Street Art, un termine abusato che dice tutto e niente. E se le cambiassimo nome?

di Vlady Art

TiltA poco più di dieci anni di distanza dal primo vero debutto espositivo europeo e a otto dall’exploit italiano, la street art è divenuta davvero un fenomeno globale: chi non ne ha mai sentito parlare? Eppure, la veloce diffusione mediatica avutasi con il proliferare dei suoi esponenti sembra aver messo da parte alcune cruciali questioni critiche, che rimangono tutt’oggi poco investigate. Ma facciamo un passo indietro appunto di circa dieci anni. Nel 2004 si tenne a Parigi quella che fu la prima volta della Street art: “Nusign 2.4”. Organizzata presso la galleria Art Core di Parigi, si prefisse di mostrare alla critica una selezione di artisti di strada internazionali, tra cui 108, Akim, Akroe, André, Baschz, BO130, CKE, Eko, El Tono, ERS, Cke, Gomes, Microbo, Miss Van, Honet, Influenza, Stak, Viagrafik, Zebra, ZEVS. Nel 2007 venne il turno di Milano con una panoramica sulla scena Italiana: “Street art, sweet art”, a cura di Alessandro Riva, al Pac – Padiglione d’arte contemporanea.

Il muro del Pac dipinto da Blu e Erika il cane per la mostra "Street Arte Sweet Art" nel 2007.

Il panorama presentato al Pac era parecchio eterogeneo e composto sia dai nomi della primissima guardia, più legati ai graffiti tradizionali, sia da nomi “nuovi”, cioè contraddistinti dalle influenze più varie, dai manga al pop. Ci fu spazio per ben trenta gli artisti, tra cui Abbominevole, Airone, Blu, Blue&Joy, Bo130, Bros, Dado, Ivan, Joys, KyOne, Microbo, Nais, Pao, Phobia, Pus, Rendo, Cristian Sonda, Marco Teatro, Atomo, Tv Boy, Wany, Rae Martini, Dem, Gatto, Ericailcane, Ozmo.

Poiché entrambe le mostre si rivelarono di successo, le attenzioni del pubblico si concentrarono a lungo sui selezionati, a discapito dei tanti altri che non ebbero la fortuna d’esserci. In ambedue gli eventi, gli street artist ci furono volutamente proposti sotto lo stesso ombrello, perché evidentemente in quei giorni a balzare all’occhio era una sola sostanziale peculiarità: gli artisti lavoravano nello spazio urbano, spesso senza permesso. Il denominatore comune fu quindi “la strada”, anche per restare attinenti al nome con il quale la stampa nei primi anni del 2000 etichettò quest’arte spontanea.

Cosa possiamo dire dunque, oggi nel 2015, in merito o a favore di questo denominatore comune? È abbastanza parlare di “strada” per delineare un movimento, accomunare gli intenti, gli stili e le storie? Io, da insider, credo proprio di no. Il grande merito, indubbio, della street art vista come un tutt’uno, fu quello di portarsi alla cronache, farsi conoscere e rispettare, quindi abbattere l’opinione diffusa di chi la considerava solo una sottocultura figlia dei ghetti americani e prossima al vandalismo.

Era già ben noto agli esordi che quello che ci si trovava di fronte era un melting pot di background culturali profondamente differenti: cultura hip-hop americana, la neo-situazionista e post-punk europea, l’antagonismo internazionale, il pop, il cinema e i fumetti, poi l’iper-pop e “l’internet art”…. insomma quanto già animava l’arte delle gallerie, se non che, il potere della street art sdoganava e massificava la sua iconografia anche su adesivi, magliette e quant’altro ci fosse di grafico. Una nuova musica sì, ma più un remix di suoni già esistenti.

Faith47, Sud Africa.

Il panorama internazionale della street art include attualmente artisti che non potrebbero essere più diversi tra loro, diversi come le varie anime che compongono l’arte contemporanea, la pittura o le svariate arti performative. Essere in strada può accomunare alcuni aspetti tra i singoli artisti, ma non definirli. È difficile a mio avviso trattare il caso street art come movimento unitario; perché in assenza di manifesto, di fondatori o di una qualsiasi base comune, più ampia di quanto possa essere la strada, non può esserci movimento. E parlando di strada come luogo libero e spontaneo, non dimentichiamoci che oggi sempre più street artist li trovi in gallerie o in operazioni murali autorizzate.

Proviamo a passare al setaccio alcuni rami che animano questa eterogenea faccenda. Una delle più macroscopiche differenze risiede tra i muralisti e gli interventisti, come dire pittori e specialisti degli interventi istallativi. Cosa può mai accomunare Banksy con Brad Downey? E cosa vuol dire street art se molti dipinti murali sono, essenzialmente, delle raffigurazioni pittoriche e illustrative? Può la sola assenza di cornice farci parlare di una cosa nuova… o non sarebbe più opportuno continuare a parlare di pittura? Per come la intendo io, la street art non è da intendere come una mera trasposizione di illustrazioni su carta al muro, o viceversa. La street art dovrebbe esser quella ambientale, site specific, cioè che si nutre e si fonde con la forma che la ospita; ne ricalca i tratti e avvia un gioco di allusioni visive. Una sorta di land art adeguatasi all’interno delle città.

“Nusign 2.4”, luglio 2004, Parigi.

Anche il mito per cui questa non è un’arte “laureata” è vecchio. Quelli che oggi sono definiti street artist hanno pure studi universitari e background intellettuali; vengono da ambienti medio borghesi, dalla fotografia o dalla letteratura, come dalla scienze. Neppure la famosa provenienza dai graffiti accumuna tutti, sin dai tempi di Haring o Basquiat che non erano, appunto, writers. E a cosa dovrebbe poi servire provenire dai graffiti se ci si ritrova punto e accapo nella pittura, la stessa pittura del XX secolo?

Perché quindi dovremmo parlare di street art quando ammiriamo un grosso dipinto parietale in una periferia italiana, in cui il dipinto figurativo e, e poteva essere, benissimo su carta o tela, trattato alla stessa maniera? Può solo il muro e le dimensioni renderlo magicamente “street art”? Vogliamo per caso trattarne i temi toccati, le personali scelte dell’artista, quasi non curante del contesto in cui si trova a dipingere? All’interno della street art è necessario fare un plauso ai post-graffitisti, ovvero quegli artisti dove sì è presente tutto il loro passato, ma oggi ricalibrato e ammodernato in chiave più concettuale; la parola viene astratta e la forma prende forza. Artisti dove l’uso del colore, dello spray e del muro ha ancora tutta la sua importanza.

Pittori, interventisti e performers non potranno esattamente essere raccontati bene se ci si ostina a includerli in uno stesso movimento-contenitore, perché la strada, come la galleria, da sola non può determinare. Se tele, colori e i luoghi dell’arte fossero stati così qualificanti in passato, non avremmo mai separato le avanguardie storiche, metti cubismo, costruttivismo e futurismo. Dipingere un ritratto su di un muro, scrivere una frase, tracciare figure geometriche, installare manichini in un parco… può certamente essere arte, ma non può rappresentare una corrente artistica.

Inoltre, se non bastasse… chiedilo a loro. Chiedilo ai tanti artisti inizialmente intesi come “street artist”, se l’etichetta “street art” (sputtanata su Facebook da migliaia di adolescenti alle prese con una stampante o una bomboletta) identifichi tutt’ora il loro operato. Oggi si va verso la conciliazione con il mondo dell’arte, verso la presa di coscienza di fare arte a prescindere, chiaramente non senza le influenze del proprio tempo, come graffiti e nuovi media. C’è chi fa arte nello spazio pubblico e poi c’è chi non la fa; nel frattempo si cercano nuovi termini, perché la precisione, nel professionismo (ma anche nell’arte), non è mai abbastanza.

Aryz, Barcellona.