Quando Schifano girava per casa in bicicletta

di Arnaldo Romani Brizzi

Mi ricordo che, tra il 1973 e il 1974, nell’inverno, cominciai a frequentare, sempre per il tramite di Gloria Martino (la figlia, come ricorderete, del cantante Bruno), un simpatico ragazzo di nome Jayme (così, con la ipsilon) che, molto socievole per carattere e predisposizione professionale, conosceva quello che, ai tempi, veniva definito «un mare di gente». In questo «mare» – fatto di attrici come Tina Aumont, dalla drammatica vita, di aristocratici come Andrea Franchetti (nipote del compianto, grande collezionista Giorgio e attuale, prestigiosissimo produttore di vini in Val d’Orcia), o come Filippo Odescalchi, di artisti come Schifano e Boetti – fece la sua comparsa un giovane (allora) mercante d’arte, specializzato appunto nelle opere dei due artisti citati.

Alighiero Boetti
Alighiero Boetti

Boetti era da poco approdato a Roma, sul finire del 1972, e aveva casa e anche studio in piazza Santa Maria in Trastevere (il portone in via della Lungaretta). Schifano furoreggiava in Palazzo Primoli, a via Zanardelli, abitando, come molti sanno, sopra la casa museo del professore Mario Praz, il «grande anglista», come veniva chiamato pur di non nominarlo per la terribile «diceria dell’untore» che gli aleggiava intorno. Sempre in via Zanardelli, poco più avanti di Palazzo Primoli, faceva sfoggio di libri antichi e pubblicazioni d’arte Librars e Antiquaria, una libreria che oggi non c’è più dopo la morte del suo proprietario Jean de l’Oeuf, a tutto, triste vantaggio di un negozio di souvenirs.

Librars e Antiquaria era frequentatissima da studiosi e intellettuali. Tutti i sabato io ero lì e una volta, nel mentre sfogliavo incantato un libro Skira su Balthus (ah! l’alta qualità di Skira di allora, non di oggi), udii chiacchiere cospirazionistiche tra Jean e, appunto, il mitico professor Praz: «Quel selvaggio! Televisori accesi a pieno volume, gente losca che va e che viene, un continuo scalpiccio… Gira persino in bicicletta per casa!». Queste erano le lamentazioni del professore e, naturalmente, parlava di Mario Schifano. Quando uscì, con Jean commentammo che di certo Praz esagerava, da anziano topo di biblioteca; figurarsi, in bicicletta! Ridemmo all’idea che Schifano potesse girare per casa in bicicletta.

Mario Praz a Palazzo Primoli.
Mario Praz a Palazzo Primoli.

Passato del tempo, continuando a frequentare Jayme, tra il 1975 e il 1976, conobbi anche questo mercante d’arte che era Gianni Michelagnoli; «er» Michelagnoli, come lo chiamava Jayme. Michelagnoli parlava sempre delle sue gioie e dei suoi dolori da mercante e da appassionato d’arte nei rapporti con gli artisti di cui commerciava le opere, finché si presentò l’opportunità di far visita agli studi sia di Boetti sia di Schifano. Andammo in tre, Michelagnoli e Jayme e io aggregato (e mi sentivo un po’ un infiltrato).

Trovammo Boetti in preda a un mal di denti inenarrabile. Ricevendoci sulla porta di casa, dolorante, quasi non ci faceva entrare; ma Michelagnoli, che non era di Roma, era lì per comprare. Ricordo vagamente delle carte a frottage (le celebri carte «massaggiate»), forse anche alcuni dei primi piccoli ricami, spesso chiamati, ma impropriamente, «arazzetti». Aiutammo «er» Michelagnoli a portare le opere in macchina, un po’ come lestofanti, demoralizzati per non aver avuto la possibilità di parlare con Boetti, e dispiaciuti per un tale mal di denti.

Poi, non ricordo se lo stesso giorno o il giorno appresso, andammo a studio da Schifano, a Palazzo Primoli. Nel portico del portone era parcheggiata una Rolls-Royce, l’automobile con cui Schifano «si esibiva» in giro per Roma e con la quale andava spesso a Sabaudia. Salimmo e, quando entrammo, già sin dalla grandissima sala d’ingresso, era un inferno: c’erano tre-quattro ragazzi che giravano e si agitavano, alcuni con degli stampi metallici che sovrapponevano a delle tele di non grande formato, quadrate, passandoci sopra, poi, con pennelli intinti nello smalto, anche in velocità, e ottenendo in men che non si dica, sfavillanti dipinti di querce, ora verdi, ora rossi, ora in negativo, ora in positivo. Pareti di televisori, in scaffalature metalliche, quasi espositori da negozi di elettrodomestici, tutti accesi, alternati, sui due soli canali televisivi allora esistenti. Il ragazzo che ci aveva aperto strinse la mano a Michelagnoli e poi, dicendoci di aspettare in una sala attigua, chiamò a voce altissima Schifano: «Mario! C’è Gianni!». E Mario arrivò, pedalando, in bicicletta. Ci furono trattative, con Michelagnoli che tirò fuori di tasca dei rotoli di banconote, e Schifano che diceva: «Quello grande non ce l’ho ancora. Te lo faccio stanotte, poi te lo spedisco. Intanto prendi quelli piccoli». Ritornammo nella sala d’ingresso e cominciò a guardare tra le varie Querce, sbuffando e anche ridendo, elettrico e nevrotico, gridando agli assistenti di quella Factory de noantri: «Quello t’è venuto male, buttalo! Quello è buono, vieni che lo firmo», e così via. Anche qui non ricordo quanti, ma non pochi: tutti noi ne prendemmo due, uno per ogni mano, accompagnati anche da due assistenti che fecero un secondo viaggio.

Mario Schifano a Palazzo Primoli.
Mario Schifano a Palazzo Primoli.

Ci rimuginai tutta la notte: con Jean avevamo riso di quanto raccontato dal professor Praz, non credendogli; ma Mario Praz aveva ragione: l’altro Mario, lo Schifano girava per casa in bicicletta.

Schifano, poi, lo rincontrai poche altre volte, a inaugurazioni di sue mostre: ne ricordo una in particolare, alla galleria di Cleto Polcina e Carmine Benincasa, in piazza Mignanelli, intitolata Orto Botanico, dove si presentò molto provato (già vecchio e non più «puma» come lo aveva descritto Goffredo Parise: «Un piccolo puma, di cui non si sospetta la muscolatura e lo scatto»), da poco uscito da una carcerazione a Regina Coeli, dove aveva scontato una pena per motivi di droga.

Boetti lo incontrai, invece, più volte; una sera persino a cena con Gino De Dominicis, a casa del mio carissimo amico Nicola Bulgari. Poi, dopo la sua scomparsa, e per quel solito destino che ormai è la nostra Clotilde, divenni per due anni il coordinatore dell’Archivio a lui intestato, dopo la direzione di Germano Celant, e insieme a una persona davvero, ma davvero speciale: Matteo, il figlio primogenito di Alighiero.