Il dramma ancora lacerante dei “desaparecidos”, delle “persone fatte scomparire” durante gli anni della dittatura militare in Argentina è il tema a cui dedica la sua mostra Silvia Levenson, artista di origini argentine impegnata politicamente e arrivata in Italia dagli inizi degli anni ottanta, e le cui opere sono ora esposte in alcuni dei più importanti musei internazionali.
Come testimoniano archivi di Stato e organizzazioni umanitarie, durante il regime di terrore del generale Videla, dal ’76 all’83, furono trucidati nello stato argentino più di 30.000 oppositori, prelevati di nascosto dalle loro case, a volte con moglie e figli, deportati in caserme o in centri clandestini di detenzione, torturati e uccisi, e i loro cadaveri fatti sparire, come nei tristemente famosi voli della morte, perché non ne rimanesse alcuna traccia a testimonianza del genocidio; i loro figli, spesso neonati o poco più, venivano trattenuti come bottino di guerra, e con identità falsificata dati in adozione a militari o a famiglie della “buona società”.
In questa mostra dal titolo emblematico, prima tappa di un più ampio progetto che inaugurerà nel gennaio 2015 presso l’American University Museum di Washington, Silvia Levenson, proseguendo un suo lungo percorso di ricerca, presenta una serie di lavori sulla negazione dell’identità, e sulle sottili violenze che attraversano la vita quotidiana, sui drammi celati all’interno di contesti rassicuranti. Utilizzando come mezzo espressivo privilegiato il vetro, materiale per eccellenza trasparente, “freddo e tagliente, bello e affascinante ma anche potenzialmente pericoloso”, l’artista crea oggetti accattivanti ed eleganti, perfettamente levigati che nascondono, come metafora del nostro vivere quotidiano, elementi pericolosi e appuntiti: bellissime scarpette colorate di vetro con chiodi al loro interno, eleganti vestiti-corazze in vetro attraversati da lamette, borse trasparenti che lasciano intravedere coltelli, sedie e poltrone acuminate.
Con feroce ironia l’artista ci mostra nelle forme apparentemente rassicuranti plasmate nel vetro ciò che generalmente rimane nascosto, “celato sotto il tappeto di casa”. Oggetti che più che raccontare una storia dura, di lotte e violenze, suggeriscono ciò che precede il pericolo, evocano sentimenti oscuri, ciò che rimane in ombra, quelle “ferite dell’infanzia” che ci racconta la scrittrice Doris Lessing.
“Uso il vetro per confrontarmi con l’archeologia del quotidiano,” racconta l’artista “è come usare la memoria degli oggetti per narrare o semplicemente alludere ai sentimenti”. Altalene disabitate, scarpe abbandonate, sedie circondate dal filo spinato, oggetti sempre realizzati con perfetta cura formale, immagini stereotipo della felicità domestica, ma che fanno riaffiorare l’infelicità e l’impossibilità di dare risposte ai drammi della realtà circostante, tracce di una memoria che lascia forte disagio e angustia interiore.
“Arrivo da un paese dove la memoria è importantissima” scrive l’artista “uno dei nostri slogan era “ni olvido ni perdon” per i torturatori e credo che questo sia legato al bisogno di giustizia… Credo che il perdono a volte ci faccia paura perché può essere come un salto del vuoto. Infatti nel mio pezzo “Io ti perdono” una seggiolina piccola appoggia sul tappeto di filo spinato, come se il salto nel vuoto o il volo fossero l’unica alternativa a rimanere fermi nel dolore”. Una riflessione acuta sui rapporti umani e una lettura sui simboli della quotidianità: nel rappresentare un’infanzia anarchica e spensierata, irridente, con giochi e indumenti su misura, l’artista ritrae “quel tappetino gommoso di normalità” che sembra precedere tutti i drammi, quelle tensioni che pulsano sotto un’apparente tranquillità e ordinarietà.
Nei lavori creati per questa occasione, sculture, installazioni e fotografie, come l’altalena dal titolo “E’ volata via”, le tazzine con scritto “di questo non si parla”, le tutine in lattice ricamate, la foto dell’artista con la sorella anni ’60 nella Plaza de Mayo sovrastate da coltelli acuminati, Silvia Levenson parla di una realtà complessa e articolata dove il “cannibalismo dei sentimenti” chiama in causa non solo vittime e carnefici ma anche la società contemporanea e i suoi comportamenti culturali. Ci si muove in un mondo senza apparente soluzione, dove, racconta l’artista, “come in un koan buddista alla fine diventa più importante il percorso mentale o la storia che la soluzione in sé.”
Questa mostra è realizzata in collaborazione con l’associazione “Abuelas de Plaza de Mayo”, le nonne di Plaza de Mayo, che vanno alla ricerca in Argentina e in Europa dei giovani desaparecidos che vivono ora con una falsa identità.
Silvia Fabbri
Silvia Levenson
IDENTITAD DESAPARECIDA
dal 5 febbraio al 2 marzo 2014
Studio Rosai | Palazzo Ridolfi
Via Toscanella 18 nero | Firenze