Coquelicot Mafille, un’esplosione di colori per il Tunnel Boulevard di via Padova a Milano

di Emanuele Beluffi

Se dici arte pubblica dici arte urbana e se è vero che Milano è “the place to be”, allora vale la pena di arrampicarsi sui muri della città, magari là dove l’arte e la creatività non te le aspetti. E invece è proprio lì, che l’arte vive. Sui muri che tutti vedono e che nessuno guarda. Per esempio il sottopasso ferroviario di via Padova/angolo Pontano, che oggi vive con l’artista visiva italo franco danese Coquelicot Mafille ed è diventato il primo spazio espositivo urbano di poster art e stencil-collage pubblico in Italia (prima di lei, è stata la v0lta dell’artista italo-argentino Pablo Pinxit, ndr). Coquelicot Mafille è stata selezionata dalla giuria dell’open call “Tunnel Reload – Tunnel Boulevard” per la rigenerazione dell’ex infrastruttura ferroviaria di quella Milano che non c’è più, quella operaia di Sesto San Giovanni e della Breda, rimpiazzata dallo lo Storto, il Dritto e il Curvo, che non sono lo spin off del Buono il Brutto e il Cattivo ma i tre altissimi grattacieli che hanno ridisegnano lo skyline di Milangeles. Coquelicot Mafille ha realizzato un progetto ad hoc, che si adatta come un vestito su misura al tessuto di questo particolarissimo settore della città, multietnico, multiculturale e sempre in fermento creativo, creando un fregio di arte contemporanea che racconta l’identità proteiforme e magmatica di via Padova e del quartiere. Il risultato lo abbiamo visto la sera di venerdì scorso, giorno dell’inaugurazione: un collage di 70 metri x 2 m di altezza, 35 m per ogni carreggiata di via Padova, fatto di scie, linee, elementi di colore, sopra al quale Coquelicot ha incollato più di 60 figure dipinte e ritagliate a mano a comporre un caleidoscopio di forme e colori e parole. Parole in arabo e in italiano, frammenti poetici e riflessioni dell’artista, tra un codice magico in tamazigh, la poesia in arabo Carta di identità di Mahmoud Darwish, poeta palestinese, un aforisma di Rabindranath Tagore in Bengali che narra di fiumi da attraversare, un poema di Zang Di, in mandarino, Misteri i Lutjeve della poetessa albanese Luljeta Lleshanaku, Tortuga del boliviano Benjamìn Chavez, አቃጅ in amharic di Mihret Kebede, Infant Language in Tamil della poetessa dalit Sukir Tharani, Prière aux vivants di Charlotte Delbo, Bene, Vediamo un po’ come finisci di Patrizia Cavalli, l’alfabeto ebraico.

 

L’arte è per tutti? No se si considerano i prezzi delle opere d’arte. Sì si considerano le emozioni che esse tramettono. L’opera è dell’artista? Sì nel momento in cui la realizza. No, dal momento in cui è fatta e finita, è un po’ come la poesia: non è più del poeta ma di tutti. Soprattutto in questo caso, con un’opera artistica letteralmente e fisicamente donata al quartiere di Milano e alla città tutta, a tutti quelli che magari ignari passano e la guardano. “La mia felicità risiede nel vedere chi si ferma perché attirato da qualcosa di familiare e inizia a leggere”, dice l’artista. L’arte è di tutti e non occorrono espropri proletari. Come diceva il critico d’arte Marangoni, occorre “saper vedere”. E forse grazie al murale di Coquelicot Mafil, oltre a saper vedere riusciamo anche a imparare a guardare la città, finalmente, non più dall’alto al basso verso lo skyline fighetto, ma vis-à-vis, i suoi muri e le sue storie.