Pao: la realtà? È un’illusione

Pao (al secolo Paolo Bordino) è un artista di strada milanese, attivo fin dai primissimi anni Duemila con uno stile accattivante, apparentemente semplice e fortemente riconoscibile che gli è valso una forte notorietà e un vasto apprezzamento per il carattere non invasivo, intelligente e destrutturante dei suoi interventi: celeberrima, tra tutti, la figura del pinguino, divenuto un suo “marchio di fabbrica”, dipinto sugli spartitraffico a forma di “panettone” presenti sul territorio milanese. Dall’intuizione iniziale dei pinguini nasce, in qualche modo, quello che sarà poi sempre riconosciuto come lo stile peculiare dell’artista, fatto di linee semplici, di colori vivaci e di forme geometriche stilizzate e arrotondate, che l’artista riporterà, negli anni seguenti, in ogni forma e su ogni tipo di superficie, con attitudine volutamente seriale, quasi a replicare l’importanza, a livello concettuale, della ripetitività e dell’iconicità dei simboli come elementi fondanti della persistenza e pregnanza dei messaggi nella cultura di massa, secondo un’intuizione già riconducibile a Andy Warhol.

Pao crea così un vero e proprio campionario di forme sulle quali intervenire, da plasmare e da reinventare, con attitudine volutamente e dichiaratamente seriale e la creazione di un vero e proprio laboratorio creativo (Paopao Studio), con un criterio strutturale che, in prospettiva, sembra più guardare al prototipo di “ricostruzione dell’universo” di stampo futurista (la “casa del Mago” deperiana e lo studio di Balla come prototipi di botteghe moderne, in grado di creare la mappatura di un mondo da ri-decorare secondo linee e stili ben identificabili) piuttosto che al modello warholiano della Factory, irriducibilmente caotica e sperimentale. La declinazione stilistica tipica della sua produzione su ogni tipo di arredo, urbano e casalingo, diventa però anche, per l’artista, il mezzo e lo strumento per ragionare, con arguzia e l’utilizzo di continui, spiazzanti giochi prospettici, sulla funzione d’uso degli oggetti, sulla plasmabilità della forma, sul potere rigenerante dell’ironia contro l’anonimità alienante della realtà contemporanea.

In questa sua serie più recente, Pao mette in scena una giocosa e sorprendente giostra di calembour visivi, con l’accentuazione del gioco di prospettive tra “pieni” e “vuoti” e di ambiguità di immagini tridimensionali, con forme concave che vengono in realtà percepite come convesse, superfici rientranti che paiono in realtà aggettanti, in un gioco di illusioni ottiche che mette in discussione la nostra stessa capacità “oggettiva” di vedere le cose, metafora di una più generale ambiguità visiva tra vero e falso, reale e virtuale, oggettivo e soggettivo, in una confusione visiva in cui la stessa realtà sembra sempre più sfuggirci e farsi evanescente, ambigua, irraggiungibile.

Nel testo che segue, Pao stesso ci racconta origini, motivazioni e significati simbolici del suo percorso e del suo lavoro recente.

Alessandro Riva

Bellissima plastica

di Pao Bordino

Ho iniziato a dipingere per strada oltre 15 anni fa, un po’ per sfida, un po’ per gioco. L’idea, disegnare sui paracarri stradali i pinguini, aveva cominciato a frullarmi per la testa e non voleva lasciarmi fino ad essere realizzata. Quello che facevo era così nuovo che sfuggiva alle definizioni, guardandomi in giro trovavo tante scritte sui muri, molti graffiti di matrice americana, ma ancora la street art era un termine sconosciuto. Le mie motivazioni sono nate dalla sensazione di poter migliorare lo spazio in cui viviamo, donando un po’ di stupore all’ignaro passante. Poter trasformare dei semplici blocchi di cemento in creature animate mi ha affascinato fin da subito, scoprire che questo piccolo gesto magico rendeva felici le persone mi ha spronato a continuare.

Con il tempo però anche il gesto più bello, se ripetuto pedissequamente, perde di significato, nel frattempo la Street art da fenomeno underground è entrata nella cultura mainstreamed una nuova generazione di artisti si è aggiunta ai primi esploratori, assieme a festival dedicati, mostre, curatori, aste ed una sovrastruttura imponente, parallela a quella dell’arte contemporanea. Ho iniziato così ad esplorare altri ambiti, dal design alla pittura su tela, cercando per quanto mi fosse possibile di saziare la mia curiosità, la mia voglia di imparare e di ritrovare lo stupore. Una delle domande che mi sono sempre posto è quale sia il ruolo dell’artista nella società. Credo che l’artista abbia il compito di esplorare i territori meno battuti, di vedere quello che gli altri non vedono e di mostrare punti di vista inediti, lo stupore, la meraviglia e anche l’orrore se è necessario.

Passando dalla strada e dalla sua libertà all’ambito ristretto della tela bianca e della galleria mi sono trovato a dover ricominciare da zero, questa volta con maggiore consapevolezza. La storia dell’arte ti guarda dalla tela bianca e trovare qualcosa di minimamente all’altezza di essere rappresentato è un compito terrificante. Fin dall’inizio però ho pensato ci fosse una piccola area poco battuta, un intersezione dove potevo fare delle affascinanti scoperte. Se le mie opere in strada risultavano diverse dal resto era per la loro interazione tra forma e disegno. Quando iniziai a dipingere in studio, fin dall’inizio ho provato quindi a superare la bidimensionalità della tela con l’inserimento di elementi tridimensionali e con l’ausilio di prospettive audaci.

Dipingendo su superfici nello spazio tridimensionale e continuando a ricercare lo stupore mi sono presto avvicinato alle illusioni ottiche, che sono quanto di più vicino ad una magia che un pittore possa immaginare. Dalle anamorfosi alla retroprospettiva, passando dagli studi prospettici e geometrici continuo a imparare cose nuove ogni giorno. Al di là dell’essere un semplice “trick”, le illusioni ci portano sul limite della nostra percezione, a fare domande sulla nostra stessa realtà. Come un apprendista stregone, continuo a sperimentare formule nuove, mescolando gli ingredienti che negli anni ho imparato ad usare: street art, neo pop, ricerche geometriche e prospettiche.

La mostra “Black Hole Fun” è il risultato di questo percorso, in cui pongo la mia autocritica all’attuale società occidentale ipercapitalista e ipertrofica. Come una schiera di lemmingsci dirigiamo verso l’autodistruzione, euforici in un overdose di zuccheri, psicofarmaci, videogiochi e shopping. Convinti di poter crescere all’infinito, rinchiusi in un sistema finito, su un pianeta sempre più caldo, piatto e affollato, rischiamo di finire sommersi dalla nostra stessa spazzatura. Vittime di noi stessi, acceleriamo sempre più, aumentando ritmi e produzione, tentiamo di curare la nostra bulimia assumendo prodotti sempre più nuovi. Il mondo finirà sommerso da tanta lucentissima e bellissima plastica.

Pao | Black Hole Fun

a cura di Jacopo Perfetti

28 febbraio – 30 marzo 2015

Artea Gallery

Corso Buenos Aires 52, Milano

www.arteagallery.it

http://www.paopao.it/it/