Pignatelli, il segno come elemento fondativo del mondo

di Alessandro Riva

03 - Luca Pignatelli

Nella cosiddetta scena artistica contemporanea, l’idea stessa di “carta d’artista” ha assunto da qualche decennio in qua il sinonimo di oggetto un po’ rétro, dal sapore vecchiotto, ammuffito, di quelli che si è portati a pensare debbano necessariamente campeggiare sulle pareti di vecchie case di nonne Abelarde o signorine Felicite; quando addirittura non fa saltare alla mente le fasullissime carte serigrafate o litografate meccanicamente, e vendute un tanto al pezzo in quelle strane sorti di supermercati dell’arte che sono le piccole e medie fiere italiane. Nel tempo del multimediale, dell’abbattimento – sacrosanto, per la verità – di muri e barriere tra generi e tecniche un tempo in eterna lotta tra loro, la carta, il disegno sembrano oggetti che abbiano fatalmente perduto la propria profonda identità, smarrita vuoi nel delirio tecnologico avanzato del dilagare delle mille telecamere digitali puntate su ogni scorcio paesaggistico rimasto ancora intatto (venendo così inevitabilmente a mancare, per il disegno, quella funzione di annotazione privata dell’artista, di taccuino di viaggio, per fissare nella memoria brani o sensazioni di cose viste e vissute), vuoi nella perdita di importanza della supremazia stessa del disegno come categoria fondante dell’arte. Appare così inevitabile, quasi uno di quei malinconici specchi dei tempi destinati a trovar posto sugli almanacchi o nei rotocalchi, la perdita – seppure sotterranea, mai detta e mai confessata apertamente – di comprensione del lavoro su carta di un pittore: laddove il quadro può ben rappresentare, tuttora, l’oggetto del desiderio del collezionista e quello di studio del critico, il disegno non diventa più, nella maggior parte dei casi, che mero oggetto di curiosità, foglio volante senza arte né parte, fondamentalmente incapace di (re)imporre, come un tempo aveva, un suo preciso status simbolico all’interno dell’opera di un artista.

Luca Pignatelli, Paesaggio notturno, 2006, penna e inchiostro su carta, cm 19×28.

 

Chi ha ucciso il disegno?, potremmo dunque chiederci ancora una volta – e tuttavia la domanda corretta sarebbe: chi vorrebbe uccidere il disegno?, dal momento che, malgrado questo preteso tentativo di soffocamento, di continua e incessante asfissia mortale, il disegno stesso continua però a crescere e a germogliare, velatamente, segretamente, clandestinamente vorrei dire, nel chiuso degli studi dei pittori, producendo migliaia di piccoli fogli sparsi, centinaia di album, di quaderni, di notes, di piccoli o grandi libri che crescono confusamente e selvaggiamente tra cassetti e stipi e angoli degli studi dove andrebbero, con divertimento un po’ maniacale, scovati uno per uno e riportati alla luce, al pubblico, al ruolo che spetta loro di vero e proprio inizio fondante del fare pittorico – poiché chi si pone con lo strumento, quantomai grezzo e primitivo, del solo disegno di fronte alla complessità di quel fenomeno che oggi ancora ci ostiniamo a chiamare realtà, è davvero, come ha scritto Jean Clair nell’83, “l’essere nudo e primitivo all’alba della civiltà”: “il disegno improvvisa i propri mezzi d’espressione secondo i bisogni, come colui che, approdato a una riva straniera, immagina i segni grazie ai quali si farà capire. Linguaggio incoativo, dialogo rudimentale, approccio di riconoscimento dell’altro, il disegno appartiene sempre all’inizio di un mondo, tocca sempre terre vergini” (“Ritorno al disegno”, in Critica della modernità, Allemandi 1984). Non si tratta, allora (ci perdoni Jean Clair) di tentare un’impossibile gara contro la modernità, e contro, in particolare, la riproduzione fotomeccanica della realtà – imponendo, o comunque augurandosi, che i pittori di oggi, come il Goethe del Viaggio in Italia, scendano idealmente i nostri monti armati di calepino e matita anziché di macchina fotografica d’ordinanza, perché questo esercizio permetta loro di vedere realmente la natura, altrimenti presa al laccio dall’obiettivo della reflex, ma non conquistata interiormente dallo sguardo del pittore. No, non si tratta di questo. L’artista di oggi ha ben diritto, che piaccia o no ai puristi d’ogni parrocchia, di coniugare velocità e conquista interiore, complessità e sintesi, in breve acidi fotografici e grafite, videocamere e pastelli, occhi elettronici e block notes. Perché il ruolo del disegno non è più, né tornerà mai più ad essere in futuro, quello di riuscire a conquistare la realtà a un primo sguardo sommario, ma, semmai, quello di un nuovo inizio – che avvenga nel chiuso dello studio o in strada non ha alcuna importanza -, di una nuova (ri)conquista dei territori vergini della sua immaginazione. Di nuove avventure, più libere forse che sulla superficie un po’ pomposa della tela o della tavola, nuove sperimentazioni, nuovi, imprevisti azzardi.

Nel caso di Pignatelli è forse improprio, o limitativo, parlare di disegno in senso stretto. Per Pignatelli non c’è infatti tanto il disegno in se stesso, quanto l’intero universo del segno e dell’immagine – si tratti del segno fermo e deciso (quasi sempre schizzo d’architettura) che verga su ogni foglietto che gli capiti davanti, e di cui letteralmente straboccano i cassetti, le pareti, le mille quinte teatrali di cui è composto il suo studio, o piuttosto dell’immagine ripresa, fotocopiata, contaminata e catapultata da uno qualsiasi degli immensi e splendidi tomi che va cercando sui mercatini di ogni parte d’Europa con insaziabile voracità di voyuer e collezionista di immagini della memoria del mondo ai lidi della sua vulcanica immaginazione d’artista che non si pone più steccati tra lecito e non lecito, tra ciò che è politiccally correct e ciò che è vietato dai critici della peinture pour la peinture, della natura interiore e così via. Pignatelli cerca, fruga, segna, incide, sporca, macchia, insozza, sceglie: il suo è davvero, da qualche anno in qua, un atto fondativo del mondo, un atto che sta alla base del processo di costruzione del mondo quale il disegno storicamente ha, e deve avere. Un atto fondativo che consiste nel riappropriarsi letteralmente del mondo, e delle sue immagini, attraverso quell’opera di scelta e selezione di foto del paesaggio del mondo – si tratti di New York o Berlino o Pompei -, e di loro trasferimento su carta e successiva contaminazione attraverso oli, resine, colori, agenti corrosivi o deformanti appartenenti al mondo industriale più che a quello tradizionalmente pittorico. Pignatelli ha capito, vicino in questo ad altri artisti della sua generazione o di quelle successive alla sua, che il mondo è pieno di immagini, e che allora non resta che prenderle, e sceglierle, e che già in questa scelta e ricollocazione nel mondo si manifesta, duchampianamente, il primo intervento dell’artista. Ma per lui la scelta e l’intervento diventano anche fatalmente linguaggio: le sue carte diventano così vere e proprie pagine di un (immaginario) libro, libro composto non solo da immagini ma da segni, da note, da vecchie scritte tipografiche, cartelloni pubblicitari, pagine di album e di giornale, studi per quadri, schizzi d’architettura che vanno a costituire quella sorta di alfabeto visivo del mondo di cui sembra da anni imbastire la trama.

Luca Pignatelli | Off Paper – opere su carta

M77 Gallery

30 maggio – 27 settembre 2014

via Mecenate 77, Milano

+39 02.84571243

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Inaugurazione giovedì 29 maggio, ore 19.00