Una stanza d’albergo, una tavola apparecchiata, un revolver, due giovani morti. Un giallo d’arte risolto dopo 133 anni

di Alessandro Riva

Il giallo è risolto. Sono passati 133 anni da quel mese di ottobre del 1884, quando Angelo Morbelli, pittore allora trentenne e già conosciuto a Milano come uno degli esponenti del nuovo realismo pittorico a sfondo sociale, solo in seguito abbandonato in favore di un pacato divisionismo, espose all’Accademia di Brera quello che sarà in seguito conosciuto come il suo capolavoro – Asfissia!Il soggetto? Una tavola apparecchiata, vini, frutta, avanzi di cibo, di caffè e di liquori, una penna, un calamaio, alcune lettere già scritte ma non ancora impostate; e ancora, un revolver appoggiato su una ribaltina, a fianco delle lettere e del calamaio, un candeliere ancora fumante sul tavolo, un cappello a cilindro (o gibus) appoggiato su una poltrona, un pavimento coperto di fiori; e, in un angolo, su un divano e ai suoi piedi, due corpi distesi: di un uomo e di una donna. Morti.

Angelo Morbelli, Autoritratto.

Angelo Morbelli, "Meditazione"

L’epilogo di una notte drammatica, vissuta – nonostante tutto, o a far da contraltare alla disperazione: poiché si dice che la disperazione non sempre fermi l’appetito – tra abbondanti mangiate e altrettanti abbondanti libagioni (di vino, o per meglio dire di sciampagna, come si amava dire allora); e poi disperazione, passione, amore, sesso (almeno così ci piace immaginare), il tutto nel corso di una notte di veglia febbrile e col desiderio sempre più stringente di farla finita, una volta per tutte, con una vita che non poteva più dare nulla, di fronte allo sconforto e all’angoscia di un amore passionale e disperato, che tuttavia, evidentemente, non aveva, di fronte alla società e ai desideratadelle famiglie, futuro alcuno. La didascalia del quadro – unico indizio lasciato dall’artista, con abile e sottile strategia, sul luogo del delitto – recitava testualmente: “Diedero varie lettere da impostare e ordinarono un pranzo più succulento del solito, e quanti fiori gli era possibile portare. Recati i fiori, il cameriere notò che la signora aveva indosso una veste bianca e semplice, e lasciato ricader sulle spalle le trecce cosparse. L’indomani il sole era già alto”.

Dunque, di che si tratta, si chiedono allora i contemporanei del pittore, e, con essi, i posteri, di fronte a quello che appare come un mistero accennato ma non risolto? Di un omicidio-suicidio? Di un doppio suicidio? O dell’omicidio di entrambi da parte di un terzo incomodo, entrato nella stanza per far giustizia di un amore di cui era geloso? Oggi, finalmente, a 133 di distanza dal fatto, abbiamo la risposta. Netta, inequivocabile. Che riserva anche, forse, un (seppure parziale) lieto fine.

"Asfissia!" completo, comprensivo anche della parte destra con i due giovani morti, in seguito espunti dalla tela

Ma – come in tutti i thriller che si rispettano –, prima di svelare la soluzione del giallo, procediamo ancora un momento con la storia e i suoi intricati indizi. Il mistero di questa tela, infatti, non è finito. Accolta malamente e con un po’ di freddezza dalla critica di allora – tela definita “ardita, originale, bizzarra, dove i particolari vincono l’assieme per la maniera onde il Morbelli li ha condotti e per le impressioni che essi suscitano negli osservatori attenti”, dove “il soggetto principale [i due amanti, ndr] è annegato e scompare in mezzo a tanti fiori, e a tanti oggetti che il Morbelli ha raggruppato alla sinistra” (così Il Pungolo, giornale attento alle novità artistiche e letterarie, all’epoca) –, Morbelli pensò bene di tagliarla a metà, o meglio a tre quarti: eliminando dalla tela principale (quella che rappresentava la tavola apparecchiata, il revolver, le lettere, il gibus) la cruda descrizione del dramma, ovvero i corpi: lasciando così, si può dire, la scena del crimine vuota, priva dei suoi attori principali. E così, per altri cento e passa anni, del quadro che rappresentava un misterioso suicidio (o omicidio?), non rimase che una banale tavola apparecchiata, quasi a limitare il soggetto alla semplice scena di un pasto pantagruelico appena finito: privato, dunque, almeno apparentemente, della tragicità da cui la tela originaria aveva avuto origine; tanto che Germano Celant pensò bene, nel 2015, di esporla alla Triennale, nella sua mostra “Arts & Food”, come simbolo non di amore e morte, qual era in origine, bensì di una normalissima grande bouffe(una grande abbuffata) ottocentesca.

Massimiliano Alioto, "Asfissia", 2016, olio su tela, cm 190x150.

Ma oggi, del mistero di quel quadro si vede finalmente la soluzione. A riaccendere la curiosità sul giallo che si nasconde dietro al quadro di Morbelli è stato un pittore italiano contemporaneo, Massimiliano Alioto, che, innamoratosi della tela, e della sua enigmaticità, ha pensato di sviluppare un elaborato progetto di mimesis (intitolato, non a caso, anch’esso Asfissia), che della tela originaria riproducesse non soltanto l’atmosfera generale e la composizione – la tavola apparecchiata, con la sua aria di misteriosa e ieratica immobilità, e soprattutto i fiori, soggetto metaforico di tutta l’opera, a cominciare dal titolo, cui allude quell’odore acre e dolciastro dei petali che vanno via via decomponendosi, fino a creare un odore asfissiante di putrefazione e di morte, metafora della caducità delle cose, e della vita tutta; ma anche il tono e l’atmosfera, culturale e simbolica, di un periodo, quello di fine Ottocento, che sembra ancora lanciarci un debole segnale dalla sua ormai siderale distanza nel recuperare suggestioni, intuizioni e temi che l’onda lunga, drammatica e nichilista del secolo Ventesimo, quello delle ideologie, delle dittature, delle guerre mondiali, del disfacimento etico della cultura occidentale e delle avanguardie masochisticamente puntate nel fare tabula rasadi ogni valore etico e formale, sembra avere irrimediabilmente cancellato.

Il progetto di Alioto si compone infatti di una cinquantina di quadri (tutti puntati sul progetto di decostruzione semantica e formale del tema, classico, della natura morta di fiori, ultimo retaggio ottocentesco di pittura borghese da salotto, metafora del più generale disfacimento, in arte, del concetto stesso di genere, del soggetto e del linguaggio, che insegue il suo punto finale di rottura fino al limite estremo, fino alla negazione stessa del concetto di stile, puntando alla cosiddetta morte dell’artee dei suoi valori fondanti); ma altresì da un nutrito nucleo di disegni a matita, che ripercorrono i volti dei protagonisti di una stagione che sembra, per l’appunto, sbiadita, finita, travolta dalla folle corsa delle avanguardie nel triturare e rigettare ogni cosa che non fosse in linea con l’incredibile e ormai centenaria dittatura dell’appiattimento stilistico sul presente, sul nichilistico abbattimento progressivo di ogni forma di estetica, di gusto, di forma, di bellezza, del senso stesso del fare arte.

Max Klinger visto da Alioto

Ecco allora, dai disegni (bellissimi) di Alioto, fare capolino, oltre allo stesso Morbelli, attori e comprimari dell’ultima delle avanguardie formali prima del diluvio novecentesco: ecco il ritratto di Rodin, quello di Bernard Khnopff, di Arnold Böcklin, di Sargent, di Segantini, di Felicien Rops, di Matisse, di Previati, di William Blake, di Max Klinger, di Burne Jones; ecco quello di Costantin Brancusi, e quello di Alma-Tadema, che solo quattro anni dopo Morbelli dedicò a sua volta una tela all’inebriante e decadente asfissia dei fiori con Le rose di Eliogabalo, l’imperatore romano del quale si narra che, nel corso di uno dei suoi sontuosi banchetti, avesse inondato i suoi ospiti di così tanti fiori, che alcuni di essi ne morirono soffocati. Volti che, via via che si susseguono l’uno all’altro, tendono anch’essi, come i fiori, a disfarsi, a decomporsi, a sfilacciarsi in un’aria di sempre più accentuata irrealtà, quasi il loro ricordo si facesse via via più sbiadito col passare del tempo. Fantasmi, spettri di un’epoca e di un tempo che la follia del “secolo breve” sembra avere portato via per sempre dal nostro orizzonte culturale e artistico.

Alioto, i fiori di Asfissia

Come fantasmi di un tempo lontanissimo e ormai scomparso sembrano ora i volti, i sogni, le speranze e le esistenze stesse di due giovani innamorati, che in una fredda sera di febbraio del 1884 vollero mettere fine alle loro esistenze in una stanza d’albergo a pochi passi dalla stazione centrale, a Milano. Ecco, infatti, la soluzione del giallo, quello a cui Morbelli si ispirò, nel lontano 1884: non (come hanno pensato alcuni) prendendo spunto da una novella letteraria del tempo, e neppure dalla celebre poesia di Baudelaire “La mort des amants”, uscita ne Les Fleurs du malnel 1857, dove si canta la bellezza ultraterrena di una morte passionale e drammatica – circondata, non a caso, ancora una volta dai fiori: “Avremo letti pieni d’aromi leggeri,/e divani profondi come tombe,/e sparsi sulle mensole strani fiori,/per noi sbocciati sotto cieli più belli…”; poesia non ancora uscita a quel tempo in italiano (la prima edizione italiana dei “Fiori del Male” è del 1893), che tuttavia Morbelli poteva, sì, ben conoscere in edizione originale, ma il cui spunto sembra un po’ troppo generico per una descrizione così millimetricamente esatta e puntuale, da far pensare immediatamente alla scena di un “giallo”.

Morbelli, "Venduta". La giovinezza sofferente e disperata era uno dei temi prediletti del pittore

No – la verità è difatti ben più semplice, e in qualche modo a più portata di mano. Non è che un piccolo fatto di cronaca, che meritò solo un breve trafiletto sui giornali milanesi dell’epoca, per poi sparire rapidamente dalle cronache, così com’era apparsa. Ma che, al giovane Morbelli, imbevuto, nonostante tutto, di cultura decadente e tardoromantica, suscitò evidentemente, come accade alle volte, il desiderio di trasporla in pittura, per immortalarla per sempre, nella sua tragica essenzialità. Era la vicenda di due giovani amanti, innamorati perdutamente l’uno dell’altra, il cui amore, inviso alle rispettive famiglie (probabilmente per le differenze di status sociale che li dividevano), era destinato a non avere sviluppo. Ma loro, piuttosto che rinunciarvi, preferirono darsi la morte, dopo una notte e un giorno d’amore, di cibo, di vino, di veglia e di lunghe confessioni reciproche.

I nomi di quei giovani erano Adolfo Franzini, fino a pochi mesi prima sottotenente dei Lancieri di Montebello, e Gina Bignami, figlia del macellaio di corso Monforte, all’angolo di vicolo San Carlo. La loro vicenda è, senza ombra di dubbio, il modello a cui Morbelli si ispirò per comporre il suo capolavoro, pochi mesi dopo. La notizia del “tragico fatto di sangue”, come si diceva all’epoca, comparve infatti sui quotidiani milanesi la mattina del 19 febbraio 1884. “Dramma d’amore”, titola “La Perseverenza”, quotidiano milanese assai letto all’epoca. “All’Albergo Torino, fuori dalla barriera Principe Umberto, scendevano, lunedì mattina, una giovane coppia, a cui fu assegnata la stanza N.14 al secondo piano”. “Egli aveva vent’anni”, continua il giornale, “ella diciannove. Si conoscevano da quattro mesi soltanto, e già si amavano perdutamente, in guisa da esser risoluti a fuggire da casa loro, lasciare i genitori e procurarsi insieme la morte”. “Il Franzini amoreggiava da 4 mesi”, scrive quello stesso giorno il “Corriere della sera”, “con la Bigmani, bella ragazza, di forme abbondanti [“giunoniche”, le definirà un altro quotidiano], d’aspetto simpatico. Pare che alla loro unione, ormai necessaria, si frapponessero ostacoli insormontabili, sebbene il padre della Bignami non avesse negato il proprio consenso. La fanciulla aveva lasciato la casa paterna domenica notte alle due per seguire il suo Adolfo. Girellarono qualche ora per la città; poi saliti in un brougham[la tipica carrozza a cavalli ottocentesca, ndr] si fecero condurre all’Albergo Torino”.

in un dipinto di Giannino Grossi, una veduta del vecchio Piazzale della Stazione a Milano, su cui si affacciava l’Albergo Torino, teatro del dramma cui si ispirò Morbelli.

Ecco, dunque, il luogo dove si svolgerà il dramma così minuziosamente descritto dal pittore: una stanza di un albergo milanese, non lussuoso, che dà sul piazzale della Stazione (da sottolineare, però, che non si tratta del luogo su cui sorge la Stazione attuale, costruita com’è noto successivamente, bensì della vecchia stazione Centrale di Milano, che si trovava all’altezza dell’attuale Piazza della Repubblica, e che fu poi demolita nel 1931). Che si trattasse effettivamente di un albergo, lo si sapeva, se non altro dagli indizi lasciati dal Morbelli, dal suo accenno alle lettere lasciate “da impostare” e al pranzo ordinato a “un cameriere”. Oggi, però, conosciamo anche il suo nome: Albergo Torino. Un hotel, avverte il cronista, “frequentato in estate dai buoni ambrosiani che vogliono pranzare all’aria aperta”, e che tuttavia “offre durante il carnevale facile ricetto alle coppie amorose che smarriscono la via per andare a casa”. Ed ecco allora spiegato anche il motivo per cui la coppia, rimasta a girovagare nella notte ormai prossima alla fine di una qualsiasi domenica milanese (quella che precede, appunto, la settimana del Carnevale), abbia scelto quell’albergo, frequentato “da coppie di passaggio”, dove non avrebbero fatto troppe formalità né preteso i documenti (è infatti da ricordare che i due non erano sposati, e che la ragazza, diciannovenne, a quell’epoca era ancora minorenne, dunque in un altro albergo, più formale, avrebbero potuto domandarle i documenti e, una volta constatatane la minore età, chiamare i carabinieri).

Ma ecco la cronaca di quel che accadde in quelle drammatiche ore che precedono il fatto: Scesi dal broughamdi fronte all’hotel, i due giovani “suonavano il campanello e chiedevano una stanza”. Erano, annota il “Corriere della Sera”, le 4 e mezza di notte. “Il cameriere li accompagnò al secondo piano, al N. 14, che è una camera piuttosto vasta, con due letti gemelli di ferro uniti, due comò, una poltroncina, qualche sedia, due tavolini da notte ed un altro piccolo tavolino. Ha una finestra con piccolo balcone a ringhiera di ferro, che guarda sul piazzale della stazione”. “I due ospiti”, prosegue l’articolo, “non si sono fatti vivi prima di un’ora e tre quarti prima di mezzogiorno. A quell’ora hanno suonato il campanello, hanno fatto salire il direttore dell’albergo, il signor Bronzini, e gli hanno ordinato da pranzo raccomandandogli di far loro servire vini buoni e cibi freschi e saporiti”.

Alioto, i fiori di "Asfissia"

“Per tutto il giorno si fecero servire nella stanza, schivando di farsi notare neppure dai frequentatori del Restaurant”, annota “La Perseveranza”, mentre “La Lombardia”, altro quotidiano dell’epoca, aggiunge: “Fecero colazione, pranzarono succolentemente, bevendo anche dello sciampagna”. Eccola, dunque, la scena madre cui si ispirò Morbelli: la tavola ancora apparecchiata, i resti dei “cibi freschi e saporiti”, dei “buoni vini” e dello “sciampagna” che la coppia si concesse prima del dramma.

Alioto, i fiori di “Asfissia”

“Niente, assolutamente nulla”, sottolinea il “Corriere”, “avrebbe potuto allora far sospettare la terribile decisione presa”. “Più tardi”, continua il quotidiano, “hanno fatto accendere la stufa ed al piccolo[lo sguattero bambino, ndr] mandato ad accenderla hanno fatto domande se era possibile avere del carbone. Il piccoloha risposto evasivamente, ma non ha dato importanza a quella domanda”. Fermiamoci un momento: è questo, infatti, un altro punto cruciale, che con ogni evidenza dovette accendere la fantasia del pittore, fino a fargli ispirare il suo celebre titolo, Asfissia: la prima idea della coppia fu infatti, a quanto pare – riportano concordemente tutti i giornali dell’epoca – quella di darsi la morte tramite asfissia. “Alla sera”, scrive in proposito “La Perseveranza”, “volendo compiere il disegno da loro già precedentemente stabilito, cercarono di avere del carbone con cui procurarsi la morte”.

È proprio l’asfissia, dunque – quella a cui Morbelli dedicò addirittura il titolo del suo capolavoro –, e non altra, la prima idea con cui la coppia di innamorati pensò di darsi la morte. Ed ecco, presumibilmente, la scintilla che fece scattare in Morbelli l’idea di quell’escamotage, così decadente e romantico, dei fiori – complice, forse sì, qui, Baudelaire, con la tragica enfasi dei suoi amanti perduti, decisi a darsi la morte in un letto di fiori: ma a cui non fu estranea probabilmente neppure l’influenza di Emile Zola, che nel 1974, dieci anni prima che Morbelli concepisse “Asfissia!”, ne La colpa dell’abate Mouretmise in scena il dramma di una giovane donna, Albine, che, sedotta e abbandonata da un giovane prete di campagna, decide di suicidarsi proprio inondando la propria stanza e il proprio letto di fiori, soffocando così tra i loro effluvi dolcissimi e mortali...

Lawrence Alma-Tadema, Le rose di Eliogabalo

Fiori, dunque, a mucchi, a mazzi, sparsi ovunque, coi quali tappezzare letteralmente il pavimento della stanza (idea che Alioto, giustamente, riprenderà poi, nella sua operazione di mimesisdell’opera di Morbelli, facendone il cardine e il simbolo del proprio progetto, coi fiori riproposti e riprodotti in ogni foggia e dimensione possibili e immaginabili, come in un curioso almanacco di Esercizi di stilealla maniera di Queneau). Dall’idea di procurarsi la morte per asfissia, retaggio del fatto di cronaca originario, Morbelli passa così alla sua metafora, i fiori che si decompongono; inventando così, di fatto, ex novo, un particolare che oggi, a posteriori, possiamo senza ombra di dubbio definire come pura invenzione poetica dell’artista (poiché, effettivamente, di fiori non v’è traccia nelle cronache dell’epoca): escamotage fortemente simbolico, che evidentemente allude, in accordo col titolo, ad altro: a un amore perduto, disperato, ossessivo, e insieme alla vita che finisce, che muore, che implode in se stessa. La cronaca di un amore, dunque, ma di un amore asfissiante, appunto.

Con un doppio salto, concettuale e stilistico, Morbelli pensò dunque di risolvere la questione del titolo e del concetto stesso del quadro, così allusivamente drammatico, in una parola – “asfissia” –, e insieme nella sua perfetta metafora visiva: i fiori, simbolo dell’amore, della rinascita, della primavera, dell’esuberanza della vita, ma anche, allo stesso tempo – nel momento in cui li si lascia decomporre e morire –, della vita che si disfà, che precocemente perisce, si decompone, e finisce. E allora, ecco il colpo di genio dell’artista, la sua trovata stilistica e concettuale: è, effettivamente, l’asfissia (quella a cui i due giovani pensarono per prima cosa, nel fatto di cronaca reale, e di cui rimane testimonianza nelle cronache dell’epoca) la causa effettiva della loro morte, o è piuttosto soltanto quella indiretta, metaforica – ovvero l’asfissia di un amore divenuto maniacale, ossessivo, unica causa di vita, fino a condurre i due giovani a estraniarsi dalle regole, dalle convenzioni, dai diktat del loro tempo e delle loro famiglie, dunque dall’intera società nella quale vivevano, fino a darsi la morte?

John Collier, La morte di Albine, 1898

Ma torniamo allora ai due giovani, e alle ultime, drammatiche ore che trascorrono, soli, nella stanza d’albergo. “Verso le 8”, scrive ancora il “Corriere”, “tanto l’ufficiale che la signorina erano occupati a scrivere”.

Le ore sembrano dipanarsi lente e drammatiche, nella stanza dell’albergo milanese. I due giovani scrivono (anche delle loro lettere vi sarà traccia nel quadro di Morbelli, appoggiate sulla ribaltina, di fianco al calamaio), mangiano, bevono. Sicuramente parlano tra loro, febbrilmente. La tragedia corre verso la sua conclusione.

“Fino alle 4 ½ quiete perfetta al N. 14”, continua il “Corriere”. “Al piano terreno c’era il pranzo dato in onore del professore Brofferio e la maggior parte del personale era occupata giù. Alle 10 e un quarto, partiti tutti i commensali del banchetto, il direttore Bronzini saliva ai piani superiori quando giunto al primo piano sentì uno strano e confuso rumore al secondo piano. Avvicinatosi alla porta del N. 14 picchiò tre volte e non ebbe alcuna risposta. Ma stando in orecchio udì una voce lamentevole di donna che domandava soccorso. Allora con uno scalpello forzò la serratura ed entrò. La fanciulla in camicia era appoggiata al letto dal quale sembra fosse discesa tentando di avvicinarsi alla porta e chiedere aiuto. Una larga macchia di sangue nella camicia sotto la mammella sinistra indicava la ferita. Il giovane era a letto sotto le coperte fino al busto, colla testa pendente sulla spalla sinistra, in atteggiamento di chi dorme. Il giovine era già cadavere: la fanciulla, soccorsa subito dal Bronzini, fu portata in un’altra camera dove è stata amorevolmente confortata ed assistita. (…) Quanto all’ufficiale, egli aveva mirato diritto al cuore e la morte deve essere stata istantanea”.

La tragedia, dunque, è compiuta. La scena è quella che Morbelli descriverà, fino ai minimi particolari, nel suo quadro. I corpi, la tavola ancora apparecchiata, le bottiglie di sciampagna, le lettere, il revolver. “I due giovani”, annota ancora il “Corriere”, avevano lasciato sul tavolino della camera 4 lettere chiuse e 4 piegate ma non ancora riposte nella busta”. Quanto al revolver, “pare che sia stato comprato sabato o domenica dal Franzini nella bottega d’armaiuolo della vedova Legnani in via Broletto”.

Mosè Bianchi, La Darsena di Porta Ticinese.

È l’epilogo di una piccola grande tragedia d’amore, cui Morbelli si ispirerà per farne quello che rimarrà indiscutibilmente il suo capolavoro, benché irrimediabilmente diviso in due parti.

Una tragedia che riserva ancora un mistero, poiché le cronache dell’epoca, che seguiranno il fatto soltanto per pochi giorni, non dicono se la giovane Gina Beltrami, dalle forme giunoniche e dall’irresistibile simpatia, riuscirà a salvarsi. Sappiamo che, pochi giorni dopo, verrà trasportata dall’albergo alla casa paterna, e che i medici, “se non succedono recrudescenze”, sperano di salvarle la vita. Sappiamo però anche – stando almeno alle cronache dell’epoca – che cosa li portò a volersi dare la morte. È “La Perseveranza” a istruircene: “Gli ostacoli” opposti dalle famiglie al loro amore “accrebbero infatti”, scrive il giornale, “l’incentivo nei due innamorati, tanto più che la loro indole era trascinata per tutto ciò che avesse del romanzesco. Si dice anzi a questo proposito”, conclude il giornale, “che la Gina Bignami si dilettasse grandemente della lettura dei romanzi i più strani”.

Massimiliano Alioto | Asfissia
M.A.C. – Musica Arte Cultura| Fondazione Maimeri

14 – 17 febbraio 2017