Triste, solitario y final. Banksy e Dismaland, il suo malinconico parco dei Non Divertimenti

di Alessandro Riva

Il destino degli artisti che iniziano la loro carriera come enfant prodigedella provocazione e dell’arte anti-sistema è di finire spesso un po’ tristemente, come vecchie, malinconiche star ormai sfiorite, fatalmente incapaci di stupire e di sorprendere più di quel che abbiano fatto fino a quel momento. Ricchissime, viziatissime, ancora corteggiate, tuttora (e sempre più) supportate dal sistema che inizialmente fingevano almeno di combattere, e tuttavia guardate con una cert’aria di generale e fatale mestizia, quasi ognuno coltivasse in cuor proprio la sottile speranza che la loro carica esplosiva possa tornare un giorno a deflagrare, tornando a stupire e a scioccare (insomma, a provocare almeno uno straccio di emozione), malgrado tutti siano consapevoli, però, che la polvere da sparo di cui sono fornite le loro armi è diventata ormai fatalmente inoffensiva, e ha la potenza di fuoco di una pistola a salve. È quel che è avvenuto, e avviene quasi sempre ormai, con le stanche “battute” e battutine visive di Maurizio Cattelan, l’ex pibe de orodell’arte italiana (e internazionale), oggi ridotto, da prepensionato volontario, a far concorrenza ai copywriter di tutto il mondo con la verve, l’intelligenza e la creatività di uno studente un po’ tonto del primo anno di una qualsiasi scuola di pubblicità della provincia americana (valga per tutte l’ultima, banale campagna “Saluti da Rimini”, firmata appunto Cattelan). Non c’è che dire: qualsiasi cosa facciano, qualsiasi idea o ideuzza riescano ancora a partorire, un senso di sottile, vaga tristezza avvolge come un velo le loro gesta.

La tristezza, per l’appunto, che si respira guardando le immagini provenienti da Dismaland (nomen omen), il nuovo parco dei non-divertimenti concepito da Banksy come operazione metacommerciale (non per i profitti che ne ricaverà direttamente, che pure ci saranno e non saranno proprio pochissimi – altrimenti perché non farlo a ingresso gratuito? –, ma per l’indotto commerciale che ne ricaveranno le sue opere, e quelle degli artisti che ha cooptato), con tanto di finto lancio “segretissimo” dal quale sfuggivano solo alcune involontarie (involontarie?) indiscrezioni, che in pochi giorni sta facendo, come previsto, il pieno di biglietti e, comprensibilmente, un altrettanto pieno di sacrosante delusioni.

Qualche ora di fila e il viaggio fino alla poco amena località balneare di Weston-super-Mare per che cosa? Per vedere, nell’ordine: la carrozza di Cenerentola rovesciata in seguito a un incidente, con tanto di paparazzi all’opera (opera di Banksy, una smorta deriva “cattelaniana” dello street artist britannico), una Sirenetta che ha perso i lineamenti del volto, un blindato della polizia trasformato in scivolo per bambini (banale e triste parodia di ciò che avviene realmente in ogni paese appena uscito da una guerra, dove i bambini quotidianamente giocano sui carri armati e sui blindati rimasti a far la ruggine all’aperto), una donna assalita dai piccioni come in un incubo hitchcockiano, un castello delle fiabe diroccato, un delfino ammaestrato che sbuca fuori dalla tazza di un wc, un tir accartocciato su se stesso, una barca-giocattolo di migranti in navigazione con tanto di morti a bordo, un uomo con la maschera della morte che guida un autoscontro, e altre sciocchezzuole di tal fatta, nel bel mezzo di un depressivo ambiente semidiroccato, tra calcinacci, muri sbreccati, crepe ovunque, trascuratezza decennale, sporcizia, squallore.

Per entrare, però, ci informano le cronache (noi no, il viaggio e la fila non ce li siamo sobbarcati: per fare ore di attesa per vedere il nulla, quest’anno, ci è bastato metterci in fila di fronte ai molti, tristi padiglioni nazionali della Biennale di Venezia, vuoti di opere e di idee), bisogna, come in qualsiasi aeroporto o in tribunale, passare di fronte a guardie armate. “Ci sono due livelli di sicurezza: uno vero e uno parodistico”, ci informa il “Guardian”. “La sicurezza parodistica è uno dei momenti più divertenti della giornata. Creato dall’artista californiano Bill Barminski, si compone di macchine ai raggi X di cartone e di schede di oggetti sequestrati ai visitatori, sempre di cartone. Ma questa barzelletta su moderni sistemi di sicurezza non cambia il fatto che prima di entrare a Dismaland bisogna sottoporsi a una vera perquisizione, nella quale veri agenti di sicurezza chiedono ai visitatori se posseggono coltelli o bombolette. A Dismaland, infatti, sono permessi solo i graffiti ufficiali”. Se il messaggio non fosse abbastanza chiaro, a questo si aggiungono cartelli all’entrata, che annunciano che è vietato introdurre “coltelli, bombolette, droghe illegali e gli avvocati della società Walt Disney”: un ben calibrato mix di ironia e di triste acquiescenza ai valori dominanti, per lo meno nelle due voci che elencano le “bombolette” (simbolo del graffitismo e della prima street art, che, come tali, dovrebbero essere non solo ammesse, ma addirittura ben accette in un parco del genere: il vietarle è, per lo meno a livello simbolico, un tradimento dello spirito originario della street art, e un esempio quantomeno di ingratitudine da parte di un personaggio che alla pratica illegale della street art deve tutta la sua fortuna) e le “droghe illegali”: da sempre ammesse, o tutt’al più tollerate (per lo meno quelle leggere), in festival, rave, concerti rock ed eventi non-istituzionali, e sulle quali artisti ben più coraggiosi di Banksy hanno invece combattuto battaglie per la legalizzazione, o perlomeno la depenalizzazione, aprendo a ragionamenti differenti dall’idiota e criminale proibizionismo ovunque generalizzato.

In sostanza, che operazione è, questo volutamente e di fatto assai deprimente Dismaland? È, a dirla tutta, un’operazione un po’ furba, ma anche e soprattutto deludente, triste, vecchiotta, incapace di provocare reali emozioni e anche di provocare turbamento: il senso generale è, con vent’anni di ritardo, lo stesso che animò “Sensation”, la mostra-scandalo che diede il via al decennio (che credevamo, speravamo finito) dell’arte come provocazione, con tanto di ritratti giganti di serial killer (Marcus Harvey), di bambini con il naso a forma di fallo (fratelli Chapman) e di icone sacre realizzate con la merda di elefante (Chris Ofili). Altri tempi, altre sensibilità, altre derive dell’arte, che cominciava allora a flirtare e a confrontarsi con la tendenza necrofila e con la ridicola deriva spettacolar-populista e voyeurista della società contemporanea. Ma oggi? Che senso ha proporre un parco dei (non)divertimenti desolante, grigio, polveroso, banale, privo di effetti speciali, un banale campo di concentramento per depressi cronici, che non fa un baffo e non riesce a confrontarsi neppure alla lontana con i veri, grandi spettacoli organizzati (quelli sì, comunque eccitanti e sorprendenti) dalle immense società per azioni che detengono il potere del vero spettacolo e della vera dis/informazione in Europa e nel mondo? Se si volesse davvero sbertucciare, mettere alla berlina o contrastare i principi-base della moderna società della finanza e dello spettacolo globalizzato (business come unico valore dominante, ipocrisia, cinismo, moralismo di facciata, elitarismo, perbenismo, violenza, qualunquismo, razzismo, fascismo strisciante, lobbismo, etc.), oggi bisognerebbe per lo meno dimostrare di saper possedere la stessa abilità organizzativa, la stessa capacità di coinvolgere, di attrarre attenzione, e, se non divertimento, per lo meno interesse, passione, indignazione, eccitazione nella gente – insomma, di emozionare ed, emozionando, di creare reazioni nel pubblico. Ciò che Banksy e il suo triste carrozzone, che piaccia o no, difficilmente riuscirà a fare. Nessuno contesta il diritto di Banksy di criticare l’ideologia da parco-giochi in stile Disneyland su cui si basa la società occidentale, anzi: ma il principio, anche dal punto di vista linguistico e formale, è che, se utilizzi un linguaggio, poi lo devi saper “far funzionare” alla perfezione. Allora, se per la sua parodia della società dello spettacolo, Banksy utilizza appunto il “linguaggio” del luna park e del parco dei divertimenti, deve poi saperlo far funzionare: deve conoscere meccanismi, leve, attrazioni che sappiano, appunto, catturare l’attenzione del pubblico per proporre la sua visione critica. Anche una parodia, insomma, dev’esser fatta bene, e soprattutto dev’essere coerente, altrimenti meglio lasciar perdere.

Ha ragione il critico del “Guardian”, tra i primi addetti ai lavori ad essere entrato a Dismaland e ad essersi già pronunciato sul suo giornale, facendo mangiare la polvere alle testate concorrenti, che scrive: “Sentivo di star partecipando a una farsa nella quale ciascuno fingeva che tutto questo fosse uno scherzo migliore di quello che effettivamente è. In realtà i luna park, i rave o i festival rock sono molto più sovversivi – perché sono gioiosi. Forse bisognerebbe essere ‘fatti’ per divertirsi a Dismaland, e io ero lì alle 11 del mattino. Ma la sua incapacità di creare divertimento è controproducente. I luna park sono davvero luoghi strani, selvaggi, come i grandi registi hanno saputo riconoscere, a cominciare da Tod Browning con Freaks, e come la musica rock ha saputo vedere, a cominciare dai Doors che hanno girato Strange Days(la cui copertina ricalca scene di vita circense in mezzo a una strada di New York, ndr). Ma in Dismaland, l’idea che le fiere siano luoghi bizzarri non è stata presa in alcuna considerazione”. Un Fellini, aggiungeremmo noi, avrebbe saputo mutuare qualcosa certo di più divertente, spettacolare, interessante, surreale e soprattutto di maggior presa e interesse per il pubblico generico, e non solo per farne un’operazione mediatica di rilancio delle quotazioni di artisti già iperaffermati in un sistema solipistico e un po’ mafioso come quello dell’arte internazionale, senza per questo mancare di ragionare sulla tristezza che gli stessi parchi dei divertimenti fatalmente emanano (ed è, anche questa, un’idea tutt’altro che nuova, della malinconia che trasuda da ogni parco dei divertimenti, da che mondo e mondo).

Non solo: non soltanto i festival rock e i rave party illegali, dove le bombolette e le droghe non sono bandite per principio (poiché si basano sul principio della libertà dalle regole di una società ipocrita e perbenista), sono più gioiosi, e dunque più coinvolgenti e interessanti tout courtdi quel che non appaia Dismaland, ma sono più “sovversivi”, problematici e scardinanti persino molti videogiochi – a cominciare da quel coacervo di pazzie grandguingolesche e di pratica criminale giovanile che è GTA, ovvero Grand Theft Auto, il gioco più folle e più seguito dagli adolescenti di tutto il mondo, che, utilizzando le tecniche più raffinate dell’animazione digitale, ha in realtà messo a nudo le contraddizioni della società americana (e in genere occidentale), perbenista e moralista a parole, e poi violenta, fascista, nutrita di valori negativi, criminali, sessisti, manipolatori nel suo profondo. Così come hanno saputo entrare nel profondo delle contraddizioni della società dello spettacolo e del voyeurismo contemporaneo grandi produzioni cinematografiche – da Natural Born Killers a molte pellicole di Altman o di Tim Burton –, che, mantenendo un alto livello di spettacolarizzazione, di capacità registica, di fotografia, di effetti speciali, in breve di professionismo, hanno però anche saputo mettere il dito sulla piaga delle contraddizioni della società americana e occidentale.

Il punto allora è: per sperare anche solo vagamente di competere, allo stesso tempo mettendone a nudo la duplicità, la miseria e la pochezza, con la spettacolarizzazione e la capacità comunicativa e manipolatoria di una società che sullo spettacolo e sulla manipolazione mediatica basa gran parte delle sue risorse, non basta mettere in piedi una triste parodia dei suoi grandi, mastodontici, grotteschi parchi dei divertimenti. Bisogna poi saper fare di meglio, fare qualcosa che tenga loro testa nel nostro immaginario, e che rimanga impresso a lungo nella nostra coscienza. Altrimenti è meglio, molto meglio continuare a fare graffiti o incursioni illegali, vuoi nei musei vuoi nei medesimi parchi dei divertimenti, come a suo tempo fece Banksy distribuendo genialmente dentro Disneyland manichini vestiti da prigionieri di Guantánamo. L’alternativa è ciò che Banksy sembra star facendo con questa sua malriuscita, e tuttavia mediaticamente riuscitissima, trovata: quello che Lenin chiamava “l’utile idiota” del sistema – che, giocando a criticarlo, in realtà non fa che portare acqua al mulino della grande lobby artistico-finanziaria internazionale, senza più esser capace di stupire, né di sorprendere, né di aggiungere alcunché di nuovo, di “politicamente scorretto” né, men che meno, di minimamente rivoluzionario o sovversivo al suo finora ben calibrato vocabolario artistico.