla logica della strada per confrontarsi con quello che era uno dei più importanti spazio pubblici italiani per il contemporaneo, ha costruito assieme a me questa mostra. I loro nomi sono Atomo, Ivan e Airone. Gli altri, tutti gli altri, ci hanno spalleggiato, hanno contribuito collettivamente alla costruzione della mostra, hanno portato idee, energie, creatività, ognuno a suo modo.

La mostra è stata voluta da noi, prodotta da noi, costruita da cima a fondo da noi. Non abbiamo avuto contributi, aiuti o finanziamenti dalla macchina comunale, non abbiamo avuto l’appoggio dei funzionari del Comune, che hanno subito più che appoggiato una mostra che nasceva fuori dalle logiche di produzione e di scelta del Pac e della direzione dei musei milanesi, che voleva e doveva testimoniare la vitalità di un movimento in grado di occupare simbolicamente il Pac – come testimoniava la bandiera dei pirati issata, simbolicamente, sul cancello esterno del Pac (omaggio dell’artista Felipe Cardeña) come simbolo di una conquista ottenuta con la volontà, con la gioia, col coraggio e la libertà di un manipolo di artisti che non temevano nulla, non avevano prebende da ottenere, guadagni da fare né calcoli di interesse o di opportunità da incamerare. Per un mese, il Pac è stato una fucina di creatività libera e spontanea. I ragazzi sono venuti a frotte a vedere lo scandalo degli artisti di strada che occupavano con la loro presenza folle e ingombrante il tempio dell’arte contemporanea milanese.

Le pareti interne del museo erano un tripudio di creatività, di intelligenza, di immagini, di colori. Erano le immagini e i colori che quegli stessi artisti, da anni, disegnavano sui muri, sui treni, sui cavalcavia, sulle saracinesche, sui paracarri, senza chiedere il permesso a nessuno, senza dover ricorrere a nessuna concessione, a nessuna trafila negli uffici comunali, a nessuna umiliante anticamera fuori dalle stanze chiuse dei funzionari comunali responsabili della gestione dei musei milanesi.

Un albero capovolto, opera di Marco Teatro, apriva idealmente la mostra con la forza del suo segno simbolico di capovolgimento delle regole del sistema dell’arte, del piccolo conformismo culturale, del rispetto delle regolette non scritte che dividono gli artisti in “buoni” e “cattivi”, tra quelli degni di entrare nei grandi musei e quelli che invece ne devono restare fuori, perché estranei ai giri delle gallerie che contano e del collezionismo chic. Benché non fosse un’opera di street art, ma un’opera d’arte tout court, con manualità artigianale derivata dalla scenografia, l’albero capovolto è stato fortemente voluto da me come simbolica apertura della mostra, simbolo della libertà della strada che entra con prepotenza nel museo.

Al primo piano, l’intera balconata del Pac è stata invasa dalle creazioni e dai manufatti degli artisti, quelli che erano stati invitati alla mostra e quelli che non erano stati invitati: era il Bazaar Pop Up, estensione concettuale del celebre Pop Shop di Keith Haring, a esempio e dimostrazione di un’arte che dalla strada dilaga come un fiume in piena sulle magliette, sugli skateboard, sui componenti d’arredo, su ogni forma di oggetto di uso quotidiano. Era l’esempio fisico e lampante di un’arte che esce dalle piccole pareti del museo e della galleria per invadere con la sua potenza visiva e la sua creatività ogni anfratto della vita quotidiana, come avviene da anni in ogni parte del mondo, e di cui solo in Italia non ci si era ancora accorti.

Fuori dal Pac, un immenso murale, realizzato da quello che in seguito sarebbe diventato uno degli artisti italiani più famosi al mondo, Blu, assieme ad Ericailcane, rappresentava simbolicamente una sconcia “grande abbuffata” – di cocaina, di denaro, d’arte per pochi, di prostituzione e di potere o di un’altra delle tante droghe creata e venduta dall’occidente dei ricchi e dei potenti, che quotidianamente si svolge sotto gli occhi di tutti, nella società, nelle stanze dei bottoni, nelle amministrazioni pubbliche, nel sistema dell’arte. Lo scandalo degli artisti liberi e senza protettori che invadevano senza regole il museo aveva dunque il suo specchio perfetto nello scandalo di un’opera che gettava un guanto di sfida al perbenismo e al conformismo di chi muove le leve del potere e del denaro nella società delle esclusioni, dei divari sociali sempre più ampi e delle transazioni opache di soldi, di incarichi e di favori reciproci tra ricchi e tra potenti.

Il contenuto dell’opera di Blu e di Ericailcane non è stato preventivamente concordato con il curatore, agli artisti non è stata data alcuna limitazione, alcun bozzetto da presentare, alcuna regola di opportunità o di decenza. La scelta di Blu e di Ericailcane è stata mia, e solo mia. Non è stata concordata con Sgarbi o con l’amministrazione, nessun funzionario o commissione o sovrintendenza ha messo bocca su una scelta libera, legittima, una scelta di consapevolezza e di libertà.

Blu ed Ericailcane hanno chiesto di essere pagati: ma con paga oraria, al prezzo di un imbianchino, e non da artisti, come scelta politica e ideologica. I soldi per pagare l’opera ce li ho messi io stesso, di tasca mia: non l’Amministrazione, non la direzione del Pac, non la direzione dei musei milanesi. Io, e con me gli artisti che hanno realizzato questa mostra, abbiamo regalato alla città un’opera che è la prima opera di un grande artista conosciuto e stimato a livello internazionale come Blu, a campeggiare sulla facciata di un museo. L’Amministrazione dovrebbe esserne orgogliosa. Dovrebbe ringraziare pubblicamente chi ha permesso che un’opera del genere campeggiasse sulla facciata di uno dei principali spazi pubblici per l’arte contemporanea in Italia, caso unico al mondo. Ma alle amministrazioni evidentemente gli artisti, come gli intellettuali scomodi e non organici al potere, piacciono solo da morti, da celebrare ex post, come Haring e Basquiat. In dieci anni, nessuna guida, nessuna attività di promozione e storicizzazione, nessuna attività di conoscenza e di approfondimento ha pubblicizzato la più importante opera di arte pubblica che Milano conservi sul muro di uno spazio pubblico. A Roma, ogni settimana centinaia di persone si recano in un quartiere semi-periferico, Tor Marancia, per visitare le opere che artisti e street artist hanno realizzato. In tutto il mondo il fenomeno della street art, un’arte che salta la mediazione della galleria e del museo, suscita interesse, curiosità, passioni non solo presso gli specialisti o i conoscitori d’arte. A Milano, un museo ha avuto, gratis, un’opera gigantesca di uno dei maggiori street artist, pardòn, di uno dei maggiori artisti italiani contemporanei. L’ha avuta gratis, e l’ha tenuta per un decennio. Ora, che l’artista nel frattempo ha girato i musei di tutto il mondo, che ha sconvolto Bologna cancellando le sue opere per protesta contro chi voleva staccarle e privatizzarle, che ha sostenuto cause politiche e di battaglia in ogni angolo del globo, cosa credete che abbia fatto la direzione del Pac, e con questa l’amministrazione comunale? Ha indetto un sondaggio, pensate un po’, per decidere se conservarlo o se cancellarlo. Ma ditemi voi: se aveste per le mani un’opera, avuta gratis et amore dei, che ne so, di Picasso, di Dalì, oppure, per restare più vicini a noi, di Keith Haring o di Basquiat, vi porreste il problema di come valorizzarla, farla conoscere, spiegarla alla cittadinanza, o vi arrovellereste sul dilemma se tenerla o cancellarla? No, loro hanno fatto un sondaggio. Un sondaggio! Ma perché allora non fare un sondaggio chiedendo ai cittadini se tenere o buttare giù la statua di Leonardo in Piazza della Scala, o lo stesso Palazzo Reale, o il Planetario, o perché no il Duomo, come provocatoriamente abbiamo chiesto in un nostro ironico e giocoso controsondaggio, che abbiamo posto provocatoriamente di fianco a quello ufficiale, e che ci è stato ripetutamente nascosto e censurato?

La verità è che lo “scandalo” dell’opera di Blu ed Ericailcane rimasta dimenticata e abbandonata sulla facciata del Pac, come una brutta malattia, un foruncolo, un pasticcio di cui non si sa più come e quando liberarsi, poiché qualunque soluzione appare oggi incongruente e portatrice di possibili tensioni (non si può restaurarla, senza l’assenso di Blu; non si può lasciarla così perché ormai cade a pezzi; non si può neanche cancellarla tout court, pena il rischio di una rivolta collettiva di chi in quell’opera crede e si riconosce, per spirito identitario e vicinanza emotiva e ideologica), non è che lo specchio perfetto, cristallino, la cartina di tornasole del modo in cui è stata malsopportata, maldigerita e malvissuta l’intera mostra, nonostante e a dispetto della pseudo-celebrazione che oggi ne viene fatta, del disagio profondo che la direzione del Pac, l’Amministrazione comunale, l’intera struttura milanese dei musei pubblici ha provato e prova di fronte a un approccio all’arte profondamente conturbante e non concordato, non condiviso, non mediato dal consenso e dall’appoggio delle gallerie più importanti, dal mercato, dal collezionismo che conta, insomma dal sistema a cui il museo stesso, per sua natura, piaccia o no, tende sistematicamente a far riferimento, divenendone suo malgrado culturalmente allineato e a tratti subalterno.

Oggi, però, proprio l’imbarazzante presenza del murale di Blu ed Ericailcane, che anziché essere vissuto come un’opportunità o un gioiello di cui fregiarsi appare sempre più come una grana, una rogna, un pasticcio che si vorrebbe poter far sparire con un colpo di bacchetta magica, è lo specchio perfetto della vittoria e della forza di quella mostra, che a dieci anni di distanza continua a far discutere, a dividere, a portare a galla nervi scoperti, problemi mai risolti, ignavie, ipocrisie, soluzioni non trovate e non cercate.

Se qualcuno si lamentava, come Luca Beatrice, che gli artisti italiani di oggi (quelli amati dai musei e dalle gallerie italiane) sono “giovani, carini e mosci”, in una parola ininfluenti e non incidenti sulla realtà, la cui ironia o il cui sarcasmo è quasi sempre fatto per piacere e per far sorridere, mai per disturbare e creare problemi, ebbene gli artisti che provengono dall’altra parte della barricata, quelli oggi sinteticamente chiamati “street artist” dimostrano di possedere, quando vogliono, le palle per incidere, creare problemi, mettere a nudo le contraddizioni del sistema. Sì, sono (e con loro anch’io, e altri miei compagni di strada) non facilmente inglobabili, litigiosi, irriducibili, sempre divisi, contraddittori, frustrati, infelici, a volte “maleducati” e “imbarazzanti”, come si lamentano oggi le fighette da tastiera; ma proprio per questo vivi. Se l’arte serve oggi ancora a qualcosa, non sarà certo per far gioire le signore della buona borghesia milanese riunite nelle associazioni di collezionisti e nei boarddei musei. No cari miei: è per rompere, infastidire, scioccare, imbarazzare, in una parola far esplodere le contraddizioni di un sistema che si autoalimenta e non vede al di là del proprio naso. Ancora una volta, possiamo dirlo forte: la teppa è andata all’assalto del cielo, i pirati, gli artisti non protetti e non garantiti, non appoggiati da nessun ingranaggio del sistema e da nessun potere, ha conquistato ancora il tempio dell’arte, mettendone a nudo debolezze, incertezze, contraddizioni, insicurezze. #occupypac è questo e più di questo. E, statene certi, la battaglia non è ancora finita: è appena all’inizio.