Svitlana Grebenyuk. L’ultima cena dell’umanità

di Alessandro Riva

70x100 smalto su tela 2014

Difficile, se non impossibile, etichettare in qualche modo il lavoro di Svitlana Grebenyuk. Non è (solo) questione di metalinguismo, o di elcettismo linguistico. Certo, l’artista ucraina, oramai naturalizzata italiana, è principalmente pittrice, ma, come molti altri protagonisti dell’arte contemporanea sia italiana che internazionale, non si ritrae di fronte alla possibilità di sperimentare e realizzare installazioni d’ogni tipo, utilizzando i materiali più diversi e i riferimenti linguistici più disparati. Ha creato, tanto per dare un’idea, un grande codice a barre realizzato con scarti di vecchi legni – quasi relitti di un naufragio – per una mostra in un centro culturale de L’Avana, simbolo, malgrado tutto, di una sorta di arcaismo della modernità che ci attanaglia tutti; poi un cappello da vescovo (o da Papa?), realizzato con semplice carta da giornale, in occasione di una mostra alle Officine Creative Ansaldo di Milano, proprio durante il passaggio di testimone tra Papa Benedetto XVI e Papa Francesco, che richiamava immediatamente alla mente l’idea dell’insostenibile leggerezza e mancanza di certezze di una funzione un tempo vissuta come immutabile e sacra, come quella papale, oggi anch’essa in balìa del drammatico flusso di inconsistenza e di confusione valoriale e psicologica di cui la modernità si è fatta drammaticamente portatrice; e ancora, una sorta di “scena del crimine” macchiata di sangue all’interno dell’esperienza di occupazione artistica dell’ex macello ribattezzato Macao, sempre a Milano, che ha “imbrattato”, con un atto insieme fortemente estetico ed emotivo, uno spazio dichiaratamente spurio e marginale come quello milanese.

Svitlana Grebenyuk, The Secret 3, smalto e carboncino su tela, cm 100x80.
Svitlana Grebenyuk, The Secret 3, smalto e carboncino su tela, cm 100×80.

E, a tutt’oggi, l’artista continua a saltabeccare da un linguaggio all’altro, con grande libertà ma anche con grande forza espressiva: per esempio, con un servizio di bicchieri (ecco, dunque, “l’ultima cena” da cui il titolo di questa mostra: ma ci torneremo più avanti) “marchiati”, come bizzarre griffe, dagli emblemi del comunismo sovietico e del nazismo, simboli delle due grandi religioni politiche che hanno caratterizzato, con il loro carico di speranza poi tradita dai fatti (il comunismo) e di spaventosa devastazione ideologica e di sprezzo del valore della vita stessa (il nazismo), il secolo testè trascorso; e, ancora, con i ritratti di grandi-piccoli protagonisti della deriva populista e autoritaria della politica recente (da Berlusconi a Putin), ridotti a piccole, grottesche, bucherellate luminarie da fiera di paese: quasi un monito verso lo smottamento insieme drammatico e farsesco che s’è impadronito della politica mondiale nell’era dello spettacolo integrato.

Ma questo saltabeccare da un linguaggio all’altro, da un’idea all’altra, da un guizzo intellettuale all’altro, tuttavia, non è una sua determinante peculiarità: oggi, infatti, l’habitus di artista eclettico e multilingue è, potremmo dire, una costante, se non un dovere, per un artista che voglia dirsi realmente, anche se non deliberatamente, “contemporaneo”.

Qual è, dunque, la vera peculiarità di Svitlana Grebenyuk? È nascosta, potremmo dire, nella sua candida e folle innocenza; nella sua incrollabile e deliberata “ingenuità” d’artista, scevra da problemi inerenti al gioco e alle politiche del mondo dell’arte, che non rischia e non vuol mai cadere nella facile scorciatoia della provocazione, dello scandalo, dell’opera che feve “funzionare” a tutti i costi, realizzata apposta per il pubblico degli art-addicted di cui oggi pullula il banale e superficialissimo sistema internazionale dell’arte; è, soprattutto, nella sua determinazione a voler scovare a tutti i costi il segreto nascosto nel cuore più profondo dell’operare artistico; nel suo cercare ogni volta un linguaggio, uno stile, un fulcro sul quale posare – momentaneamente – la forza di uno sguardo unico sul mondo.

“Perché dipingi?”, ho chiesto un giorno a Svitlana. “Per sconfiggere la paura”, mi ha risposto.

Ecco: la sua forza straordinaria d’artista, la sua peculiarità più intima e profonda, è nel suo cercare a tutti i costi la via per sconfiggere la paura. La paura di vivere senza uno scopo, la paura che la vita stessa, e il fardello di idee, sovrastrutture, linguaggi, piccoli dilemmi quotidiani, e credenze, e pregiudizi, e ideologie, che ci portiamo dietro giorno dopo giorno, non abbia realmente alcuno scopo.

Svitlana Grebenyuk ha intitolato questa mostra – e con lei il ciclo di lavori che ne caratterizzano il cuore – “L’ultima cena”. È stata a lungo indecisa (come spesso le accade) nell’imporle questo titolo. “Non sarà troppo legata all’esperienza del Cristo, all’iconografia evangelica?”, si chiedeva. Certo che lo era. Come può prescindersi dall’ultima cena di Gesù, se si parla appunto di “ultima cena”? Eppure. Eppure lei, diceva, voleva parlare d’altro. Di questo, ma anche d’altro.

Svitlana Grebenyuk, Senza titolo, 2014, carboncino e acrilico su tela, cm 120x100.
Svitlana Grebenyuk, Senza titolo, 2014, carboncino e acrilico su tela, cm 120×100.

L’ultima cena è, per Svitlana, anche l’ultimo smottamento politico e umano di un mondo alla deriva, del quale a noi rimangono solo le briciole su di un tavolo malapparecchiato (e quanto sono esemplari quelle strane nature morte, che si portano dietro le tracce d’una fissità morandiana, e insieme la freschezza d’una pittura evanescente e diafana come quella d’un bizzatto acquerello, o d’un segno tracciato in fretta, come una qualsiasi tag, sul muro d’una periferia urbana!). È il residuo d’una modernità che è insieme sfavillante e ipertecnologica, attraversata da flussi di informazioni continui, ossessivi, ininterrotti, da un bombardamento di immagini sovrabbondante e inarrestabile, e tuttavia più che mai arcaica, nella sua impossibilità di trovare una stabilità emotiva di qualsiasi genere, nella sua ricerca d’un bandolo di significato, nel suo tragico desiderio di trovare un senso ultimo nel cuore delle cose, che continua, anche a duemila anni dalla nascita di Cristo, e a più di duemila dalla nascita della filosofia greca, fatalmente a sfuggirci. Può l’arte aiutarci a trovare questo senso mai scoperto? Non sappiamo. Ma l’arte è la stessa oggi, da Duccio e da Giotto alla surmodernità (checchè ne pensino in proposito i paladini dell’avanguardia permanente).

Svitlana Grebenyuk affronta il nocciolo dell’arte come se non ci fosse un prima e un dopo, come se le avanguardie non ci fossero state, non perché ne disconosce o non ne condivida la lezione, ma perché gli steccati tra arte classica e avanguardia sono anch’esse morte, sepolte, con la fine delle ideologie e del mito di un’umanità in sviluppo progressivo verso un “bene” o un “meglio”.

Ecco allora – e veniamo al nocciolo vero della sua ricerca – i suoi quadri misteriosi. Come altro chiamare quadri che ad ogni stagione si rinnovano, che ad ogni stagione mutano pelle come certi animali che necessitano di rinnovare la pelliccia rimanendo in realtà sempre se stessi, che passano dai colori accesi e i segni decisi e apparantemente semplici di una decina d’anni fa, al rigoroso bianco e nero dei quadri successivi, ai cosiddetti quadri in 3D (da vedere rigorosamente muniti d’occhialini), quindi ai monotipi, poi ancora alle strane, meravigliose icone, insieme arcaiche e straordinariamente contemporanee (quasi avessero assorbito in un sol colpo la lezione dell’arte sacra ortodossa, quella pop di Warhol e certe ascendenze della street art più radicale, con l’uso di stencil e di mascherine per comporre la figura o le scritte che accompagnano le immagini); e infine, e ancora, quadri che ritornano al disegno – alla semplice, antica e sacra linea del segno elementare tracciato sulla tela bianca, trattata però come una carta d’acquerello: e come non vederci anche la lezione del segno magistrale e drammatico d’una Marlene Dumas? –, e, di nuovo, la traccia però di alcuni tocchi di colore, che appaiono qua e là, folli, incongruenti, insieme delicati e quasi disturbanti, a dare il segno di una strana epifania, d’un senso metafisico dell’essere, e della creazione tutta, in un mondo che è tragicamente ridiventato buio, cupo, un incubo nazista o neomilitartista (quasi un’antica memoria del passato sovietico vissuto dall’artista nei suoi primi anni di vita, dei drammi totalitari e violenti che il suo popolo ha dovuto subire nell’ultimo secolo di storia, di cui lei stessa ha subito i traumi, da bambina e ragazzina, e che oggi fatalmente sembrano voler tornare, con drammatica ritualità, ad agitare il cuore della storia); o semplicemente caratterizzati da un tragico conformismo da incubo neocapitalista, dove tutti i comprimarti paiono morti, zombie, tristi protagonisti d’una modernità precocemente invecchiata, in rovina, in rapido disfacimento, ma qualcosa – un segno, un lampo, un bagliore azzurrognolo, o rosa, o rosso, o giallo – rivela invece la presenza d’un senso ultimo, bizzarro o divergente, d’un barlume di santità cui tuttavia nessuno è più in grado, non dico di credere, ma neppure di poter aspirare vagamente a riconoscere.

Svitlana Grebenyuk, Made in Cuba, 2013, legno, cm 250x180x10.
Svitlana Grebenyuk, Made in Cuba, 2013, legno, cm 250x180x10.

Ma non è finita. Perché, ancora una volta, Svitlana non si ferma, inventa nuovi linguaggi, nuovi stili, nuovi modi di parlare sempre della stessa cosa. Ecco allora gli ultimi quadri, nuovamente colorati, dipinti in fretta, a spray, quasi l’artista avesse assorbito, involontariamente (senza alcun calcolo o furbizia) i colori delle “tag” che ogni giorno scorge sui muri, i colori della strada ricoperta di graffiti, di scritte, di immagini tracciate in fretta da mani spesso anonime, che tuttavia cercano un varco nella sovrabbondanza di icone e di messaggi da cui è attraversata la pelle della postmodernità.

Ma, ancora, Svitlana cerca però un’immagine, un’iconografia, che non ha nulla di noderno, di deliberatamente contemporaneo, di allusivo verso gli specchi fragili della più ovvia e trita contemporaneità. I gesti, i volti, i colori di questi nuovi quadri sono infatti quelli, semmai, della pittura manierista, dell’ultima avanguardia, se così vogliamo chiamarla, dei secoli della Controriforma: sono i movimenti e i volti degli Apostoli, dei santi, degli ultimi martiri cristiani, sono i gesti della Vergine e degli angeli che son venuti ad annunciare la nascita del Salvatore, degli antichi profeti che annunciano un Segreto di cui l’umanità sta ancora in parte attendendo il disvelamento, sono gli eroi d’un tempo antico che tutt’ora segna, con l’intangibilità del suo potere evocativo, il senso ultimo della nostra storia.

Perché dipingere, davvero, oggi? “Per sconfiggere la paura”. Sì, la terribile vacuità di questo strano mondo, insieme modernissimo, bizzarro, attraversato dai segni d’una modernità insieme incomprensibile e grottesca, e tuttavia tenace nella sua intangibile e arcaica immutabilità e nel suo eterno bisogno di violenza e di sopraffazione, forse fa un po’ meno paura, quando i suoi fantasmi e i suoi relitti sono trasfigurati nei colori d’una pittura che alla volte, nella sua folle e deliberata ingenuità e innocenza, arriva quasi ad odorare un po’ di santità.

Svitlana Grebenyuk, Pussy Riot, 2014, stampa e acrilico su carta.
Svitlana Grebenyuk, Pussy Riot, 2014, stampa e acrilico su carta.

Svitlana Grebenyuk | L´Ultima Cena

21 maggio | 27 giugno 2014

Galleria Bianca Maria Rizzi & Matthias Ritter

Via Cadolini, 27, Milano

+ 39 347 3100 295

info@galleriabiancamariarizzi.com

http://www.galleriabiancamariarizzi.com

inaugurazione mercoledì 21 maggio 2014 h. 18.30