Quando si sente puzza di conformismo e di linciaggio culturale, qualsiasi persona che abbia a cuore un minino di libertà intellettuale dovrebbe sentire in maniera ovvia e naturale il desiderio di smarcarsi dalla massa e di provare a guardare le cose da un punto di vista leggermente diverso. Ma in Italia, come in quasi tutto il globo neocapitalista governato dallo stesso, melenso appiattimento linguistico e culturale, dove tutti seguono le stesse identiche mode, fanno le stesse vacanze, ascoltano le stesse musiche, leggono gli stessi libri e guardano le stesse serie tv infarcite di conformismo, di violenza e di fascismo mascherato da finta tolleranza, la libertà intellettuale è merce rara. Così, alla notizia che Sgarbi, questa scheggia impazzita della cultura italica nazionale, si è candidato (udite! udite!) alla Direzione del Museo Pecci – una cattedrale nel deserto, un museo sperduto nel centro dell’Italia di cui tutti parlano ma che pochissimi vanno poi realmente a visitare: alzi la mano chi s’è preso la briga di andare fino a Prato per vedere una mostra al Pecci negli ultimi due o tre anni – , nel mondo dell’arte, questo luogo di codini, di farisei e di masochisti che amano stare fermi due ore a fissare una tizia ferma immobile a far niente solo perché si è autonominata “performer”, si è alzata una levata di scudi bipartisan.

Le riviste d’arte, poi, questo crogiuolo di banalità e di conformismo e di ignoranza mascherata da sussiego concettuale portato all’ennesima potenza, si sono subito “schierate”: tutti, tutti ma non lui! E perché, poi? Perché “ci faremmo ridere dietro”.
Beh, certo. In un mondo governato dall’idiozia generalizzata e universale mascherata da ragione ragionante arrivata oltre ogni limite che il pensiero umano potesse mai arrivare a concepire ed accettare, un mondo dove è normale, normalissimo, chic, chicchissimo, venerare monumenti alla merda e cessi e peli pubici e barattolame vario, bambolotti giganti spacciati per sculture, assorbenti igienici e mucchi di panni sporchi come feticci della propria miseria culturale impetrante, dove gli artisti più scaltri, con meno da dire e meno dotati di qualsiasi qualità reale eccetto la furbizia, vengono scambiati nei circolini chic della finanza internazionale per milioni, dico milioni di euro, mentre là fuori la gente cosiddetta “normale” si affanna per mettere insieme il pranzo con la cena (e, come la massa di straccioni del medioevo, la folla di piccoli borghesi senza qualità travestiti da artisti e da curatori che impazzano nelle retrovie dell’arte di oggi li sostengono e li venerano, sperando un giorno, se saranno stati abbastanza buoni e abbastanza furbi, di entrare anche loro in qualche salotto buono dell’arte che conta, magari di provincia, ma pur sempre che conta); ebbene in questo mondo assurdo e orripilante, uno che ragiona con la sua testa, magari spesso anche sragionando e camminando sul fil di lana dell’irrazionalità, dell’arbitrio e della provocazione, è una bestia nera, un hoolingan, un paria.
“Ci ha fatto ridere dietro alla Biennale”: certo, ha sparigliato le carte: forse, come dicono in molti, facendo un Padiglione confusionario al limite dell’assurdo: ha sparigliato le carte, mettendone cento, anzi mille invece dei quattro raccomandati dalle solite cinque gallerie che fanno da sempre il bello e il cattivo tempo per puro merito di conventicola, e dando ai cosiddetti “intellettuali” più in voga il potere di scegliere gli artisti, anziché sceglierli lui, e dimostrando, così, la distanza abissale tra il cosiddetto “mondo dell’arte contemporanea” (un mondo chiuso nella sua turris eburnea quanto quello dei monaci benedettini medioevali) e il vasto universo della cultura diffusa, quella che parla ancora al pubblico e si confronta tutti i giorni col pubblico, quello vero, e non con un ristrettissimo circolo di specialisti ossessivi e compulsivi: operazione che qualsiasi manuale di semiotica classificherebbe, col senno di poi, come interessante rottura dei codici, di sparigliamento linguistico; per gli ossessivi compulsivi della provocazione, ma solo se la fanno Cattelan e i suoi accoliti, una buffonata “che ci fa ridere dietro” (ma perché, invece curatori che riempiono un intero padiglione di cubi di cemento, di piccioni finti, di assorbenti igienici, terra, carabattole o biciclette rotte, cosa fanno, invece? Piangere?).
Si può pensare quel che si vuole dei gusti o delle idee o degli atteggiamenti di Sgarbi: ma che sia considerato “scandaloso” e “impensabile” che si candidi alla direzione di un qualsiasi museo italiano di arte contemporanea essendo uno che di arte (contemporanea e non) si occupa da sempre, e che, al contrario dei burocrati e degli abatini del “contemporaneo avanzato” che in tutti i musei d’Italia invitano sempre e solo gli stessi artisti, protetti dalle stesse gallerie e dagli stessi inutili curatori come in un tristo gioco da camera fatto da pochi e capito da pochissimi, senza mai un’idea propria, un guizzo, un’originalità, una bizzarria vera, la dice lunga sul conformismo imperante in questo mondo dell’arte impazzito, beghino e fondamentalmente codardo.
Alessandro Riva