di Alessandro Riva
Il cibo è diventato, nel corso degli ultimi decenni, la cartina di tornasole perfetta delle contraddizioni e delle ipocrisie del capitalismo globale. Mitizzato come ideale oggetto di consumo “pulito” e “sano” in un mondo in cui il confine tra naturale e artificiale si assottiglia sempre di più, impedendoci di capire che cosa sia ancora realmente possibile classificare come “naturale” in una società che ci ha ormai abituati alla mescolanza tra elementi biologici e sintetici (dal corpo umano a ogni sorta di materiali fino, appunto, all’alimentazione), col tempo il cibo è andato via via perdendo il suo statuto di elemento nutritivo puro, associato alla percezione del piacere del palato, per trasformarsi in status symbol, in elemento di distinzione sociale, di differenziazione intellettuale o spirituale: da qui il diffondersi sempre più ampio di tendenze e mode salutiste (vegana, bio, chilometro zero, naturale, etc.), con la ricerca di cibi sani, puliti, non geneticamente modificati, non grassi, e via dicendo. Di contro, la società dei consumi ha però continuato, e perpetrato sistematicamente, il suo processo di modificazione genetica dei semi su larga scala, di appiattimento e livellamento del gusto a livello globale, di mercificazione dei sapori e dei desideri, anche alimentari, nascondendosi dietro l’apparente varietà dei gusti e delle possibilità nutritive che, nella realtà, nelle sue forme più pure e naturali (alimenti bio, vegani, etc.) rimangono poi appannaggio di una sparuta – e danarosa – minoranza economica e intellettuale, di contro a una massiccia standardizzazione del gusto portata avanti dalla grande distribuzione e dalle multinazionali del junk food, dai media e dalle società di comunicazione, dai professionisti del controllo e della manipolazione programmata dei desideri e delle aspirazioni delle masse.
Il cibo “sano” e pulito è diventato, così, un facile specchietto per le allodole di una società in perenne e conclamata malafede, dove la standardizzazione e industrializzazione del gusto non è un optional, bensì una necessità produttiva globale, e dove la parallela ricerca di alimenti “puliti” è utilizzata più dai governi e dai media “embedded” per lavarsi la coscienza con vaghe campagne di sensibilizzazione sociale e di blando appoggio a una generica “purezza” e bontà del cibo naturale, continuando però, nel contempo, a sostenere attivamente la produttività globale dei cibi artificiali. Ultimo, ma non poi tanto sorprendente, esempio – eclatante nella sua palese contradditorietà – la presenza di Mac Donald’s come sponsor dell’Expo 2015 di Milano, dedicato al tema, quanto mai generico nella sua inutile vaghezza, del “nutrimento del pianeta”.
In questo quadro, l’oggetto del desiderio quotidiano di milioni di adolescenti occidentali – l’hamburger di diretta ascendenza americana – ha assunto sempre più la funzione di icona del cattivo gusto globalizzato, segno tangibile, nella sua grassa, ricca, golosa pienezza nutritiva, di cibo insano per eccellenza, ma anche della standardizzazione del gusto e del colonialismo mondiale del desiderio più elementare che esista (assieme a quello sessuale), ovvero il desiderio di nutrirsi. L’hamburger è divenuto, così, ciò che negli anni Sessanta era la bottiglia della Coca Cola: oggetto minimo del desiderio corrente di miliardi di persone in tutto il mondo, elemento-base del nutrimento omologato dai canoni imposti dal colonialismo culturale americano, simbolo, al contempo, della conquista di un benessere minimo standardizzato in ogni landa del pianeta. Non è un caso che proprio dal nome della maggiore multinazionale del junk food sia oggi preso un termine che esprime la standardizzazione forzata dei desideri su scala mondiale: “McDonaldizzazione” è diventato infatti sinonimo globale di omologazione, livellamento verso il basso, universalizzazione forzata del gusto e dei desideri culturali.
Già nel 1962, Claes Oldenburg – un anno dopo che Andy Warhol dipinse per la prima volta le sue 32 varianti di zuppa Campbell su fondo bianco – creò la scultura “Floor burger”, una delle sue prime sculture di oggetti tratti dalla vita quotidiana in formato maxi. Si trattava di un hamburger gigante realizzato in materiali poveri, prima avvisaglia della celebrazione di quell’omologazione del gusto medio americano su scala planetaria che avrebbe caratterizzato i decenni a seguire. Più di cinquant’anni dopo, Thomas Fiebig ha realizzato decine di varianti del medesimo soggetto – l’hamburger appunto – come schema-base per un’infinita serie di “esercizi di stile” di una forma pittorica finalmente liberatasi sia dalle costrizioni dell’accademismo realista, sia da quelle di gusto neopop, neoinformale o fotorealista.
Quella di Fiebig è infatti una pittura studiatissima, fin dall’origine, e nei minimi dettagli, con una tecnica e un’impostazione fondamentalmente digitali, trattate però sulla tela con un’apparente libertà e felicità del segno che lascia allo spettatore la sensazione di trovarsi di fronte a un prodotto pittorico appartenente alla scuola del nuovo graffitismo internazionale, con un occhio alla scuola dell’espressionismo astratto, uno alla tradizione pop e uno all’informale classico. In realtà, la sua è una tecnica combinatoria che fa pensare a certi remix di musica elettronica contemporanea, in cui il forte rigore compositivo iniziale non toglie nulla alla grande libertà e fluidità di segno dell’apparato pittorico finale. L’estrema e calcolatissima fluidità del segno, che mescola al suo interno campiture piatte di derivazione neopop, segni che paiono frutto di complessi calcoli algoritmici, combinazioni frattali di colori, esplosioni di pigmenti solo apparentemente incongrui e contrastanti, è al tempo stesso un’invenzione formale perfettamente coerente con il concetto di pasticheestetico di marca postmoderna e una metafora esemplare quanto spudorata delle contraddizioni e degli ossimori presenti nel corpo stesso della società dei consumi e dello spettacolo avanzato: l’apparente libertà del segno, dietro cui si nasconde un geometrico rigore di elementi e accessori combinati e rimixati in fase di pre-produzione digitale, nasconde infatti al suo interno, a livello concettuale prima ancora che estetico-formale, un intento più o meno evidente di decostruzione semantica dei codici percettivi e comunicativi della surmodernità, dove il caos estetico diffuso, la fluidità di rapporti e relazioni (secondo l’accezione di Baumann) e l’apparente molteplicità dei messaggi visivi sottende in realtà complesse – e non sempre dimostrabili, né facilmente interpretabili – strategie di comunicazione e di manipolazione di desideri, bisogni, ideologie da parte di lobbies, aziende, gruppi di potere e reti di interessi politico-finanziarie sempre più complesse e articolate. Ecco allora che la scelta, da parte di Fiebig, dell’hamburger come “corpo solido” su cui innestare la sua perfetta macchina scenica pittorico-digitale, appare del tutto coerente con questo intento, che è insieme estetico-formale e politico, seppure in senso fortemente lato e metaforico: l’hamburger, trattato come pagina bianca su cui mettere in scena la metafora del ferreo controllo sotterraneo su cui innestare lo spettacolo dell’apparente libertà totale della forma e del colore, diventa infatti, esso stesso, simbolo, a un tempo, dei nostri desideri reali e di quelli immaginari, dei bisogni veri e di quelli indotti, della nostra (apparente) libertà di scelta e del nostro (reale) stato di servitù cui non sappiamo, e non possiamo, liberarci, pena l’isolamento e l’esclusione sociale e culturale. Simbolo, in sostanza, tanto della nostra apparente libertà, quanto delle costrizioni sotterranee cui la macchina del controllo fluido sotterraneo, ma non per questo meno ferreo e articolato, sottopone giorno dopo giorno ogni nostra scelta, ogni nostro desiderio, ogni nostra idea e proiezione sul mondo circostante.
Thomas Fiebig | Hamburger
Galleria Bianca Maria Rizzi & Matthias Ritter
8 ottobre | 13 novembre 2015
Via Cadolini, 27, Milano
http://www.galleriabiancamariarizzi.com/
inaugurazione: giovedì 8 ottobreh. 18.30