di Alessandro Riva
La pratica del travestimento e dell’assunzione di un’identità – o di molteplici identità – diverse da quella originaria è stata, nell’arte contemporanea, una disciplina diffusa a partire soprattutto dagli anni Settanta, con un ritorno di attenzione verso il corpo inteso come mezzo non solo di espressione quotidiana del linguaggio non verbale, ma anche come possibile luogo di sperimentazione, anche estrema, di modi e identità diverse da quelle abituali, e non di rado, conseguentemente, anche come esercizio liberatorio e catartico, di affrancamento di energie imprigionate o non sufficientemente esercitate nel tempo “normale” della vita quotidiana e del lavoro. Potenziale mezzo di espressione dell’inconscio profondo e del rimosso, il corpo è tornato così a dispiegare tutta la sua forza e la sua energia sulla scena dell’arte come mezzo (e luogo) di liberazione e di riscatto dalle convenzioni, dalle costrizioni e dalle gabbie imposte dai normali ritmi della vita sociale (pensiamo, solo per fare alcuni nomi, a Luigi Ontani, a Cindy Sherman o a Yasumasa Morimura).
Oggi, una giovane artista e fotografa romana, Vittoria Regina, ha ripreso la tradizione del travestimento e del lavoro sul corpo e sull’identità, e sulle identità multiple, con grande rigore formale, un linguaggio fortemente iconico e una forza e una sensibilità del tutto originali. Vittoria Regina lavora infatti su di sé e sul proprio corpo come spazio aperto, sul quale sperimentare di volta in volta visioni impreviste e inaspettate, estratte a sorpresa dall’alveo del quotidiano, attraverso la creazione, meticolosa quanto professionalmente ineccepibile, di strane immagini-puzzle di difficile interpretazione, quasi ci si trovasse di fronte a misteriosi rompicapi visivi e cerebrali, sottilmente disturbanti, dove la rigidità dell’ordine formale nelle quali sono inserite e l’imperturbabilità delle espressioni incarnate dalla sua protagonista sembrano in realtà nascondere le tracce di sottili e oscure ferite esistenziali, che sembrano aprire varchi verso una diversa interpretazione delle forme stesse del reale. Il carattere di tali opere è, come avveniva nei quadri dei grandi maestri surrealisti, quello di certi sogni dei quali ci capita a volte di ricordare non l’intera sequenza, ma soltanto un’immagine, un’istantanea o anche solo una sensazione, incongrua e sorprendente come appaiono sempre, al risveglio, incongrue e sorprendenti le immagini e le sensazioni che ci rimandano i sogni. E proprio alle immagini dei sogni si rifà Vittoria Regina per la costruzione del suo alfabeto visivo: “Quasi tutte le mie immagini”, spiega, “nascono da immagini che vedo in sogno, e che al risveglio annoto su un taccuino che tengo accanto al letto”. E da quando è iniziata tale pratica? “Da sempre”, dice lei, con evidente iperbole; confessando però di aver cominciato a fotografare – sempre e solo se stessa, da sola, senza l’aiuto di assistenti, come in un complesso e profondo lavoro di autoanalisi volto a scoprire parti di sé rimosse o mai venute a galla – all’età di 14 anni.
Sono immagini eminentemente oniriche, dunque, quelle portate alla luce da Vittoria Regina: immagini strane, bizzarre, incongruenti, assurde, disturbanti, fastidiose, con un piede vuoi nell’osceno, vuoi nell’eccessivo, vuoi nell’assurdo, vuoi nell’imbarazzante, se non fossero così inaspettatamente lontane dal concetto stesso di osceno, di eccessivo o di imbarazzante. Immagini che ci portano alla mente domande destinate fatalmente a rimanere senza risposta. È Ofelia o la stessa Vittoria quella che si specchia in sé stessa, al di là di un immaginario specchio d’acqua, forse in una lunga e strana giornata in un cui era la sua mente inconscia, e non quella conscia, a guidare l’obiettivo fotografico di Vittoria, l’artista? E da che lontananza proviene quel volto che sbuca inaspettatamente dietro la cornice barocca di una vecchia specchiera? Che pensieri oscuri e indicibili reca dentro di sé quel groviglio infausto e inquietante di stoffe che ricoprono, fornendole quasi la forma di uno strano animale preistorico, la performer in un momento di oscuramento, di oblio, forse, chissà, di vergogna, del sé razionale? E perché quell’aragosta incastrata proprio al centro della sua spina dorsale? Perché il melograno, così simbolicamente legato al culto della nascita e della morte, e il suo aver perso dei chicchi nel corpo della modella? Ecco poi una donna (sempre lei) che reca in testa un alveare; ancora lei che si alza la gonna, con espressione impeccabile, fredda, anodina, senza imbarazzo o ammiccamento di sorta, e ci mostra quello che non tienelà, tra le gambe: una nicchia vuota, che – guarda un po’ – contiene una rosa. Una rosa? Se avessimo voluto descriverlo a bella posta, se avessimo voluto farne una metafora di qualcosa – di un sentimento, di un desiderio, di una mancanza – non avremmo saputo essere così precisi, così chirurgicamente esatti nel descrivere la somiglianza tra la vellutata poesia e l’accogliente desiderio delle pieghe di quella gonna, e la perfezione del fiore, al centro di quell’impossibile, incongruo spazio vuoto, che è già di per sé un simbolo di qualcosa – ma di cosa, dopotutto? Lo sappiamo, forse, e insieme non vogliamo andare fino in fondo all’analisi razionale, o psicologica, di quel che possa realmente significare quel vuoto: poiché l’analisi razionale, in fondo, non ci riguarda così tanto come ci riguarda invece l’immagine stessa che ci viene gettata addosso, che ci colpisce con maggior forza e con maggior potere di seduzione e di riscatto di una qualche memoria profonda, ancestrale, che sembra appartenerci dalla notte dei tempi.
Domande che si rincorrono senza risposta, immagini che parlano al nostro inconscio anziché alla nostra mente razionale, simboli oscuri, rispecchiamenti, identità doppie e triple, dati vaganti, perduti per sempre nel vasto e incerto labirinto della nostra memoria profonda, percorsi onirici che si dipanano lungo fili di cui non ricordiamo, e non riconosciamo, se non pochi e vaghi scampoli sfuggiti misteriosamente all’oblio.
Vittoria Regina | Onirica
Visionarea Art Space,
Auditorium della Conciliazione
Via della Conciliazione 4, Roma
6 marzo / 2 maggio 2016