Picozza con i suoi ‘terrain vague’ al Macro Testaccio

Ha un titolo suggestivo e sibillino − In caduta libera con poco cielo davanti −, che richiama immediatamente le atmosfere (e certi titoli) dei suoi quadri, composti di volumi netti e di luci forti e decise, di segni neri, sporchi, catramosi, ma pieni, debordanti di un’energia densa e drammatica che parrebbe non volersi mai placare, mai trovare pace né soluzione formale definitiva.

PICOZZAÈ la prima mostra pubblica, importante, che il Macro Testaccio, a Roma, dedica retrospettivamente a Paolo Picozza, scomparso prematuramente (non aveva ancora compiuto i 40 anni) nel 2010, per celebrare, con oltre quaranta tele e la cura di Achille Bonito Oliva, la vitalità e la forza di uno dei protagonisti di quella felice stagione che, tra gli anni Novanta e i Duemila, aveva riscoperto, e ridefinito, il genere del paesaggio come possibile chiave di lettura del nostro confuso, caotico, contraddittorio presente.

Picozza si era inserito in quel filone di nuovo paesaggismo, urbano e soprattutto suburbano – di quelle vuote e desolate zone che paiono aver perso confini e coordinate geografiche, dove i pasoliniani e immensi “terrain vague” (non a caso, titolo di una delle sue prime personali) dell’estrema periferia si amalgamano, in maniera quasi naturale, con le brume e i fanghi della prima campagna -, con una sua cifra stilistica originale e densa, che si basava sulla lezione di una pittura vitalistica e romantica, che aveva nel suo dna la lezione di certo paesaggismo nordico e quella dell’espressionismo tedesco, le periferie sironiane e l’esistenzialismo giacomettiano: una pittura densa e nervosa, capace di leggere il paesaggio cittadino contemporaneo come un inesausto collage di terre di nessuno, abbandonate, residuati economici e visivi, dove la nuova surmodernità vive, da tempo, la sua ultima deriva estetica, economica e relazionale.

Così, attraversando come una furia visioni e ricordi, istantanee e flash cinematografici, ombre e fantasmi di una modernità in eterno ripiegamento e abbandono, Picozza ha saputo ritagliarsi, nella stagione della sua felice (e purtroppo breve) vicenda artistica, un ruolo forte e definito, originale, scevro da banalizzazioni e scimmiottamenti del lavoro di altri ma ricco di comvergenze con i tanti compagni di strada che, in quegli anni, hanno compiuto ricerche simili e vicine alla sua: spesso ignorati, quando non demonizzati o derisi da un sistema dell’arte banalmente idiota e conformista, che al lavoro di tanti artisti che compiono la propria ricerca in silenzio ma con tenacia, serietà e intelligenza, in questi sciocchi anni ha troppo spesso prediletto sciocchi e furbi giochetti pseudo-concettuali, piccole provocazioni senza sugo, desintate a vivere lo spazio di un giorno (allo stesso Picozza capitò, anni fa, di imbattersi negli idioti veleni dei Savonarola del web, che lo derisero per la sola ‘colpa’ di avere un padre giornalista, che come tale era sospettato di averlo ‘aiutato’ a emergere dall’anonimato dei tanti artisti senza fortuna di cui sempre abbonda l’Italia…).

Oggi, la sua straordinaria, forte, bitumosa pittura sbarca finalmente in uno dei più importanti musei pubblici italiani. Come si suol dire in questi casi: meglio tardi che mai.

 Alessandro Riva

Paolo Picozza | In caduta libera con poco cielo davanti

a cura di Achille Bonito Oliva

Macro Testaccio

Piazza Giustiniani, 4 Roma

orari: da martedì a domenica, dalle 16,00 alle 22,00

info: 06.671070400

www.museomacro.org.