Visione, estasi, illuminazione: quando l’Estetica si trasforma in un portale per l’Estatico

di Andrea Zucchi

Alessandro Mendini, Oggetto meditativo, 1999.

L’Estasi esiste. È il nostro stato naturale, prima che sorga il desiderio, la contrazione, la paura. Prima che il Sé si avviluppi e si perda nelle proiezioni dell’Ego. Prima che la separazione e la molteplicità diventino il nostro orizzonte quotidiano. Nel suo manifestarsi la Coscienza è espansione, espansione estatica, senza confini e limiti definiti. Lo abbiamo dimenticato, ma la reminescenza di questo stato originario, la sua vibrazione di fondo continua ad agire in noi. Ciò che cerchiamo, ciò che vogliamo scaturisce da lì e lì aspira a tornare. Quando eravamo Uno con tutto ciò che ci circonda: nell’avviluppante calore del grembo materno, o ancora più lontano, nella Pace infinita della Mente di Dio.

Talvolta accade, forse raramente, forse a pochi di noi, ma accade. Entriamo in uno stato di estasi, o meglio, l’estasi entra in noi, anzi no, l’estasi ci conduce al di fuori di noi.

Anna Muzi Falconi, Il monte analogo, 2017.

Alberto Di Fabio, Verso luci parallele, 2010.

Certo, bisogna essere ben pronti per accoglierla. Una tale energia si manifesta nella sua pienezza solo là dove può essere sostenuta, dove l’anima è pronta ad abbandonarsi ad essa senza resistenze. Ma il riverbero di questa energia comunque ci tocca, ci compenetra, e può manifestarsi a intensità variabile e con variabili esperienze che fanno da catalizzatore. La forma più comune, almeno me lo auguro, e spesso la più fugace – così fugace quasi da non accorgersene – è naturalmente l’orgasmo. E sappiamo tutti quanto lo agognamo… Qualcosa di sfuggita può arrivare anche con le sostanze stupefacenti che dilatano o alterano le nostre percezioni e abbassano le nostre difese psichiche.

Leonida De Filippi, Circolarity, 2017.

A un livello ben più alto, se usate con consapevolezza, ci conducono invece le piante maestre o enteogene, ben conosciute dagli sciamani per connettersi con gli strati profondi della psiche ed esplorare altri piani della realtà sovrasensibile. Oppure diverse tecniche ascetiche; preghiere, meditazioni, canti, danze e digiuni. O, per i più poetici, la visione del Sublime nella Natura o nell’Arte. In casi ancora più rari anche lo sbocciare spontaneo e imprevisto di un particolare stato di coscienza. Ovunque ci troviamo a sperimentare qualcosa che ci proietti fuori dai confini ordinari e rassicuranti del nostro io, un’esperienza estatica può manifestarsi e connetterci a una Realtà più vasta, luminosa e felice a cui intimamente tutti aspiriamo.

Felipe Cardena, The Music of the Spheres, 2017.

Di questa esperienza, totalmente interiore, della psiche umana, che i Greci chiamavano ék-stasis, andare fuori, si trovano ampie testimonianze in quasi tutte le culture del mondo; dai riti dionisiaci ai Santi padri del deserto, dagli asceti indiani ai dervisci danzanti, dai viaggi sciamanici alla psiconautica contemporanea. In questo stato di apex mentis, l’apice della mente secondo la definizione medioevale, il senso dell’io si dissolve in qualcosa di più grande, se non di immenso; la Natura, il Cosmo o Dio.

È un’esperienza di disgregazione e di espansione che non può essere comunicata con il linguaggio ordinario. L’estasi è per sua essenza ineffabile e incomunicabile, è pienezza e vuoto, è unità di conoscente e conosciuto.

Talvolta il suo canto può impregnare la prosa spesso oscura e metaforica dei mistici, ma è solo nell’arte, nella poesia, nella musica o nella danza che il senso di fusione con il Tutto può in qualche modo riverberarsi in una forma di linguaggio più piena e compiuta.

In un’opera d’Arte, i molteplici elementi che la compongono vengono percepiti all’interno di una struttura unitaria, che è l’opera stessa. Cogliere, o meglio contemplare, questa unificazione del molteplice, può suscitare nello spettatore una intensa emozione estetica. E l’Estetica può divenire così un portale per l’Estatico.

A cosa serve l’Arte? Personalmente, e molto per partito preso, l’ho sempre voluta considerare una forma di conoscenza, anche per giustificare nobilmente a me stesso la scelta sconclusionata di dedicarmi alla pittura. Lo avevo assunto come dogma, e i dogmi richiedono fede, e la fede talvolta vacilla. Ho vacillato molto negli ultimi anni, una sensazione che se impari vagamente a gestire può anche donare una curiosa e leggera libertà.

Giovanni Frangi, El Jadida, 2017.

Non so più a cosa serva l’Arte, specialmente quellla contemporanea. Però ancora, forse sempre più raramente, mi accade di vedere o rivedere delle opere che catturano il mio sguardo. Lo attirano a sé, esercitano una fascinazione che per un attimo rallenta o sospende il mio flusso di pensieri. Risvegliano un’attenzione quieta che sospende il giudizio della mente. Se non è uno stato di contemplazione, è qualcosa che gli si avvicina molto. E la contemplazione, attività magari oggi desueta e misconosciuta, un tempo era considerata la facoltà più elevata dell’intelletto, sia umano che divino.

“Perché” – scriveva Josef Pieper, un neotomista – “è la contemplazione che preserva, in seno alla comunità degli uomini, la verità che è al contempo priva di utilità e parametro di ogni possibile utilità; così è la contemplazione che mantiene il vero fine in vista, dando significato ad ogni atto pratico della vita”.

Quando un artista riesce a trasferire in una porzione finita di materia qualcosa che evoca un’immagine della bellezza infinita dell’universo, ci fa un dono senza fine. (Spero sia palese il doppio senso). Chiarifica la nostra mente, chiarifica la nostra percezione del mondo, ci distacca per un secondo dalla caotica moltitudine del regno dell’impermanenza e ci fa risalire verso l’unità infinita. E un flebile bagliore estatico, se sappiamo coglierlo, riluce in noi.

Il presente testo è stato scritto in occasione della  mostra:

“Visioni estatiche”

a cura di Andrea Zucchi e Franco Luppis

Galleria Francesco Zanuso

Corso di Porta Vigentina 26, Milano

dall’11 al 26 ottobre 2014

inaugurazione: 11 ottobre 2017, h. 19