di Luca Beatrice
Nella storia della pittura, e in parte anche in quella della fotografia, la rappresentazione del corpo nudo coincide con l’ideale di bellezza, armonia e perfezione. L’equilibrio formale, la proporzione tra i vari elementi, la capacità di seduzione sono paradigmi che i pittori hanno utilizzato mettendo in fila esempi che vanno dall’antichità classica all’era contemporanea.
Nonostante i musei di tutti il mondo abbiano nelle loro collezioni centinaia di capolavori dipinti che hanno per oggetto il nudo, il solo ritrovarsi nella sfera dell’ideale può far correre il rischio di un’interpretazione troppo scolastica, seppur a tratti sublime, della materia. Il nudo ha bisogno del contatto con la realtà e, periodicamente, si avvicina al vero come a mettere in discussione le proprie certezze: è accaduto per esempio a inizio Novecento tra realismo ed espressionismo. Si pensi a certi quadri di Walter Sickert di interni domestici e spogli, dove i volumi dei corpi si confondono con le pennellate degli sfondi e dei pochi elementi di arredo. Oppure in Otto Dix e George Grosz, in cui prevale l’elemento grottesco, caricaturale a tratti, una contraddizione continua tra bello e brutto, magro e grasso, giovinezza e vecchiaia per una pittura di gusto morale che sperimenta poco ma inquieta molto. Personalmente trovo interessanti anche i soggetti dell’inglese Stanley Spencer, uno dei primi negli anni trenta a evidenziare le deformità del corpo che, se da un punto di vista estetico procurano fastidio e turbamento, esaltano le qualità del pittore che nell’opulenza e nei difetti trova soluzioni formali molto ricche: pance gonfie, seni cadenti, cicatrici, segni della vecchiaia, questi i tratti ad esempio del Nudo di Patricia Preece, 1936-1937.
Come per qualsiasi genere codificato nella pittura – natura morta, paesaggio, ritratto, scena d’interno – dipingere il nudo oggi equivale ad accettare una sfida molto difficile, vista la (quasi) impossibilità a dire qualcosa di nuovo. In particolare negli ultimi decenni la pittura ha tentato due strade diverse per avvicinarsi a tale tema. La prima, immergersi nelle pratiche basse, fondersi con l’immaginario di consumo e scrollarsi di dosso la tipica seriosità ereditata dal suo illustre passato. Così i generi classici funzionano da pretesto per un’analisi sociologica ravvicinata che sembra interessarsi più allo spirito del tempo che non a discorsi riguardanti lo stile e il linguaggio. Il nudo viene allora privato di qualsiasi contenuto aulico, ciò che in pratica gli permetteva di essere tollerato nelle epoche della committenza religiosa, e quindi accostato a immagini “triviali” provenienti da zone esterne all’arte, come l’illustrazione popolare, la fotografia di cronaca, l’erotismo, in alcuni casi la pornografia.
La seconda, nell’immaginario attuale del corpo si è insinuata l’abitudine, ormai consolidata, di ritenere appunto erotismo e pornografia parti del linguaggio artistico, e così l’arte (la pittura ma soprattutto la fotografia) ha alzato il livello di oscenità, prendendo ispirazione dall’universo sessuale proprio nel momento in cui, paradossalmente, abbiamo assistito a un’involuzione e a una regressione stilistica della pornografia nelle pieghe del consumo personale e della visione privata, dove facilmente un obiettivo può introdursi in una stanza chiusa, contaminandosi con territori a larga diffusione come la moda, la pubblicità, il cinema, il web.
Alessandro Papetti sa bene l’ingrato compito di questa sfida ma, o forse proprio per questo, è disposto ad accettarla senza paracadute. Si conosce molto bene il suo lavoro di esperto pittore di paesaggi, archeologie industriali, visioni metropolitane, cantieri navali e già in questo ambito ha sempre cercato di rinnovare il proprio repertorio visivo con stesure magre, fatte di pochi colori riducendo così al minimo la narratività implicita alla figurazione. Eppure lui stesso è convinto che nel nudo risieda una forza diversa rispetto agli altri soggetti, un luogo dove la pittura si fa più pura e la ricerca più libera ed estrema. A mio avviso è questo il filone del suo lavoro più interessante e sperimentale, a partire dalla differenza stilistico-formale con cui affronta i diversi supporti. Nelle tele Papetti conserva una lunarità melanconica: domla lina il colore blu, a tratti violaceo e livido. Talora un grande quadro lo risolve con uno squarcio di luce, capace di spaccare in due la superficie come un taglio di Fontana. Usa un impianto cromatico minimale raggiungendo in molteplici episodi un autentico stato di grazia. Tratta la carta in maniera completamente diversa, invece, a partire dalla svagata noncuranza con cui la manipola. Un foglio, dice, si può sgualcire, ferire e rompere proprio come una seconda pelle. Il fondo giallo acquisisce spessore coloristico, la trama su cui imprimere il segno che, coraggiosamente, viene fatto galleggiare nel vuoto, pur rispettando un equilibrio perfetto, dal punto di vista ottico.
Per un pittore spesso abituato a servirsi di modelli al fine di indagare il corpo in ogni sua piega, Papetti ha affrontato questo nuovo ciclo di opere con una modalità differente che in passato. Lo scopo è quello di restituire il senso della fragilità umana, rovesciando di 360 gradi i canoni della bellezza, oltre i luoghi comuni. Mi ha raccontato di un’estate passata su un’isola greca a spiare e catturare corpi stesi al sole, cercando di fotografarli e di “rubare” loro l’intimità. Questi scatti sarebbero poi serviti da appunti per studiare posizioni da trasferire, sintetizzandoli, su supporti ben più ampi. Ciò che non gli interessa, invece, è la verosimiglianza: non ci sono volti né tratti somatici e dunque il nudo viene restituito al suo valore archetipico di pittura pura.
Così questa fase della ricerca di Alessandro Papetti – non è nuovo il soggetto (si veda la mostra Occhi e lune curata da Marco Goldin nel 2010 e quasi interamente incentrata su questo tema) ma inedito il modo di trattarlo – affonda le proprie radici sia nella pittura che nella fotografia contemporanea. Nel primo caso, fatte salve le derivazioni primo novecentesche summenzionate, possiamo inserire Papetti in quella famiglia di artisti capaci di far dire al corpo qualcosa di nuovo, ripeto senza indugiare nel realismo e nella descrizione. Con Lucian Freud possiamo trovare alcune assonanze, ma anche e soprattutto delle differenze. Il maestro era lentissimo nell’esecuzione, con lunghe e meditate sedute che costringevano il modello a vere e proprie sfide di resistenza; Papetti è veloce, nervoso, agitato, e proprio per superare la frenesia gestuale ha voluto in quest’ultima fase raggiungere un’apparente calma, una sorta di sospensione spaziale delle proprie figure, eliminando qualsiasi tipo di rapporto con lo spazio. Nel vasto repertorio di Freud interessa soprattutto il suo incontro con il performer più trasgressivo nella scena britannica degli anni ottanta, australiano di nascita, Leigh Bowery. Freud era considerato il grande accademico, figurativo, antiavanguardista, continuatore della poetica baconiana. Bowery rappresentava invece l’attivismo inquieto proiettato dai club semiclandestini al circuito delle gallerie. Le sue azioni, spettacolari e grottesche, colpivano nel segno perché del tutto estranee al canone di bellezza e armonia: la sua corporatura era sgraziata, obesa, un trans che non dissimulava il proprio sesso pur assumendo, in pubblico, i panni e i costumi dell’altro. Per tre anni Bowery posò nello studio di Freud, inscenando esibizioni private, timide e introverse, completamente diverse dai pirotecnici live show, depilandosi ed esaltando la massa grassa del corpo.
La collaborazione Freud-Bowery ha consentito alla pittura di riprendersi ciò che le era stato tolto, ovvero la possibilità di scrollarsi di dosso il peso della tradizione e della storia per tornare a essere arte d’avanguardia capace di rappresentare il proprio tempo, così come l’atto circostanziato di una performance, trasmettibile al massimo attraverso una registrazione in video, può diventare eterno per mezzo di un dipinto. I ritratti di Freud impediranno che la memoria di Bowery possa affievolirsi, mentre la forza, il carisma del corpo di Leigh consentono alla pittura figurativa di affrancarsi dall’eccesso di classicismo.
I corpi di Papetti, invece, non hanno nessuna forza particolare e sono protetti dall’anonimato del caso, persone che sfidano la fragilità della propria natura e si denudano al sole. Al pittore non interessano i volti ma le masse, non le espressioni ma la tensione che provoca l’ingresso di un volume, talora abnorme, in uno spazio statico. Ci spiega che l’arte si regge su un equilibrio molto labile, che il rischio della caduta è sempre in agguato e che il raggiungimento della sintesi tra i diversi elementi ha talora del miracoloso. In fondo, lo spazio della pittura è quello dell’incertezza, così come il suo destino quello di vivere sul margine.
Secondo Goldin, Papetti ha saputo tenere insieme diversi riferimenti visivi, “dal che apparirebbe in modo del tutto chiaro come Papetti non si sia mai tirato indietro nel creare un linguaggio per nulla statico, e che invece si appoggia alla fotografia e al cinema tanto quanto alla pittura”, citando a proposito la fotografia di Diane Arbus. Più nell’indagine conoscitiva che non nel risultato, i due lavori si somigliano, perché il nostro artista si è calato nella realtà servendosi di una macchina fotografica come indispensabile strumento di mediazione tra sé e gli inconsapevoli modelli.
Nella biografia della fotografa newyorkese scritta da Patricia Bosworth si racconta come nel 1962 si fosse introdotta nei campi nudisti del New Jersey e della Pennsylvania: “la famiglia di nudisti obesi sdraiati sul prato, i pensionati coriacei che posano accanto a loro, fotografie in cui sono nudi, abbandonati in poltrona, gli amanti nudisti con le loro pancette che sembrano Adamo ed Eva, i bambini nudisti. A lei facevano l’effetto di statue, quasi tutti questi corpi nudi da lei fotografati riempiono l’inquadratura di una massa pesante, di cui quasi percepisce il volume e la materia… Elaborò molte teorie sui campi di nudisti dove è rappresentata l’intera gamma delle categorie sociali, dalla gente in tenda a gente con roulottes e case, quasi delle ville, è un microcosmo dove si suppone che ognuno sia uguale all’altro”.
Un giudizio che sembra ritagliato sui nudi di Papetti, soprattutto quelli eseguiti su carta, riportati in pose naturali, in una gestualità appena accennata, spiati da lontano e resi immagine permanente dalla pittura, uno dei pochi linguaggi rimasti ad avere la possibilità di allungare il tempo di vita di un frame, volendo fino all’eternità.
Rispetto a fotografi che, come John Coplans, hanno lavorato sul proprio corpo cogliendone imperfezioni, difetti, segni dell’invecchiamento, Papetti si mantiene a distanza; per lui il grado di coinvolgimento riguarda solo ed esclusivamente la pittura. Influente critico, fondatore della rivista “Artforum”, Coplans iniziò a fotografare il suo corpo dopo aver compiuto i sessant’anni, quasi sempre in close-up, senza mai rivelare il volto. Dettagli delle mani o dei piedi appaiono monumentali e la pelle un materiale malleabile come si trattasse di scultura.
Papetti invece parla di separazione, di confine, tra sé e i corpi: “la percezione di essere confinato nella mia pelle non mi fa sentire corpo ma entità, dimensione che si muove in una dimensione altra. Tutti i ritratti di persone nude che ho dipinto fino a ora sono la manifestazione di questa relazione inesprimibile altrimenti, e quindi sono sempre io, che ritragga un uomo, una donna, un vecchio o un bambino… sempre la necessità di svelare a me stesso la relazione tra le due dimensioni: io contenuto da me stesso e contenuto in ciò che è al di là della mia pelle, il confine”.
La scena si svolge d’estate, sotto un sole cocente, che brucia la pelle e cambia i colori del corpo. Strano fenomeno quello dell’abbronzatura che a seconda delle epoche e dell’ambito sociale d’appartenenza viene esaltato oppure stigmatizzato (nell’Ottocento chi aveva il sangue blu, gli aristocratici, doveva avere la pelle bianca mentre il sole era riservato alle classi subalterne costrette a lavorare all’aperto; solo dagli anni sessanta va di moda il colore tra i ricchi che si possono permettere lunghe vacanze, poi da quando si è scoperto che i raggi del sole fanno male si è tornati a un’antica parsimonia). Sono persone in apparenza umili quelle finite sui quadri di Papetti, dal fisico sgraziato, probabile conseguenza di cattiva alimentazione, vita sedentaria e trascurata. Sembra insomma di essere sul set di Ulrich Seidl, uno dei più corrosivi e irriverenti registi di cinema, che ha raggiunto il successo nel 2001 con Canicola, definito da più parti come l’agghiacciante autopsia della piccola borghesia austriaca, peraltro uguale in buona parte del mondo. Uno dei temi che hanno fatto maggior scalpore è la nudità e il sesso in età senile, soprattutto in Paradise: Love (2012) dove un gruppo di anziane turiste bianche andavano in vacanza in Africa alla caccia di avventure erotiche con gli indigeni del posto.
Papetti non ha nessuna intenzione sociologica nei suoi lavori, non emette giudizi morali nei confronti della società e non vede il corpo come metafora dell’esistenza. Ma le assonanze visive con questo tipo di cinema sovversivo e disturbante sembrano evidenti. Per lui il discorso, infine, resta fortemente ancorato alle ragioni interne della pittura, alla ricerca di un varco, di una porta aperta: “penso alla mia pittura, e mi rendo conto che passaggi non ne ho creati, che le due dimensioni restano ognuna compresa in sé stessa e questo non fa che aumentare la tensione. Perché ogni parte implode non trovando un varco, uno sfogo. Il confine forse sì, lo posso sentire come quello della pelle, fragile come queste carte, che possono lacerarsi, dove i corpi necessariamente nudi, non più ritratti di esseri nudi, si sfaldano e si ricompongono, si svuotano di materia per somigliare alla dimensione contenitiva, aria o acqua che sia. Aria che vorrebbe essere vuoto e acqua che resta per me un mistero… non siamo (o forse non sono) in grado di raccontare cosa siano aria, vuoto, acqua. Non mi interessano le leggi fisiche. Per me è ciò che esiste aldilà del confine”.
Alessandro Papetti | La pelle attraverso
7 giugno – 7 settembre 2014
Perugia, Palazzo della Penna
via Podiani, 11 – 06121 Perugia
tel. 075.5716233