di Duccio Trombadori
All’inizio degli anni Ottanta, dell’opera di Gino De Dominicis non sapevo granché. Avevo oltretutto avuto ben poche occasioni di frequentarlo. Mi era stato presentato casualmente nell’estate del 1972 in casa di Enrico Job e Lina Wertmuller sulla spiaggia di Fregene: la sua figura, a parte il distinto abito nero, da beatlefuori luogo e fuori tempo, non mi aveva molto incuriosito. Assieme a Fabio Sargentini, in abbigliamento marino con i capelli raccolti a coda di cavallo, gli ospiti discutevano dello ‘scandalo’ scoppiato alla Biennale di Venezia, dove lui aveva da poco esposto un giovane minorato a titolo di una predicata ‘soluzione di immortalità’. Tutti vociferavano pro e contro, eccetto l’artista: che se ne stava in disparte con aria mezza stupita e mezza divertita nello scuro del suo vestito, con i capelli ondulati alle George Harrison, e più che ai discorsi pareva interessato al gesticolio della scena. Da giovane comunista fazioso e moralista quale allora io ero quella discussione non mi garbava punto…
Appariva un tentativo di protagonismo estetico in un tempo dove per l’arte borghese non c’era più spazio. Rimasi in silenzio meno che mai approvando il gesto di quel ‘giovane snob’ del quale conoscevo a malapena certe immagini di azioni filmate (…) riconducibili allo sperimentalismo di taglio sessantottino e che tuttavia avevo molto apprezzato per la loro ironia paradossale dal toccante effetto lirico e melanconico.
Da quell’incontro di Fregene era passato più di un decennio (e che decennio!) prima che capitasse di incontrarlo di nuovo: questa volta fu a Roma, nel mezzo degli anno Ottanta, quando tante cose ed idee stavano cambiando in Italia e nel mondo.
Si era in compagnia di Elisabetta Catalano e di Joseph Kosuth, in una piccola trattoria di via del Pellegrino. Fu illuminante assistere al battibecco tra lui e Kosuth, caposcuola del concettualismo americano, sempre spiazzato dall’ironia di Gino che prendeva a bersaglio la teoria secondo cui l’arte consegue, e non precede, il discorso che si fa su di lei. Se Kosuth era l’artista-filosofo, lui si poneva agli antipodi. E così mi raccontò di averlo una volta invitato a pranzo e mentre Kosuth insisteva nel definire l’arte come ‘Idea’ (‘art as Idea, as Idea’) fece arrivare sulla tavola dei piatti vuoti, sul fondo dei quali in luogo della reale pietanza richiesta si poteva solo leggere la scritta del suo nome (per esempio: ‘spaghetti’): ecco il modo migliore, diceva, per aiutare l’amico Joseph a riconoscere la differenza che passa tra l’arte e il suo ‘concetto’.
Qualche anno dopo, nel pieno del gusto postmoderno, mio capitò finalmente di vedere una pittura di Gino presa per sé e non come parte di qualche istallazione. Ne rimasi più che ammirato. Ebbi l’impressione di un’immagine eccellente. Sintetizzava il ritratto sagomato di una figura femminile vagamente ambigua eseguito a grafite su tavola con impeccabile maestria: un profilo di mezzo scorcio metteva in luce l’ovale di un volto senza occhi, dal naso sottile e dal sorriso graziosamente leonardesco ricavato a rilievo sui toni ombreggiati dei grigio mentre le linee direttrici delle sommità occipitali, del collo e delle spalle sfumavano con effetti di raccolta eleganza. Un sentimento di fascinosa corrispondenza era suggerito dalla messa a punto di qualche dettaglio, dall’armonia di toni caldi e di volumi incisi con precisione come su un blocco di pietra mentre l’immagine del volto emergeva da un fondo aereo e lasciava trasparire un non so che di antico da un sorriso di familiare complicità. Quando si incontra un’autentica opera d’arte l’amore sboccia a prima vista: basta assecondare il sentimento di indecifrabile meraviglia che la ‘forma significante’ comunica allo sguardo ed apprezzare il ritmo alternato delle forme che ‘pesano’ e delle forme che ‘volano’. L’esigenza di non descrivere subito la ‘cosa vista’ ma di rievocarla con la parola mi era sempre parlo lo scopo di una critica non limitata dalle ‘tipologie’. E tanto più mi conquistò la qualità di quella estatica pittura fin dalla prima impressione da non farmi più dubitare della sua eccellente natura di artista: che non poteva essere ridotto alla nomenclatura della neoavanguardia, a seguace del concettualismo, o dell’arte povera, per non dire del comportamento, eccetera…
L’amicizia in iniziò a partire dalla considerazione della sua arte. E si consolidò per reciproca simpatia nella tarda primavera del 1990 durante la Biennale di Venezia. Invitato da Laura Cherubini, aveva allestito una sala eccentrica che disturbò non poco e fece arricciare il naso a diversi papaveri della critica contemporaneista. In un primo momento aveva anche pensato di poter sistemare sulla Laguna di Venezia il grande scheletro lungo 24 metri, con il lungo naso e l’asta in bilico, da poco esposto a Grenoble. Non ci era però riuscito. Allora, con l’accordo di Laura, aveva deciso di realizzare una spiritosa installazione collocando il teschio del grande scheletro sopra una architettata piattaforma spaziale di legno nero da cui spuntavano appaiati due seggiolini laterali (a suggerire le presenze ‘invisibili’) e tutt’intorno, sulle pareti, erano0 sistemate alcune pitture: ricordo la ieratica figura gialla e viola monoculare, col lungo naso spiovente, ed altre due quasi monocrome (di nero, di blu) su cui un limpido tratteggio lasciava comparire appena l’immagine di un profilo archetipale.
In quei giorni assieme a Laura, Adelina von Furstenberg, che lo aveva invitato a Grenoble, ed altri commensali, c’incontrammo in una casa alla Giudecca. Si accompagnava tra gli altri anche un giovane uomo politico, esponente di governo di una certa notorietà, che a un certo punto di mise a fare la ruota del pavone straparlando di riforma dell’amministrazione, della politica, eccetera eccetera, e di come doveva funzionare, per ben funzionare, il ‘mondo dell’arte’. Non la finiva più. Gino, che masticava poco di politica e tantomeno praticava il ‘politichese’, all’improvviso ruppe l’uggiosa monotonia con un’imprevedibile ‘proposta di riforma’: creare al più presto il Partito del lavoro materiale, comandato dagli artisti, e cioè il partito di chi ‘fa’ e non di chi ‘parla’. L’uomo politico, fino a quel momento sicuro di avere esposto argomenti molto seri, non colse con il dovuto spirito la richiesta, guardò con sussiego chi l’aveva suggerita: “ecco”, pareva dicesse, “questo poveruomo incapace di sostenere una discussione importante”. Io invece mi interessai molto a quell’idea. Dissi che la condividevo in pieno. E ci avventurammo in una fantasiosa descrizione dei possibili benefici che avrebbe arrecato all’umanità il futuribile Partito del lavoro materiale, immaginandolo composto unicamente di artisti e inventori artigiani, impegnato a risolvere in quattro e quattr’otto tutte le difficoltà pratiche e gli altrettanti bisogni primari che assillano la vita dei nostri simili. La sortita di quella sera con l’estemporanea e spiritosa invenzione del ‘partito degli artisti’ era un modo come un altro per manifestare il fastidio nei confronti dei vari maîtres à penser, dalla politica alla critica d’arte, e la diceva lunga sulla sua antipatia per il protagonismo di Achille Bonito Oliva. Me ne dette conferma dopo che si cominciò a parlare della Biennale di quell’anno, diretta da Giovanni Carandente, ed egli centrò subito i bersagli preferiti: dal “modesto artista inglese” Damien Hirst (con la sua prima carcassa di mucca) al “supervalutato” Robert Rauschenberg (vale sì e no un milione e c’è che li paga un miliardo: perché? E poi, chi sa spiegare come mai è finito ad esporre nel Padiglione russo?) oltre all’inutile copia ‘naturalista’ di Jeff Koons con Cicciolina e i “birichini nomadi” di Fluxus, presentati a latereda Bonito Oliva. Per non parlare poi del premio per la pittura dato al ‘poverista’ Giovanni Anselmo, che a Gino fece perdere letteralmente le staffe: il premio per la pittura che va ad un ‘non pittore’! Vedrai che per la scultura premieranno un fotografo. E circola pure voce che vogliano dare il premio di architettura ad Alberto Moravia! L’amaro sarcasmo di quelle battute non era effimero. Ci sarebbe tornato sopra anche in uno scritto del 1993 per segnalare quello che chiamava “il maldestro tentativo di voler togliere centralità all’opera d’arte e all’artista, a favore di quelli che se ne occupano”.
Ai miei occhi quell’opposizione al ‘primato della critica’ aveva anche il pregio di non colludere con il comodo vuoto di teoria predicato dagli esegeti del postmodernismo, fuoriusciti dalle neoavanguardie ed inclini a immergersi nelle ‘correnti del cambiamento’, come se non esistesse che quello. Se si rileggono i testi che di tanto in tanto pubblicava sotto forma di interviste immaginarie, o di auto-interviste come quella ‘concessa’ alla fantomatica Domitilla Delfino sulle magnifiche sorti e progressive dell’arte occidentale alla fine del XX secolo si nota subito l’acume profetico di quella solitaria polemica contro la deriva consumista del sistema dell’arte: ‘…oggi molti galleristi, critici e direttori di museo si sentono un po’ artisti e si esprimono utilizzando le opere dei loroartisti… si organizzano grandissime mostre con centinaia di artisti… che servono ad illustrare le visionarie idee dei curatori che spesso vogliono anticipare profeticamente quello che faranno gli artisti nel decennio successivo…”.
Quel rifiuto della società dello spettacolo così apertamente dichiarato – che teneva fermo il principio antagonista dell’avanguardia – esercitava su di me notevole attrattiva e influenza. Mi pareva ci fosse una certa sintonia tra quel richiamo al primato dell’arte sull’industria culturale e le revisioni estetiche di chi, come me, stava rivalutando l’idealistica autonomia dell’intuizione-espressione dopo la parentesi marxista e la deriva ideologica sessantottina.
Quando si trattava di mettere sotto accusa le facilonerie contemporaneiste il principale bersaglio era l’equivoco di quanti scambiano l’arte con ciò che è moderno, nuovo e di moda. Le vere opere d’arte, diceva, sono senza tempo in quanto ‘originarie’ e perciò ‘sempre in diretta’. Il resto non è che perdita di energia nel ginepraio del gusto, dell’effimero consumo culturale e delle operazioni di mercato. Ed io aggiungevo, a complemento del discorso, il noto distinguo di Croce secondo cui quando si cerca la ‘modernità nell’arte’ si cerca solo ‘la modernità e non l’arte’: e sempre benedetto sia, Don Benedetto!
Scoprimmo di avere più di un punto di vista in comune, con tanto di simpatie e antipatie. E diventammo amici. Ci si vedeva quasi tutte le sere. Lo andavo a trovare in fine di giornata per consumare un pasto in compagnia. E quando io non passavo dallo studio in via di San Pantaleo, finiva che lo incontravo in tarda serata seduto al tavolo di qualche locale tra Piazza Zanardelli e Piazza della Pace metre sorseggiava il suo bicchiere di vodka. (…) Si formava spontaneamente attorno a lui una rispettosa attenzione da parte di artisti più o meno giovani che ne ammiravano l’opera o ne subivano il fascino. Bevevano le sue battute il più delle volte inattese con giudizi che lasciavano interdetti ma facevano scuola serale per tutti. Il magnetismo retorico era evidente: parlava per accenni ma osservava con lo sguardo vivo mentre un sorriso ammiccante creava un effetto di divertita simpatia.
Non era per nulla incline alla socialità mondana diversamente da come si potrebbe ritenere: non lo vedevi quasi mai nelle feste e nelle vistose cerimonie pubbliche, non frequentava mostre, non andava al cinema, al teatro, non partecipava per principio a manifestazioni culturali (“non si capisce proprio – era il suo ricorrente motivo – come fanno certi artisti contemporanei ad essere presenti in ‘tutte’ le mostre e in ‘tutte’ le manifestazioni che si fanno, una alla settimana, oggi lì, domani all’estero… ma quando trovano il tempo per ‘creare’? E come fanno a creare, se passano il loro tempo a scuola con gli studenti, allestiscono in piazza le feste pubbliche, eccetera, eccetera?).
Si sentiva diverso dalla compagnia di giro contemporaneista e ci teneva a metterlo in evidenza. Il cuore batteva a pieno ritmo per le opere da realizzare e per le ore che lo impegnavano nello studio. Dipingere non era un diletto, ma un assillo dello spirito formativo: non bisogna mai abbandonarsi al piacere di dipingere… bisogna insistere fino a quando l’immagine non ti sorprende – ecco un altro suo punto fermo – e restituisce più energia di quella che hai impiegato a realizzarla.
Era un uomo tendenzialmente solitario. Ma non lo si poteva neanche immaginare senza le vivide apparizioni notturne nei locali più noti di Roma, frequentati dagli artisti… fatta eccezione per una cerchia di compagni abituali non era facile prendere confidenza con lui quando dopo cena entrava da un ritrovo all’altro in cerca di passatempo: preferiva attaccare il discorso con le ragazze di servizio ai tavoli figurandole quali modelle immaginarie o pure si intratteneva fino alle ore piccole con alcuni girovaghi della Roma notturna per concentrare poi le residue energie su un dipinto da finire, una idea da visualizzare, una volta rientrato nello studio.
Il testo qui riportato è tratto dal volume:
“De Dominicis amico pittore, Storia e cronistoria di un sodalizio” di Duccio Tromabadori
Maretti editore, pagg 148, euro 18,00.
Riprodotto per gentile concessione dell’editore.
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