Sgarbi: la bellezza non muore mai

Quella sulla Bellezza è sempre stata una tua battaglia, combattutta con i mezzi più diversi. Anni fa, hai addirittura fondato un Partito della Bellezza. Che cos’è la bellezza, e perché è ancora così importante?
Il Partito della Bellezza aveva il suo fondamento nel riferimento all’Italia come paese della bellezza, dell’arte, della cultura, e sulla necessità che lo Stato difenda il suo patrimonio artistico in tutte le sue forme. La bellezza di cui quel parito si faceva tutore era dunque innanzitutto rappresentata dall’integrità e dall’armonia di quello che la storia ci ha lasciato, e che oggi noi abbiamo il dovere di difendere dall’incedere del brutto, dalla speculazione edilizia che porta sindaci o amministratori a costruire o lasciare costruire palazzi orrendi di fianco – o in sostituzione – di antichi borghi, di paesaggi ancora incontaminati, di palazzi carichi di storia e di bellezza.

Può avere ancora senso, oggi, parlare della bellezza come valore assoluto?
La bellezza è tutt’ora un assoluto ed è un valore oggettivo, nel senso che chiunque si rende conto se una cosa è bella oppure no; poi c’è una parte di opinabilità dovuta al gusto, ma è assolutamente indubbio che luoghi o architetture o opere d’arte costruiti secondo caratteristiche di armonia e di buon gusto siano indiscutibilmente belli. Perché sono belli? Perché hanno una resistenza all’incedere del tempo che li fa essere continuamente attraenti, che viene avvertita da chiunque come una sensazione di armonia e di ordine estetico.

Secondo Eco, però, la bellezza non è mai stata un’idea assoluta, astratta, ma relativa, a seconda dell’epoca storica in cui si inserisce. Che cosa ne pensi?
C’è un’armonia che fa sì che un edificio del Trecento e uno del Seicento o anche uno degli inizi del Novecento siano differenti sotto molti aspetti, ma tutti hanno un’unità compositiva e costruttiva che parte da un principio di armonia: questo, al di là degli stili e dei gusti differenti, dettati dall’evoluzione del gusto nel tempo, fa sì che per tutti, noi possiamo parlare di “bello”. C’è però un momento nella storia dell’arte e anche del gusto collettivo, che fa sì che da un certo momento in poi questa idea di armonia venga distrutta, e apparentemente non abbia più valore. C’è come un’interruzione all’interno dell’evoluzione dello stile, che porta al rovesciamento dello stesso concetto di Bello; questo avviene, com’è noto, con le avanguardie, che decidono di cancellare o di infragenere le regole che si sono date per secoli nella concezione stessa dell’arte così come dell’architettura. Questo è tipico della mentalità avanguardistica, che vuole scardinare le regole, che si propone volutamente come momento di rottura dell’ordine tradizionale delle idee preesistenti. Da questo momento in poi potremmo dire che lo stesso concetto di bellezza sia stato violato, sovvertito. Il taglio di Fontana può essere preso, simbolicamente, come il segno di questa rottura, di questo taglio netto con il passato.

van goghQuali altre opere o artisti potremmo indicare come fondamentali in questo senso?
Il momento più alto e insieme più catastrofico è quello che si presenta con l’opera di Van Gogh: i quadri di Van Gogh ribaltano tutte le regole che anche gli impressionisti avevano rispettato: regole compositive, stilistiche, nella stesura del colore, che fa sì che nell’opera non venga più rappresentato un paesaggio armonioso, bello appunto, ma un paesaggio drammatico, o un volto segnato, ferito, insomma una realtà che è espressamente traumatizzata, resa nevrotica, con i mangiatori di patate che, simbolicamente, prendono il posto che fino a ieri avevano avuto le Madonne. Lo stesso volto dell’artista, sfregiato, senza un orecchio, diverrà del resto il simbolo vivente della rottura con il concetto di bellezza che aveva sempre retto l’estetica fino a quel momento.

Da lì, poi, si arriva direttamente alle avanguardie, attraverso Picasso, con la sostituzione dell’amonia classica con le maschere negre; quindi abbiamo l’antigrazioso di Boccioni, e piano piano la rottura di ogni regola preesistente. Da queste momenti di rottura, appunto, si apre la grande crisi della cultura contemporanea rtispetto all’idea del bello, che arriva fino ai tagli di Fontana, ai sacchi di Burri, e via via fino ai giorni nostri.

Il volto femminile viene “violato” da Boccioni, con Antigrazioso, del 1913, con il ritratto di una Margherita Sarfatti sfigurata e inquietante… è questo il primo momento di rottura rispetto alla raffigurazione della donna, un tempo vista come simbolo più alto di grazia e di bellezza?
Sì, certo, questo avviene in Boccioni con Antigrazioso, ma anche, ad esempio, solo pochi anni prima, in Picasso con le Demoiselles d’Avignon… questi non sono che i primi passi di un processo di trasfigurazione sistematica dell’ideale estetico, anche rispetto al corpo femminile, che arriverà fino alle raffigurazioni distorte, e a tratti orribili, del corpo femminile nell’arte contemporanea…

In Teoria estetica, Adorno sosteneva che l’arte contemporanea non può più anelare alla bellezza, né al capolavoro, proprio perché ha coscienza del suo stato di impotenza dinanzi al mondo, e è cosciente che nella nostra epoca non c’è più spazio per alcun genere di trionfalismo. Credi che quest’analisi sia tutt’ora valida?
Oggi la produzione di molti artisti contemporanei obbedisce indubbiamente a regole diverse rispetto al quella della ricerca del capolavoro… spesso aderisce a regole di tipo mercantile, e punta più alla quantità che alla qualità. Del resto, tra le regole tipiche del sistema contemporaneo c’è quella della riconoscibilità del “marchio” dell’artista, esattamente come avviene per altri prodotti di consumo: così, ad esempio, tu riconosci Burri per l’utilizzo dei sacchi, de Chirico perché riproduce manichini, Fontana per i tagli, e così via. La ripetizione di uno stesso modulo stilistico è allora perfettamente congeniale alla riconoscibilità dell’artista, e questo contrasta, evidentemente, sia con la nozione di “capolavoro”, che è di per sé unico e irripetibile, sia con l’idea astratta di “bellezza”, che in questo tipo di ragionamento non trova più posto.

Picasso Les deimoiselles d'avignon

Anche il critico australiano Robert Huhghes, parlando alcuni mesi fa alla Milanesiana, ha detto qualcosa di simile: ha parlato dell’arte di oggi come “un’alternanza tossica di boom e di depressione, di feticismo e di indifferenza”, attaccando la “mercificazione” dell’arte contemporanea, nella quale abbondano “i fanatici del mito della rivoluzione permanente, i quali identificano ogni desiderio di stasi, di contemplazione, di bellezza disinteressata con un invito ad arrendersi”…
Oggi una buona dose di mercificazione nell’arte è inevitabile, ma la furbizia di alcuni artisti, a caccia solo di ideuzze da due soldi per stupire i critici o gli spettatori, rischia di soppiantare qualsiasi anelito al bello. Del resto, la migliore parodia del sistema artistico contemporaneo è venuta, trent’anni fa, non da un critico, ma da Alberto Sordi, che in un episodio straordinario del film “Dove vai in vacanza?”, del 1978, ha immaginato un visitatore (interpretato da lui stesso) che porta la moglie in visita alla Biennale di Venezia, con una serie di gag esilaranti e solo apparentemente assurde (ma in realtà più che mai verosimili), tra i quali spicca il funzionario che porta i visitatori a vedere delle vere pecore esposte come opere d’arte, mentre alcuni sedicenti esperti d’arte scambiano la grassa e brutta moglie di Sordi, nel frattempo sedutasi su una sedia per riposarsi, per un’opera d’arte. È questa la rappresentazione più straordinaria dell’idiozia di coloro che si spacciano per competenti, e ormai non sanno neppure più che cosa sia, o che cosa dovrebbe essere, un’opera d’arte, né dove stia la bellezza.

Oggi molti artisti, da Orlan fino a Marc Quinn, hanno ridefinito il concetto stesso di bellezza sovrapponendo (nel caso di Orlan) parametri di bellezza non occidentali all’immagine del proprio volto, con risultati stridenti secondo l’occhio occidentale, o addirittura (nel caso di Marc Quinn) celebrando la bellezza di corpi mutilati o deformi, pur plasmati nel candido marmo, come statue neoclassiche…
E’ lecito che gli artisti sperimentino fuori dai canoni tradizionali di bellezza. Quelle di Orlan sono forme di interpretazione nuova di un’immagine di bellezza data a priori, mentre per Marc Quinn si può dire che la bellezza della materia – in questo caso il marmo bianco, simbolo di classicità – può far diventare “bello” anche un corpo percepito come deforme… questo però non muta la nostra percezione della bellezza del corpo. Un corpo bello è tale per definizione. Poi l’arte rappresenta anche la deformazione della realtà, all’interno della quale ci può essere di tutto, anche dei corpi che in natura noi siamo abituati a considerare deformi. È proprio dell’arte di trasfigurare, con la bellezza della forma o la forza espressiva del colore o del materiale, ciò che vediamo in natura. In questo senso, un quadro può benissimo rappresentare un corpo che di per sé è brutto, ma con una tale intensità e qualità da farcelo apparire invece bello.

Orlan

Oggi il corpo umano viene manipolato, abbellito artificilamente, mutato in continuazione con il lifting o altre operazioni di chirurgia estetica. Credi che ci sia un limite oltre il quale la tendenza al bello possa portare a una forma di super-finzione, di artificialità che, non essendo più del tutto “umana” né naturale, può sconfinare nel brutto, quando non nell’orrido?
Se oggi gli artifici della chirurgia plastica consentono alla donna di trovare una forma che la soddisfi di più di quello che le ha dato la natura, credo che questo sia del tutto lecito; del resto il voler modellare il proprio corpo per cercare di correggersi e di migliorarsi è un’impresa che sconfina con l’operazione artistica.

Non c’è qualcosa di innaturale, se non addirittura contronatura, in questo volersi correggere o ringiovanire a tutti i costi?
Forse, ma dopotutto anche l’arte è contronatura. L’idea di voler cambiare la natura del proprio corpo è il punto più estremo a cui ha saputo arrivare l’arte, e il farlo oggi con il lifting è in qualche misura un modo per proseguire, nella vita reale, l’esperienza dell’Azionismo viennese, il cui punto più estremo è stato raggiunto da Rudolf Schwarzkogler, il quale, proprio nel tentativo di unire vita e arte, morì evirandosi in pubblico durante uno spettacolo.

Ma allora è ancora possibile oggi rappresentare semplicemente un corpo “bello”? L’arte può limitarsi a raffigurare il bello?
L’arte si misura con il presente e con la realtà dell’uomo sotto tutti i suoi aspetti. Come non finisce la musica, non finisce la poesia, non finisce neppure l’arte né tantomeno la pittura, che può dipingere il brutto ma anche il bello. Il problema non è cosa si raffigura, ma come. L’artista che ha una forte sensibilità e una grande maestria farà in ogni caso opere d’arte belle, qualunque sia l’oggetto che rappresenta.

Per finire, potresti stilarci una classifica delle donne e degli uomini più belli rappresentati nella storia dell’arte?
Per quanto riguarda le donne, partirei dalla Salomè dipinta da Masolino da Panicale nel Banchetto di Erode a Castiglione Olona; proseguirei poi con il Ritratto femminile del Pollaiolo del Poldi Pezzoli a Milano, con il Ritratto di Lucrezia Panciatichi del Bronzino agli Uffizi, con la Flora di Tiziano, sempre agli Uffizi, per concludere infine con la Dafne del Bernini alla Galleria Borghese a Roma: tutte immagini di bellezza eloquente e assolutamente inoppugnabile. Per il corpo maschile, invece, il pensiero va necessariamente all’iconografia di San Sebastiano – che non a caso è poi diventato, nel corso del tempo, icona gay per eccellenza; i più belli, a mio parere, sono quelli del Mantegna, di Cima da Conegliano, di Antonello da Messina e del Pollaiolo.