“L’arte? A volte mi va stretta. Ma è la mia unica zattera di salvataggio”. Parola di Giovanni Albanese

di Giuditta Elettra Lavinia Nidiaci

Albanese

“C’è una luce che non si spegne mai”, recita una celebre canzone del gruppo alternative rock britannico “The Smiths”, che ci invita a una riflessione importante e mai scontata: c’è sempre qualcosa che brilla per noi, il mondo, la natura, sono pieni di bellezze da scoprire, la meraviglia risiede soprattutto nelle piccole cose quotidiane, nel sapersi ancora stupire di ciò che ci circonda. Questa dimensione, che potremmo definire a tratti “intimista”, si ritrova senza difficoltà nel lavoro di Giovanni Albanese, celebre artista e regista affermato, che dalla fine degli anni ’80, lavorando con sculture ed installazioni “fiammeggianti”, riporta in vita la quotidianità e il gioco, l’ironia e quello stupore assoluto che spesso solo gli oggetti, le cose semplici sanno dare. Quasi come un “fanciullino pascoliano”, o come “L’Emilio” di Rousseau, il lavoro di Albanese ci riporta a osservare la vita con gli occhi dei bambini, con quella luce, quel bagliore che è “incipit” della vita stessa. Tanti gli artisti che hanno “fatto luce” nel corso degli anni, tenue o forte non importa, basta che illumini: pallida e delicata per Piero della Francesca, o un’ossessione quasi inafferrabile per Monet, intima per Bonnard, neon, colorata e concettuale per Bruce Nauman, votiva e quasi spirituale, ma anche giocosa e immediata, in ogni caso meravigliosa e in grado di stupirci sempre, la luce di Giovanni Albanese. In questa intervista esclusiva l’artista-regista si racconta e ci racconta il suo rapporto con la luce, dal suo stupore di bambino allo stupore oggi negli spettatori della sua arte e del suo cinema.

In relazione alle tue famose “opere fiammeggianti”, in particolar modo alle più recenti, come lo “Stargate” esposto presso la chiesa sconsacrata di Santa Rita nel ghetto di Roma, come definiresti il tuo rapporto con la luce?

Il mio rapporto con la luce ha origini lontane, è nato dallo stupore della mia infanzia, di giovane ragazzo pugliese che cresce insieme alle luminarie, alle lampadine votive. Quelle lampadine hanno sempre suscitato in me stupore e meraviglia, con il tempo poi sono diventate delle vere e proprie “cifre” per le mie opere d’arte. A Santa Rita al ghetto, ho presentato questo “Stargate”, un’opera site-specific, che si può considerare “religiosa”, poiché rimanda ad alcuni simboli altamente spirituali. La luce in questo caso fa da contorno, fa da “perimetro”, rappresenta quasi un’apertura verso un’altra dimensione.

Hai parlato dello stupore che la luce ti ha donato nel corso della tua vita, ma come vivi invece lo stupore estetico che suscitano le tue opere nello spettatore?

Avendo lavorato prima sulla pittura, e poi da anni sulla scultura, mi sono accorto che quest’ultima, comprensiva della terza dimensione, incontra più facilmente il mio gusto e il mio sentire. La scultura e conseguentemente la tridimensionalità mi rimandano a un senso d’ironia e di gioco, trovo quasi infantile lavorare su qualcosa che dà stupore. La ricerca dello stupore da parte del pubblico è sempre stata centrale nel mio lavoro, si può dire che la mia vita sia stata una ricerca continua nella relazione con gli altri e con me stesso; questo mi ha portato non solo a lavorare come artista visivo, ma anche a scandagliare altri mezzi di comunicazione. Quasi tutte le mie opere sono anche cinetiche, quindi si muovono, giocano con lo spazio, interagiscono con lo spettatore; questo vale anche per le lampadine a fiamma che animano le mie opere più famose: anche loro si muovono, poiché è una fiamma che non sta mai ferma. Di conseguenza, creare fascinazione e stupore nel pubblico per me è fondamentale, più vado avanti con la ricerca nel mio lavoro, più mi soffermo sui particolari, e reputo che questi ultimi contengano di per sé il tutto.

Ti riferisci quindi al tuo essere anche regista di cinema?

Certamente. La mia voglia di comunicare è grande, e francamente non mi era sufficiente la dimensione dell’arte contemporanea, quindi ho rivolto lo sguardo a una situazione più ampia, di maggior diffusione, qual è appunto il cinema. Tra arte e cinema poi, c’è una distanza minore di quella che potremmo pensare; ci sono infatti diversi artisti che fanno cinema, come Julian Schnabel, Robert Longo, Rebecca Horn, e ci sono alcuni registi che fanno arte, tipo Michelangelo Antonioni, Fellini, Cesare Zavattini, David Lynch. A un certo punto ho reputato che lavorare con immagini che si muovono sarebbe stata una cosa che avrei particolarmente apprezzato, e di conseguenza ho cominciato a pensare in termini di grande schermo, di cinematografia. Arte e cinema, riflettendoci bene, finiscono entrambi su una tela bianca. Parlando nello specifico, il cinema per me è l’ultimo esempio di bottega rinascimentale, dove tanti maestri concorrono alla realizzazione della stessa opera fatta da un artista: tanti maestri, come lo scenografo, il direttore della fotografia, il costumista, ecc., concorrono all’opera del regista per comporre un unico quadro.

Ci sono state scene, nei tuoi film, che hai pensato come vere e proprie opere d’arte? Come diresti che s’influenzano, vicendevolmente, la tua arte e il tuo cinema?

Il rapporto tra arte e cinema, come già detto, è molto stretto. David Lynch per esempio, nel suo celebre film “Cuore selvaggio”, riprende Nicholas Cage all’interno di un’auto che viaggia nel deserto dell’Arizona, nella scena egli nota un incidente, nel quale c’è una macchina rovesciata, ancora fumante; questa scena è ripresa da una serie di grafiche realizzate da Warhol, dal titolo “Saturday Disaster”, per questo motivo un’approfondita conoscenza dell’arte può facilmente influenzare il cinema. Nel mio caso invece, nel mio lavoro, non ho specifici riferimenti a opere d’arte, direi piuttosto che il rigore che metto nel “comporre” un’opera d’arte cerco costantemente di ritrovarlo nel comporre la scena di un mio film; questa serietà, questa mancanza di orpelli che l’arte dovrebbe avere, mi viene in aiuto nei lunghi e stancanti momenti delle riprese cinematografiche; per me quindi l’arte rappresenta una vera e propria “zattera di salvataggio”, sia a livello estetico che a livello etico, poiché a mio parere l’estetica e l’etica sono la stessa cosa.

Quale ritieni sia l’elemento che maggiormente accomuna Giovanni Albanese artista e regista?

Giovanni Albanese, Strumento per parlare con Marilyn, 2012.

Per quanto riguarda sia il mio lavoro d’artista che il mio lavoro di regista, c’è sicuramente un elemento che accomuna le due dimensioni, ed è senza dubbio il forte senso d’ironia. Nei film che ho realizzato, che possiamo in maniera ampia definire commedie, emerge il grottesco, l’ironia viene fuori in maniera abbastanza prepotente. I protagonisti dei miei film, per esempio del mio ultimo “Senza arte né parte”, sono degli operai licenziati, degli scaricatori di pasta, quelli che si potrebbero definire gli ultimi fra gli ultimi, i quali incontrano il mondo più alto, più snob se vogliamo, più elitario che c’è, ovvero il mondo dell’arte contemporanea. Unire quindi questi due estremi, che probabilmente mai si sarebbero toccati se non in un film, provoca un contrasto forte, come una scintilla, da cui nasce questa ironia forte, a tratti anche cattiva, velenosa, ma in ogni caso bella, poiché quegli operai nel loro rapportarsi con l’arte contemporanea non dicono mai sciocchezze del tipo “questo lo potevo fare anch’io”. Come disse il grandissimo Bruno Munari, non credete a quelli che dicono “questo lo posso fare anch’io”, poiché non è vero, se ne fossero stati davvero capaci l’avrebbero già fatto; per cui i protagonisti non dicono mai “lo potevo fare anch’io”, da operai hanno un forte senso di concretezza nei confronti della vita, e al contempo un timore reverenziale nei confronti dell’arte; cercheranno quindi, con umiltà, di riproporre la loro versione di opere famose come l’ “Uovo con impronta” di Manzoni, i tagli di Fontana, i bachi da setola di Pascali. Per quanto riguarda invece i miei lavori d’arte contemporanea, spesso l’elemento ironico è palese, mi piace creare lavori che spaziano dalla commedia alla tragedia, dall’ironia allo stupore assoluto.

Ci puoi parlare Giovanni dei tuoi prossimi progetti, sia nell’arte che nel cinema?

Per quanto riguarda l’arte, sto per inaugurare una mostra personale alla galleria Pio Monti a Roma (che aprirà il 22 giugno, ndr), dal titolo “Tartarughe felici”. Per quanto riguarda il cinema, invece, sto scrivendo il soggetto del nuovo film. Di questo non posso ancora dire quasi niente, ma ti posso assicurare che si tratterà di un film politicamente scorrettissimo…