di Vlady Art.
Anteprima
Di Banksy si è scritto e detto tutto, indubbiamente molto di più che su qualsiasi altro street artist al mondo. Il silenzio che ha preceduto questa sua ultima fatica lasciava intuire qualcosa di grosso. L’artista britannico ha nuovamente polarizzato l’attenzione globale con una grande trovata a metà strada tra il fantastico e il grottesco. Parliamo ovviamente di Dismaland, una parodia decadente di Disney World, che ha aperto i battenti lo scorso 21 agosto presso il Tropicana, un lido in disuso nella località turistica di Weston-super-Mare nel Somerset, in Inghilterra. Mancano pochissimi giorni alla sua chiusura (27 settembre) ed è il momento di qualche bilancio.
Banksy
All’inizio fu clamore e favori. I pareri ostili c’erano, ma erano dei perbenisti, quindi facili da individuare e isolare. Banksy venne alla ribalta nella Londra anni 2000, come un moderno Robin Hood; una sorta di vandalo con finalità artistiche che “rubava” ai musei per consegnare l’arte (e l’anti-arte) ai “poveri” d’esperienza visiva. Il contrasto legale e morale nei confronti di Banksy (in una città repressiva come Londra) passò subito in secondo piano: tutti volevano e cercavano un suo stencil, dopo che i media incominciarono a raccontarne le gesta sui notiziari. Si creò così il mito, favorito dal suo anonimato; un mito che non ha paragoni e precedenti in questo tipo di arte.
Critiche
Dicevamo, per anni furono poche e circoscritte. Le associazioni locali per il decoro urbano espressero il gran timore che un’ondata di approvazione potesse far esplodere l’onda dell’emulazione. Preoccupazione condivisibile per chi si occupa di ordine e pulizia, sennonché, l’emulazione esplose in tutto il mondo, a tal punto che non siamo più in grado di capire quali stencil siano di Banksy in assenza di un riconoscimento diretto. Intendiamoci però: nessuno potrà mai metterci tutti d’accordo. Neppure Gandhi. Chi si espone nell’arte “attiva” (con matrice d’attivismo), si espone anche alle critiche. Dalle colonne del The Guardian, Charlie Brooker scrisse di Banksy “…his work looks dazzlingly clever to idiots.”, ovvero “i suoi lavori risultano brillantemente sagaci per gli idioti”.
Per altri intellettuali, la pochezza della sua opera risiedeva nella sua “obviousness”. Venne posto da alcuni (anarchici) sul banco degli imputati per essere un “anarchy-lite”, come dire un “fake”, un sovversivo all’acqua di rose, un polarizzatore di consensi hipster all’interno della “middle class”. Visto il suo humor e il suo mondo immaginario, non poteva che provenire dalla classe media ed è questa alla quale Banksy ama rivolgersi, non esattamente per creare nuove opinioni ma per rafforzare quelle ormai largamente condivise: la guerra è orrenda, i bambini sono innocenti, la polizia è oppressiva, Gaza soffre e gli immigrati sono disperati. Banksy lavora con slogan visivi verso la radicalizzazione dei consensi. Significa interagire costantemente con il suo pubblico, quello che non deve convincere ulteriormente. È un brand, anche nelle opinioni. Nonostante l’uso di concetti triti e ritriti, Banksy è emerso grazie al suo popolare sarcasmo, capace di trasformare il messaggio da prevedibile ad apprezzabile.
La sua bizzarra e spiazzante “Residency” a New York, nell’Ottobre 2013, fu forse il giro di boa. Mi trovavo proprio nella grande mela per tutto quel mese. Assistetti di persona a come un’artista urbano possa mandare in visibilio un’intera metropoli. Dagli studenti ai turisti, dai tassisti ai cops, senza limiti di età o etnia: tutti l’hanno cercato. Ma fu li che cominciarono a galoppare le critiche, specie quelle intestine. Molti dei suoi lavori furono vandalizzati seduta stante, non solo da mitomani ma pure da writers locali, davvero molto irritati nel “subire” le scorribande dell’inglese, percepite come una sorta di sconfinamento territoriale nel nome della fama (e dei soldi). È qui che Robin Hood manifestò di stare a cavallo tra l’esclusiva Chelseae i blockspiù sperduti di Brooklyn.
Dismaland
E se proprio con NY lo street artist più famoso di tutti i tempi avesse raggiunto l’apice della sua incontrastata popolarità? Può Dismaland rappresentare un passo falso o, rappresentare un cambiamento?
Le opere di Banksy non sono molto cambiate. Qui, a due passi dalla sua Bristol, va in scena l’ennesimo stencil con bambini, una riedizione della morte con la falce su un’auto scontro (già presente a New York), un’istallazione di un’orca assassina che salta uscendo da un water. Il progetto nella sua complessità è molto banksiano, e rappresenta un’opera. Lo è nel concetto, nella veste, e poi c’è la scelta curatoriale. Ma la satira verso il mondo Disney non è nuova affatto, ne per lui ne per noi. Figlio della media borghesia inglese, ha forse subito il concetto del divertimento popolare e spicciolo, quello di giostre e montagne russe, fino alla nausea. Ha forse ingurgitato dosi così massicce di cartoni americani e buonismo mediatico che oggi da adulto si sta prendendo la sua personale rivincita. Del resto, se Disney non ti è imposta come simbolo del bene e del divertente, Disney non la consideri e basta. Disney è un mondo finto per bambini di tutte le età; dove sta la novità?
Evento
Non va dimenticato che si tratta pur sempre di un evento e non solo di un display di esecuzioni artistiche. Il disegno è totale e, se c’è qualcosa d’ammirare, è proprio l’aver preso possesso di un simile luogo decadente facendone una grande fiera alternativa. Già solo per i Massive Attack, non paghereste 3 sterline?
Friends
Esibisciti con gli amici, come faceva Pavarotti. Banksy il curatore non ha la pretesa di rappresentare il mondo, bensì il suo mondo. La sua chiamata alle arti deve essere letta con attenzione: è congeniale a questo specifico progetto, non ottimale per qualsiasi evento. Questa è la corte di Banksy, anche se io preferirei usare un tono più patriottico stavolta: la coorte. Nell’antica Roma le legioni (cioè l’esercito), erano divise in molte coorti. Mameli scrisse “stringiamoci a coorte” intendendo di restare uniti fra noi, pronti pure a morire per il nostro ideale. Vedi Dismaland e fiuti un’unione d’intento tra tutti, una sfilza di cognomi non accomunati dalla street art ma bensì dalla visione sui problemi del mondo.
Guardian, The
L’autorevole quotidiano inglese è stato tra i primi a non risparmiarsi delle obiezioni sul personaggio di Banksy. L’organo, noto per la sua libertà e trasversalità (sebbene penda verso i Laburisti), ha firmato anche stavolta, attraverso la penna di Jonathan Jones, un articolo piuttosto… disilluso. Ma non la delusione che ci aspetta da un parco dei divertimenti che si prefigge d’essere triste (dismalsignifica cupo, malinconico), ma piuttosto deludente per le lampanti contraddizioni che emergono con la filosofia dei graffiti.
Mi spiego meglio. Banksy ha iniziato con i graffiti. Non sappiamo quanto sia stato capace nel farli ma forse poco importa. Un po’ come Gesù, non è chiaro come passò la sua adolescenza perché nessuno l’ha mai annotato. A un certo punto della sua primissima carriera, Banksy decise di implementare la sua azione trasformandola in qualcosa di nuovo. Si convertì dai graffiti di matrice “americana” (cultura hip hop) ai graffiti europei dell’iconografia punk e contro-culturale anni ’80. Cruciale su di lui fu l’influenza di Blek Le Rat e il movimento anarchico inglese. Da qui inizia la sua storia, non da Bristol ma da Londra. Per lungo tempo, i suoi messaggi furono anticapitalistici, antisistema. In una città simbolo della finanza, questo assunse un forte significato. Indossò le vesti di uno street artist squattrinato, contro corrente, spericolato, sovversivo e per certi versi rivoluzionario, anche nel fiutare le attenzioni mediatiche. Con il tempo, sappiamo bene che le cose sono andate via via mutando.
Banksy è passato, con grandissima disinvoltura, dai graffiti sui treni agli stencil in strada, dalle istallazioni abusive all’organizzazione di mostre ed eventi. Colui che ha reso popolare la tecnica molto duttile e veloce dello stencil, colui che ha permesso alla street art di essere conosciuta (e per certi versi, rispettata) nel mondo, oggi sta spingendo la street art a non essere più se stessa. E meno male. Ma non è il solo a farlo.
Hirst
Damien Hirst è l’uomo, narra la leggenda metropolitana, che ha condotto Banksy verso il suo primo milione. E che sia questa la natura della crisi, come di mezz’età, causata dal suo primo milione di pound? Ho sempre sorriso alla congettura che vuole che dietro il graffitaro inglese ci sia proprio Hirst in persona. Che tra i due ci sia del tenero è testimoniabile da molti punti di contatto ma oggi viene finalmente allo scoperto, essendo Hirst uno dei 50 artisti scomodati per l’operazione Dismaland e sicuramente il più ricco fra tutti.
Interviste
Credete che Banksy sia di poche parole? Non esattamente. È solo una seducente tattica comunicativa, un po’ piratesca e un po’ terroristica.
Banksy deve un’infinita quota della sua popolarità all’anonimato, alla decisione quindi di adottare uno stile comunicativo talebano: lancia messaggi, ma non rimane ad ascoltare le repliche. Si esprime come per videomessaggi, senza contraddittorio. Si auto propone per delle interviste quando lo trova opportuno, rispondendo a pochissime domande. Così anche stavolta: si è già espresso a proposito di Dismaland su alcuni giornali (e blog, come Juxtapoz) che hanno avuto la fortuna di ricevere l’offerta via mail.
Line-up
Torniamo sulla scelta delle star presenti a Dismaland. Line upè un termine inglese per indicare la formazione di una band musicale. L’artista britannico ha scomodato circa 50 firme internazionali. Il livello è elevato, trasversale, accattivante. Banksy fa un grande ingresso (e per me, benvenuto) nell’arte contemporanea, nel situazionismo, nel concettuale, nell’arte ambientale, umiliando quasi la street art e i graffiti da cui proviene, chiamando gente del calibro della Holzer. Per lui è una grande incursione nella storia delle arti urbane non autorizzate, fuori dal tam tam di nomi che oggi popolano l’universo “street” con tanto di permesso per dipingere.
Il line up è balzato subito all’occhio di molti. L’unico tedesco presente è etichettato come “bavarese”. Nessun francese. Non c’è un italiano. Tantissimi inglesi, americani e Mediorientali. Banksy ha un obiettivo chiaro e vuole dirci qualcosa: “vi racconto la mia visione”.
Misure di sicurezza
Come non notare la differenza con le altre storiche esibizioni banksiane. Stavolta, colui che entrava nei musei per sabotare, ti vieta di poterlo fare (è proibito l’ingresso con qualsiasi arnese “artistico”). Stavolta, non si scavalca. Si fa la fila, si entra e si paga. E si entra pure tenendo la sinistra. Stavolta soprattutto, il simbolo del male per antonomasia (rappresentato in mille opere di street art), la telecamera a circuito chiuso, è usata per monitorare e non per essere beffeggiata. E chi l’avrebbe mai detto. Come si cambia nella vita. Sarà l’età?
Non fatevi dunque ingannare dalla divertente opera del Californiano Bill Barminski; oltre la sicurezza di cartone c’è pure quella reale, e fa sul serio.
Novità
Possiamo non esser convinti fino in fondo dell’autenticità e della genuinità del messaggio voluto, cioè nutrire dubbi di natura “etica” ma dobbiamo ammettere che qualcosa di simile davvero non s’è mai visto. Qui non organizza una fondazione, non c’è dietro un’istituzione. Potrebbe realmente essere tutto autofinanziato. Un’opera dove pure le persone, stremate per le file e per la difficoltà di recuperare un biglietto, sono parte di questo circo felliniano. Questo e non solo, per qualcosa che se non riuscirà a rappresentare un nuovo inizio, potrebbe rappresentare una tappa importante.
Offerte
Banksy fa offerte alle quali non si può rifiutare. È come se ti comprasse. Sarei curiosissimo di sapere se esiste un solo artista che abbia declinato il suo invito. Mister B. gioca anche un’altra carta, quella dell’accredito stampa. Normale, potreste dire. Ma un simile gesto dato da una celebrità anonima e sfuggente assume il sapore della trattativa, del rapporto confidenziale, della fiducia blindata. Una squadra di blogger e specialisti è stata invitata a seguire l’evento. Foto e indiscrezioni in via esclusiva ed eccezionale. Grande è l’onore per loro, ma da loro non ci possiamo aspettare alcuna critica obiettiva.
Provocazione
Ma l’arte della provocazione non era morta? Secondo Hirst sicuramente no. Pure Banksy insiste col vecchio black humor. Una sua tela che sta in mostra nella sezione indoor di Dismaland, vede una madre e una bambina felici in spiaggia un istante prima di una grande onda di Tsunami. Per cosa oggi questa scena dovrebbe piacerci? Per la pura e semplice provocazione, per il contrasto emozionale?
Quesito
Me ne pongo uno sopra tutti, abbastanza rumoroso. Avremmo saputo farlo noi in Italia? Come già detto, Banksy non si è fatto accompagnare da nessun artista italiano. In Italia siamo poveri di eventi contro-culturali, come di festival urbani che possano tangibilmente andare oltre il muralismo (faremo mai un mea culpa?). Avremmo potuto darci da fare, noi, in questo senso? Toscani, Papeschi, Cattelan, Veneziano, Alonge o De Molfetta, non avrebbero potuto convocare un’esercito di colleghi internazionali? Poco importa, è troppo facile ragionare con il senno di poi. Servono soldi. Banksy ha secondo me convinto nell’intenzione, nella trovata, poiché c’è riuscito.
Religione
Banksy sta diventando una fede. Sulla religione non si discute, perché la gente si offende ancora. Tutti nutriamo dei dubbi sulla verginità di Maria ma nessuno comunque intende insistere più di tanto. Non si discute neppure su Maradona. Alla fine che importa se abbia commesso una frode fiscale. Così è per Banksy. Se ne parla in privato; è argomento sensibile. I colleghi di livello non osano parlarne pubblicamente. Oggi o domani una chiamata alla coorte, chissà.
Social
A differenza di noi comuni mortali, lui non è sui social network. Ha strategicamente deciso di non esserci, perché inutile e controproducente; i social ti obbligano al confronto pure con mister nessuno. Come riesce a collaborare quindi con numerosissime persone e senza mai esporsi fisicamente? Eppure è una scelta a cui ha abituato tutti, a detta di colleghi e direttori museali.
Theme park
Sarà forse una fissa di Banksy ma è comunque una salsa molto tipica in tutti i piatti Waps(“white anglosaxon protestans”). Non è strano ricercare distrazione e sollazzo presso un parco a tema negli Stati Uniti, ma è così un po’ ovunque nel mondo influenzato dalla cultura anglosassone, decisamente di più se paragonato all’Italia. Per un certo modo alternativo di vedere le cose, questo è il male in assoluto. Qui ti vogliono stupido e grasso, tonto e divertito. Il parco a tema è il migliore amico del fast food, quello di Ronald Mac Donald’s per intenderci, ma è pure quanto di più trash ci si possa aspettare dal genere umano. È una premessa necessaria per capire il clamore che in Inghilterra sta avendo Dismaland, perché in Italia una sovversione simile poteva solo avvenire in una piazza, in uno stanco circo con animali o in un centro commerciale di provincia. Anche lungo la fresca costa inglese ci si sente come a Krustyland. Enormi complessi aquatici e tematici che… manco a Ibiza. C’è del grottesco ovviamente e non manca neppure stavolta: è un parco dove molti stanno portando i pargoli, ma per cosa, esattamente?
Underground
Ce n’è ben poco. È un evento per le masse, al contrario di altri più sotterranei, come il Cans Festival dello stesso Banksy, del 2008. Questa volta si manifesta un’apertura a 360, alla luce del sole: dalla casalinga di Voghera in Cornovaglia, agli estimatori più radical di arte e cultura contemporanea. Non ha il sapore di un evento clandestino o sovversivo, come ci si poteva aspettare, e non intende averlo. Mi corre in mente un festival, the Burning Man, non perché vi siano drammatiche analogie ma perché da un folto gruppo di artisti concettuali e innovativi come questo, io mi sarei aspettato semmai qualcosa di quel genere.
Video
Già autore e produttore di un film-documentario piuttosto farsesco (in cui la voce narrata dipingeva guarda caso Banksy con l’aurea del mito!), B. ha questa volta confezionato un video-promo per annunciare il parco Dismaland sul suo sito http://banksy.co.uk/. Nella più tipica retorica anti Mickey Mouse, allude a un parco che può spaventare gli apprensivi genitori borghesi, pubblicizzando “un evento triste, pessimo”. C’è davvero qualcosa di realmente commerciale, formale e autocelebrativo in questo mini-spot. Uno show che si proclama scadente e forse per anticipare le critiche esterne. Un video che fa passare quasi per imbecilli i visitatori, accorsi magari per il clamore, farsi due foto o per comprarsi un gadget. Del resto, se questo fosse solo uno spettacolo underground, perché tentare la parodia a cavallo tra Disney e Hollywood?
Zoo
Dismaland è una sorta di giardino zoologico. Nonostante le sue peculiarità, nonostante essere la parodia di un parco a tema piuttosto che un parco a tema, è stato ugualmente preso d’assalto: tutto vero, nessuna finzione. Difficile stabilire cosa sia frutto del caso e cosa sia stato ampiamente calcolato. Anche il sito in tilt per i troppi accessi e la ressa per i biglietti sembrano essere in perfetto tema distopico. Tutto somiglia a un reality, dagli spettatori ai volontari, fino a giungere alle opere. Queste sono sì reali ma pure stucchevoli, quasi pietose; congelate. Così mi appare la carrozza di Lady D.
Lo zoo è proprio questo: essere riusciti a pilotare un pubblico vero intorno ad una messa in scena.