Passeggiate romane e strani incontri di ubriachi

di Arnaldo Romani Brizzi

Mi ricordo che un pomeriggio a zonzo – ma forse ricordo male e nella distanza del tempo mi sembra che i fatti che ora racconterò siano accaduti in un solo pomeriggio, mentre potrebbero essere ricordi di giorni diversi -, percorrevo il Tridente romano e passai dalla via del Corso alla via del Babuino, in una bella giornata di fine marzo del 1974. Andando da piazza del Popolo verso piazza di Spagna, sul marciapiede destro e quasi all’altezza di un bar molto frequentato, all’epoca, da poeti e da artisti, Notegen, mi imbattei in un corpo di uomo completamente sdraiato per terra. Non si capiva se era addormentato o se era svenuto.

Mario Schifano e Tanto Festa.
Mario Schifano e Tanto Festa.

Non tutti i passanti si fermavano, proseguendo la loro camminata; alcuni si fermavano per un istante e poi riprendevano ad andare, ma un certo capannello si era formato. Un cameriere di Notegen, uscito dal bar, disse: «È quel pittore, è Tano Festa», e dopo nemmeno pochi secondi arrivò trafelatissimo un signore (era il gallerista Soligo, ma lo seppi dopo) che, inchinatosi, lo svegliò, lo fece alzare e, quasi mettendoselo sulle spalle, lo portò via, verso la sua galleria d’arte. A noi curiosi disse sgarbato: «Non avete mai visto un ubriaco?». Onestamente, io non lo avevo mai visto. Sapere, poi, che si trattava di un pittore di un certo nome, accrebbe la mia curiosità, confermandomi nello stereotipo pseudo romantico del «genio e sregolatezza». Ma non finì lì.

De Chirico nel 1972 a Roma.
De Chirico nel 1972 a Roma.

Continuando, infatti, la mia camminata per la via del Babuino, passato sull’altro marciapiede dove, in un cortile, si trovava la galleria di quel Soligo (che si chiamava Studio Soligo), mi imbattei in un signore, molto mal vestito in verità, che traballava e sbandava, chiaramente in preda, a sua volta, all’alcool: era Giulio Turcato (lui lo conoscevo, lo avevo già visto in giro), con tutta probabilità da poco uscito dal suo studio di via Margutta (lo studio era nello stesso edificio dove si trovavano anche gli studi di Nino Franchina e di Pericle Fazzini, solo per citare due nomi). Turcato era preda di una danza alcoolica non priva di grazia e di eleganza; fece una sorta di salto e me lo trovai quasi davanti, mi disse: «Si sposti, altrimenti la travolgo», e scoppiò a ridere. Scoppiai a ridere a mia volta: era proprio di una simpatia travolgente. Mi portai appresso il buonumore sino a piazza di Spagna dove, all’incrocio con via dei Condotti, incontrai il Pictor Optimus, Giorgio de Chirico che, lui molto elegante, passo passo, con un andamento lento e ondeggiato, ma nel pieno di una pensosa sobrietà, si stava recando al Caffè Greco.

Ecco: in quel pomeriggio romano, soltanto lungo il percorso di una strada, una piazza e un’altra strada, avevo avuto modo di incontrare tre «pesi massimi» dell’arte pittorica attiva a Roma. Al Caffè Greco, dove entrai seguendo de Chirico e dove presi una costosissima consumazione, mi ci sarebbe mancato solo Renato Guttuso; ma non l’incontrai.

Renato Guttuso, Il Caffè Greco, 1976.
Renato Guttuso, Il Caffè Greco, 1976.

Anni dopo, però, entrai nella casa e nello studio di Giulio Turcato (non più in via Margutta, lì ormai ci abitava Stephanie Oursler, sua assistente e grande amica di famiglia, di lui, Giulio, e di sua moglie Vana Caruso), in via del Pozzetto. Ebbi, infatti, la fortuna di collaborare a lungo per l’organizzazione di alcune esposizioni dedicate alla meravigliosa arte pittorica di Giulio Turcato. Da Turcato mi ci aveva portato, la prima volta, Italo Mussa che, insieme a Giovanna Dalla Chiesa, e proprio nel 1974, aveva curato la grande esposizione di Giulio Turcato al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Siamo, ora, intorno ai primi anni Ottanta, e Italo aveva uno strano progetto che riguardava le sculture Le Libertà di Turcato (progetto, però, che non vide mai la luce). Andammo, con Giulio e Vana, a mangiare fuori, in un ristorante poco lontano. Tutti e due erano già molto malandati in termini fisici, ma attentissimi e precisi dialogatori: Giulio (che ora non beveva più) ci raccontò, con dovizia di particolari, il famoso viaggio a Varsavia, subito dopo la fine della guerra, che generò tutto il ciclo dei suoi meravigliosi dipinti dedicati alle Rovine di Varsavia. Fu molto brillante nell’attribuire strani nomignoli ai suoi compagni di percorso: Carla Accardi veniva chiamata «l’Accardina»; Dorazio era sbeffeggiato, ma benevolmente, come «il tessutaio»; Perilli e Attardi erano poco amati («Perilli schiaccia le mosche sulle sue tele. Attardi ha tradito, ma lui non sa cosa sia il colore»); non riferisco cosa fu capace di dire di Corrado Cagli. Per Gino De Dominicis, però, spese parole incantate, disse, con quella sua strana cadenza più veneta che mantovana (lui, nato a Mantova, a Mantova non aveva mai vissuto): «È bravo, è bravo. È proprio bravo». Vana e lui dichiararono che si divertivano solo con le opere di De Dominicis.

In seguito, nel 1990, curai e presentai, insieme a Gérard George Lemaire, una grande rassegna di opere di Giulio Turcato presso il Castello Cinquecentesco (noto anche come Forte Spagnolo) de L’Aquila.

Giulio Turcato nudo con Nanda Vigo a Saint Tropez (foto di Vana Caruso).
Giulio Turcato nudo con Nanda Vigo a Saint Tropez (foto di Vana Caruso).

In quell’occasione raccolsi molti altri aneddoti. Vana mi raccontò di come avessero preso la decisione, entrambi, di smettere del tutto di bere: avevano passato una serata in piena libertà e allegria con i loro amici più cari (tra i quali c’era Ugo Pirro, che però, a detta di Vana, non beveva o beveva poco, pur sopportando bene il tasso alcoolico), passando di festa in festa, di studio in studio. Poi lei si mise alla guida e, il giorno dopo, quando si svegliarono, si ritrovarono sempre in macchina: lei addormentata sul volante, lui con la testa sulle sue gambe. Non ricordavano nulla di quanto fosse accaduto. Per lo spavento, quindi, presero la decisione definitiva di smetterla con quella vita dissoluta e che ormai non si addiceva più alle loro età.

Turcato mentre fa il ritratto ad Arnaldo Romani Brizzi.
Turcato mentre fa il ritratto ad Arnaldo Romani Brizzi.

Il grande esempio di entrambi, di Giulio e di Vana, è stato per me di vederli sempre intenzionati al fare e al realizzare, anche quando i loro corpi gli creavano seri problemi: Giulio aveva malanni di vario genere, Vana era ormai immobilizzata sulla sedia a rotelle. Vedere Giulio dipingere era una vera gioia: usava il colore con una felicità rara, impostava la base dell’opera con gesti ampi; poi diventava meticoloso, quasi ossessivo, come se ingaggiasse una battaglia con il dipinto. Intanto ripeteva parole come fossero un mantra: «Non ce la fai, non ce la fai»; «Vinco io, vinco io»; «Viene bene, viene bene». Un bambino felice di giocare al proprio gioco, traendone tutti gli elementi di soddisfazione che solo la creatività piena concede sino in fondo.