di Alessandro Riva
Uno spettro si aggira per il globo. Lo spettro di un’immensa, sfavillante fica. O, per dirlo in maniera linguisticamente (e politicamente) più corretta: un’immensa “vagina”. Ossessione puramente e strettamente maschile o, ancora, tabù da superare nonostante le conquiste femministe e la conseguente liberazione sessuale? Forse entrambe le cose. Ma sono le donne (neofemministe? Postfemministe?) a riportare l’argomento di attualità. Creando scandalo, e, ancora, censura. Nel 2015, vi chiederete voi, siamo ancora qui a scandalizzarci per la rappresentazione dell’organo riproduttivo femminile, come ai tempi di Courbet? A quanto pare sì. La notizia è recente, anzi, recentissima: in Giappone, una giovane artista, Megumi Igarashi, in arte ‘Rokudenashiko’, che in inglese potrebbe tradursi “bad girl” (cattiva ragazza), è stata denunciata e arrestata. Non una, ma due volte: una prima volta nel luglio scorso, 2014, per aver creato opere che riproducevano, per l’appunto, la sua vagina. E una seconda volta, alla fine di dicembre, di nuovo, per aver inviato a una trentina di suoi collezionisti una riproduzione in 3 D, sempre con il medesimo soggetto, per raccogliere fondi per la costruzione di una canoa. Volete sapere la forma della canoa? Beh, avete indovinato: sempre quella di una vagina. La “bad girl” dell’arte nipponica si è così attirata ancora addosso i rigori della legge, ed è scattato un’altra volta l’arresto.
Com’è noto, infatti, in Giappone la riproduzione degli organi genitali, sia maschili che femminili, è tabù, tanto che persino i manga più spinti e più pruriginosi hanno sempre un “effetto pixel”, o una pecetta nera, o altra forma di censura, per coprire le zone genitali. “In Giappone”, spiega infatti Christian Gangitano, critico d’arte ed esperto di cultura giapponese, “la riproduzione e pubblicazione dei genitali è strettamente vietata. Il paradosso è che, d’altra parte, c’è molto più spazio alla fantasia di ogni sorta di deviazione e perversione, che qua in Occidente viene invece malvista o fortemente repressa. Pensiamo a pratiche quali il bondage, la medical arto altre forme di erotismo spinto ed estremo dal punto di vista dell’immaginario, che in Occidente faticheremmo ad accettare e a comprendere, anche da un punto di vista etico. Tanto che si può parlare di una precisa corrente artistica “hentai”, per definire le pratiche di erotismo metamorfico in auge in questi anni. C’è però una linea che in Giappone non va mai oltrepassata, ovvero quella dell’esposizione diretta dell’organo genitale, ampiamente accettata in Occidente, e che là è invece considerata oscena e dunque censurabile, senza alcuna eccezione”.
“I don’t believe my vagina is anything obscene,Non credo che la mia vagina sia per niente oscena”, ha però dichiarato Megumi Igarashi, in arte ‘Rokudenashiko’, al quotidiano “Japan Times”: facendo sapere, tramite i suoi avvocati, che intende dichiararsi “not guilty, non colpevole”. E continua la sua lotta: solo pochi giorni fa, l’artista è intervenuta a un’affollatissima conferenza di presentazione, a Tokyo, di una mostra sul tema della libertà d’espressione, dicendo: “La vagina non è oscena, non è nient’altro che una parte del corpo, dunque cosa c’è che non va nel riprodurla?”; sostenendo che, con le sue opere, intendeva fare qualcosa di “ludico”, e per nulla “scandaloso”. Ma sulla sua testa rimane una spada di Damocle: l’artista rischia una condanna pesante, che potrebbe persino tradursi in una pena fino a due anni di reclusione, o in una multa di circa 20 mila euro, per “diffusione di materiale osceno”.
Il tutto, nella sostanziale e quasi totale indifferenza dei media internazionali: nessun titolone sui giornali, come per Ai Weiwei, nessuna catena di solidarietà tra artisti e intellettuali libertari, come per Tania Bruguera, entrambi vittime della censura di paesi comunisti. Che faccia un po’ paura, nell’Occidente sessualmente (e apparentemente) “libero”, ma sostanzialmente assai puritano e sessuofobico, qualora la sessualità non rientri nei canoni del “politicamente corretto” corrente e abituale, parlare dell’arresto di un’artista (per di più donna!) che “mette in vendita”, metaforicamente, la propria vagina? Fa forse ben più gioco parlare, e far parlare, delle restrizioni alla libertà di un Ai Weiwei, o, meglio ancora, di una Tania Bruguera, che rompe le uova nel paniere al disgelo Cuba-Stati Uniti, ponendo l’accento sulla mancanza di libertà di espressione nell’isola caraibica. Ma esiste forse una libertà di serie A (quella dei dissidenti dei paesi che si dicono ancora socialisti), e una di serie B (quelli che in un modo o nell’altro vanno a cozzare contro le regole del moralismo sessual-sessuofobico occidentale)?
“Certamente sì, ci sono due pesi e due misure nel reagire allo scandalo o alla censura”, conferma Luca Beatrice, che in tema di arte e sessualità ha scritto un libro edito da Rizzoli (Luca Beatrice, Sex. Erotismi nell’arte da Courbet a Youporn). “Ma bisogna tenere presente che un artista come Ai Weiwei ha imbastito, con una buona operazione di marketing, gran parte del suo successo proprio sul suo essere perseguitato dal governo cinese, più che sull’intrinseco valore della sua opera. E non è altrettanto facile che in Occidente oggi ci si scaldi per l’ultima provocazione artistica in tema di sessualità, che peraltro mi sembra già un po’ vista (basti pensare all’artista americana Betony Vernon, che qualche anno fa in Triennale presentò delle opere che esaltavano i genitali femminili), se non ha dietro di sé forti motivazioni sociali o politiche”. Nessuna sessuofobia da parte dei media occidentali, dunque? “Non parlerei di sessuofobia. Semmai un po’ di stanchezza verso lavori che giocano sulla provocazione fine a se stessa, che oggi rischiano di parerci un po’ datati. La verità è che, in tema di sperimentazioni sessuali, oggi pare più interessante ciò che arriva da Internet, dal cinema o dal video, più che dal mondo dell’arte, che sembra aver sperimentato già tutto e il contrario di tutto”.
In compenso, però, sui social network, soprattutto dal Giappone, è subito partito un tam tam di solidarietà verso l’artista. Tutt’altro che di facciata: molti sostenitori fanno notare come l’intera società dei consumi, occidentale come orientale, sia permeata di riferimenti, spesso anche espliciti, alla sessualità e agli organi sessuali, femminili e soprattutto maschili. E allora, via a sbizzarrirsi: c’è chi posta dolci a forma di pene e di vagina, chi le pubblicità di profumi avvolti in un’aureola rosa, che rimandano direttamente alla forma della vagina; per non parlare dell’immagine del pene, a cui, in Giappone, è dedicata addirittura una festa tradizionale shintoista, chiamataKanamara Matsurie celebrata ogni primavera a Kawasaki, all’interno della quale è possibile assistere a parate in strada che vedono protagoniste enormi statue di peni eretti, portate in processione o distribuite ai partecipanti sotto forma di gadget.
E allora? Ciò che il consumo, il mercato, la pubblicità e addirittura la tradizione maschilista possono, nel nome del Dio denaro, fare, all’arte è ancora in parte vietato rappresentare? Certo, il tema è scottante. Di recente, nel giugno 2014, l’artista lussemburghese Deborah De Robertis, al Musée d’Orsay, si è spogliata di fronte al celebre quadro di Courbet “L’origine du monde”, aprendo le gambe e mettendo in mostra la propria vagina (vedi articolosu If Magazine). La direzione del museo ha subito chiamato la sicurezza e allontanato il pubblico.
In Francia, poi, è stato Michel Houellebecq, nel lontano 2001, a immaginare per primo l’azione di una giovane artista che, genialmente, parodiava, precorrendole, proprio il genere di operazioni cui oggi stiamo assistendo. “Quel giorno ricevetti la visita di una giovane artista che veniva a presentarmi i suoi lavori per allestire una mostra”, racconta il protagonista di Houellebecq, che, nel romanzo “Piattaforma” (edito in Italia da Bompiani), si occupa di promuovere eventi per il Ministero dei Beni Culturali. “Era giovanissima, un faccino tondo e banale, capelli a boccoli, pantaloni chiari e maglietta bianca… Mi disse che lavorava unicamente sul proprio corpo; con una certa inquietudine la guardai aprire la cartella. Sperai che non tirasse fuori foto di alluci amputati o cose del genere, ne avevo le palle piene di quel tipo di roba. E invece no, quelle che mi mostrava erano semplici cartoline postali con su stampata l’impronta della sua fica, resa con inchiostri di diversi colori. Ne scelsi una turchese e una malva; in fondo non mi dispiaceva non poterle dare in cambio qualche foto del mio uccello”, commenta, assai grevemente, il protagonista. Per poi continuare: “Come idea non era malaccio, ma bisognava dire che Yves Klein (che nel 1960 creò le celebri Anthropométries, dipingendo il corpo di una modella di blu e lasciando che imprimesse la sua traccia sulla tela, ndr), aveva realizzato qualcosa di molto simile già quarant’anni prima… Lei riconobbe che in effetti era vero, non si trattava di un’idea nuova, e comunque andava presa più che altro come esercizio di stile”.
Come al solito, Houellebecq mette il dito nella piaga, mettendo a nudo le contraddizioni di una società fondamentalmente decadente, pretenziosa e autoreferenziale, alle prese con una nevrotica e perenne ricerca di sempre “nuove” idee con cui sfidare il perbenismo dominante, ma incapace poi di incidere realmente sulla realtà se non tirando fuori, appunto, ideuzze trite e ritrite spacciate per colpi di genio: una fotocopia quasi perfetta dell’attuale mondo dell’arte contemporanea occidentale.
Ma il racconto non finisce qua. Ecco infatti come prosegue: “Tirò fuori dalla cartella uno strano arnese composto da due ruote di dimensioni diverse collegate da una sottile cinghia di gomma; sulla ruota più grande era montata una manovella che azionava il congegno. La superficie della cinghia di gomma era cosparsa di piccole protuberanze di plastica a forma di piramide. Azionai la manovella e posai il dito sulla cinghia in movimento; l’attrito di quelle protuberanze sulla pelle del polpastrello creava un effetto decisamente gradevole. ‘Sono calchi del mio clitoride’, disse la ragazza; ritrassi di scatto il dito. ‘L’ho fotografato con un endoscopio nel momento di massima eccitazione, poi ho riversato le foto sul computer. Con un programma di scansione tridimensionale ho riprodotto il volume, ho processato il tutto con ray-tracing, e infine ho passato i dati al laboratorio, per la fusione’.
Mi sembrava che si lasciasse trascinare un po’ troppo dall’aspetto tecnico. ‘Viene voglia di toccare, vero?’, mi disse in tono soddisfatto. ‘Avrei anche pensato di collegarlo con una resistenza, per accendere una lampadina. Che gliene pare?’. Mi pareva di no, la lampadina nuoceva all’immediatezza del concetto. Per essere un’artista contemporanea”, chiosa ancora il cinico e disincantato protagonista del romanzo, “quell’artista era proprio simpatica”. (…) Prima di lasciarla le domandai se i calchi fossero in scala uno a uno. ‘Certo’, disse lei, ‘è proprio questo il senso dell’operazione’”.
Preveggenza? Capacità ironica di immaginare in anticipo le strade, tra il demenziale, il pretenzioso e il grottesco, di cui l’arte contemporanea incessantemente si serve, nella sua ricerca verso ogni forma di sperimentazione e di provocazione? Un po’ tutto questo, certo. Forse, però, Houellebecq non aveva previsto del tutto la reazione di società, come quella giapponese, insieme ipertradizionaliste e iper-pop, e la relativa e conseguente indifferenza dell’Europa, incapace ormai di scandalizzarsi di tutto: sia della provocazione, sia della relativa censura; a meno che, certo, la battaglia contro la censura di turno non sia funzionale alle “sue” battaglie contro questo o quel fantasma in voga al momento nell’opinione pubblica che conta (sia esso l’islamismo, il sessismo, l’omofobia, il femminicidio, l’animalismo, e via cretineggiando e banalizzando all’infinito, come solo son capaci di fare i mezzi di disinformazione occidentali per solleticare il popolino nella sua sempiterna voglia di scandali e di gogne).
Anche in Italia, però, ci sono e ci sono stati, e non da oggi, vuoi episodi di provocazione artistica, vuoi sperimentazioni e riflessioni plastiche più “tradizionali”, sul tema dell’esposizione “senza veli” della sessualità (e del sesso) femminili. Tra le prime a lavorare su questa falsariga c’è stata indubbiamente Antonella Bersani, che fin dai primi anni Novanta, proprio come la sua più giovane collega giapponese, realizza raffinate sculture vulviformi, sorta di “sculture che ambiscono a individuare forme organiche nel loro divenire”, come spiega la stessa artista, “ponendone in evidenza sia il lato dinamico dello sforzo e della tensione, sia quello del germogliare e della proliferazione, che diviene nella mia fantasia uno dei possibili lucidi sviluppi della natura femminile”. Ecco allora vulve in gabbia, in scatola, in pacchetto, inserite dentro a mobili o a oggetti di design, o venerate come sculture classiche: quel che è certo è che il discorso sulla ”madre di tutte le forme” – la vulva appunto – era già stato ampiamente trattato dall’artista milanese, con bizzarre e oniriche ramificazioni tutte femminili, “che s’addensano su oggetti dalla quotidianità perduta, rintracciabile solo nella memoria degli stupori infantili, della fiaba che si dipana e scivola nel sogno”.
Più provocatoria e diretta, invece, è Grace Zanotto, che, vuoi assieme a Paola Fiorido (entrambe animatrici del collettivo artistico Famiglia Margini), vuoi in maniera solitaria, lavora da anni col corpo, e sul corpo, femminile, spingendosi fino all’esibizionismo, con operazioni che hanno spesso toccato i temi del consumo, della mercificazione, dell’ipocrisia dello “sguardo” maschile e occidentale: in occasione della mostra “Street Art Sweet Art” al Pac di Milano, nel 2007, tanto per fare un esempio, creò scandalo (ma senza essere né arrestata né fermata), con una performance ad alto contenuto erotico ed auto-erotico. Oggi, però, ha cambiato rotta: lavora sul suo opposto, la “burkanizzazione” del corpo femminile, trasformandosi in una bizzarra e iperpop “Super Burka Girl” in giro per il mondo. “Quello che cercavo nel nudo, l’ho trovato nel burka”, dice l’artista. “Purezza e universalità del corpo”. Quasi che a fare scandalo, oggi, non sia più il nudo femminile, ma, al contrario, la donna che si sottrae, volontariamente o meno, alle leggi, quasi sempre in funzione dello sguardo maschile, della seduzione. Che sia proprio questa l’ultima frontiera dello scandalo, nell’Occidente che ha ormai permesso, tollerato, sperimentato tutto?