di Alessandro Riva
Artisti, scrittori, musicisti, creativi, cantanti, critici, letterati, centri sociali, illustratori, associazioni culturali: la lista è lunga, e prevedibilmente destinata ad allungarsi ulteriormente. Sono i (primi) firmatari, che in queste ore di tam tam sui social stanno via via aumentando man mano che le condivisioni e il passa-parola si diffonde e si espande sulla rete, dell’appello stilato dal gruppo di artisti e agitatori culturali che da qualche mese si è riunito sotto il nome di Wiola. Appello lanciato con il preciso intento di “modificare la norma dell’art.639 del Codice Penale Italiano” (quello relativo al reato di “deturpamento e imbrattamento di cose altrui”), “giacché” – si legge nell’appello – “l’inutile e strumentale guerra contro le tante espressioni autonome, non commissionate e creative per le strade (writing, street art, poesia di strada…) non costituisce la premessa ad una società migliore”, ma, più prosaicamente, rappresenta invece “lo svilimento delle aspirazioni dei giovani e dei creativi che lottano alla ricerca di spazi di socialità e di concreta realizzazione”.
“La legge”, si legge nell’appello, “deve essere misurata per essere credibile… Nell’era dell’informazione e della disinformazione digitale, la politica ha deciso di accelerare la lotta al graffitismo, per mostrare il volto della propria efficienza e trovare consenso: un gioco basato su strategie di comunicazione che sfrutta l’assioma: decoro urbano = sicurezza, promuovendolo fino a farlo diventare elemento di paura”. E dunque? Dunque, è arrivato il momento, scrivono gli attivisti di Wiola, “che la politica si occupi dei problemi veri delle città, delle diseguaglianze, della crescita scomposta delle metropoli, dell’avanzamento degli estremismi, della cancellazione dello spazio pubblico e luoghi di socialità in nome della gentrificazione: continuare a cercare capri espiatori non è la soluzione”.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso, portando gli attivisti di Wiola a scendere in campo cercando consensi, allargando la rete della protesta e chiedendo ad artisti, creativi, professionisti e associazioni di aderire all’iniziativa (qua il linkper aderire all’appello con la mail per l’adesione), è stata la notizia, già riportata da questo giornalealcuni mesi fa, della condanna di un giovane street artist milanese a 6 mesi e 20 giorni di carcere per avere “imbrattato muri e vetrine” in zona di Ticinese nel 2012 (condanna al momento non eseguita, unicamente perché il “criminale” si trova all’estero per lavoro).
Ma questa non è che la punta dell’iceberg: a Milano, in particolare, che della lotta ai graffiti illegali ha fatto la sua “bandiera”, utilizzata sia a destra che a sinistra come specchietto per le allodole alla ricerca di facili consensi elettorali, le sentenze di condanna per il reato di imbrattamento, sempre più pesanti e sempre più inflessibili, sono in costante aumento, non sempre solo pecuniarie e tutt’altro che simboliche. Fino, appunto, a prevedere l’apertura delle porte della galera per chi “sgarra”. Roba che neppure l’ex “sceriffo” De Corato, per anni vicesindaco delle giunte di centrodestra e nemico giurato dei graffiti, si sarebbe mai immaginato di vedere realizzata nei suoi sogni più rosei. Sogni che oggi – esattamente come avviene, specularmente, nella politica nazionale – si realizzano invece, senza problemi, sotto le giunte cosiddette “di sinistra”, mentre le città diventano sempre più classiste, sempre più divise tra centri storici “riqualificati” (esclusivi, ricchi, costosissimi) e periferie, come sempre lasciate a loro stesse, in balia di lotte tra poveri, tra “indigeni” e “immigrati”, tra degrado e abusivismo, senza alcuna politica reale di aggregazione sociale che non venga dal basso.
Città senza uno straccio di spazi a basso costo (come avviene in altre città europee) per giovani, creativi o associazioni; con politiche culturali di facciata, furbe, deboli e fiacche, del tutto private di investimenti pubblici, lasciate all’appalto di aziende e “mostrifici” privati, con prezzi di ingresso proibitivi per esposizioni e iniziative culturali, musei d’arte contemporanea gestiti in maniera verticistica ed elitaria da burocrati senza alcun contatto con le realtà culturali cittadine e con gli artisti, giochetti di prestigio per attrarre consensi senza alcuna reale progettualità politica o culturale.
Ma, in tutto questo, è proprio l’innalzamento dell’asticella della repressione verso tutto ciò che non si muove nell’alveo della più stretta “legalità” che sembra scandire le regole del “nuovo corso” politico, secondo una logica di “neo-rigorismo” di facciata che piace tanto a sinistra quanto a destra, utile a pigliar voti e a fare propaganda nei più ampi strati sociali, senza alcun senso etico della politica né traccia di progetti sociali a lungo termine. Ecco allora l’abbattersi del “pugno di ferro” per chi dipinge illegalmente ma anche per chi occupa, portandoli a nuova vita, spazi abbandonati da decenni, la creazione di una task force adibita unicamente alla lotta e allo studio degli stili degli artisti di strada, con l’unico scopo di perseguirli come “veri” criminali, richieste di danni spropositate, procedibilità d’ufficio, fino alla contestazione del reato di “associazione a delinquere”, come si usa per i mafiosi e i terroristi.
È questa, di fatto, la linea che la politica nazionale, con l’amministrazione meneghina in prima linea e prefettura, magistratura e polizia impiegate a pieno ritmo sul tema, stanno perseguendo in questi anni. A partire dall’inasprimento delle pene previste dall’articolo 639 del Codice Penale inserite nel pacchetto sicurezza varato nel 2009, con la procedibilità d’ufficio per quasi tutte le ipotesi di reato, fino alla modifica legislativa del 2016, che subordinava, per questi reati, la concessione della sospensione condizionale della pena “al risarcimento del danno o all’eliminazione delle conseguenze dannose del reato”: con la conseguenza che, se vieni condannato per una tag e non hai i soldi per risarcire il danno, fili dritto in galera (mentre, per reati molto più gravi, dallo stupro allo spaccio, la concessione di attenuanti o di pene alternative al carcere, che sono parte integrante dell’intero impianto di civiltà giuridica italiana ed europea, non sono subordinate ad alcun vincolo di restituzione del danno: basti questo per capire l’obbrobrio culturale e giuridico di una norma studiata ad hoc per i cosiddetti “imbrattatori”, giudicati in questo modo in maniera molto più severa di ben altre tipologie di “devianti”).
Un vero paradosso giuridico, dunque, che non solo non risolve il problema ma – esattamente com’è avvenuto per l’inutile e propagandistico inasprimento delle pene per la detenzione e lo spaccio di sostanze, anche leggere –, contribuirebbe, se applicato, unicamente ad affollare le già affollatissime e spesso inumane carceri italiane, creando percorsi di criminalizzazione e di esclusione sociale di giovani il cui unico reato è stato quello di aver scritto una tag o realizzato un dipinto sui tristi e grigi muri (a volte magari anche abbellendoli) di una città sempre meno accogliente e sempre più a misura di aziende e di immobiliaristi, e sempre meno aperta a progetti sociali che non siano quelli voluti dall’assessore di turno per lustrarsi la sua assessorile patacca; una città, com’è Milano oggi, sempre più cara, sempre più legata a interessi privati (non sempre trasparenti), sempre meno accogliente non solo verso chi, italiano o straniero, si trova in condizioni di difficoltà economica, ma in generale verso giovani artisti o creativi, che non possono permettersi né case né studi né laboratori nelle zone centrali e semi-centrali, e pian piano vengono così costretti a spostarsi sempre più verso le periferie, lasciando il centro ad uso e consumo di boutiques, ristoranti, bar da movida, discoteche – e naturalmente spacciatori di cocaina e di altre droghe per ricchi.
Si tratta, insomma, di una vera e propria “deriva” giustizialista e di una criminalizzazione verso un fenomeno che, paradossalmente, non arretra invece di un millimetro sui muri cittadini, sempre più pieni di tag e di scritte, alla faccia della repressione e delle inutili e propagandistiche campagne di “pulizia” a colpi di spugnette e selfie da parte di esponenti dell’Amministrazione cittadina e delle cosiddette associazioni antigraffiti.
Una deriva a cui sembra però volersi opporre, oggi, l’appello lanciato da Wiola dalla sua pagina Facebook, con l’evidente intento di riaprire il dibattito, stretto tra retorica della “legalità” e ricerca di un capro espiatorio su cui scaricare il disagio delle periferie e l’incapacità di gestire le complessità del presente. L’obiettivo finale? Forse, un cambiamento di rotta culturale, sociale e politico prima ancora che legislativo. E, finalmente, chissà, l’apertura di un dibattito vero, autentico, dal basso, non solo sul tema dell’imbrattamento dei muri, ma su quello delle politiche urbanistiche, artistiche e sociali delle nostre Amministrazioni cittadine.