di Gianluca Marziani & Stefano Antonelli
L’arte contemporanea sta attraversando una storica transizione: da una parte l’egemonia della Finanza, forma distopica di combustibile lubrificante che aumenta il valore monetario ma sporca il valore intrinseco, concettualmente immateriale dell’artista; dall’altra una rinata coscienza collettiva che rafforza le molteplici nature dell’arte urbana, la più comunicativa tra le espressioni visive, arte per molti e forse per tutti, gratuita e deteriorabile, virale sui social media come nessun museo riesce a fare. Questa forbice tra un sistema chiuso (gallerie top, musei di prima fascia, case d’asta internazionali, fondi speculativi, collezionisti mondani…) e un sistema aperto (gallerie sperimentali, musei di seconda fascia, collezionismo non sistemico, spazi urbani, luoghi alternativi…) ha generato due condizioni d’ingaggio: una sempre più ristretta ed elitaria, autoreferenziale, blindata negli habitat di riferimento; un’altra che mescola generazioni e culture, fasce sociali e disciplinari, aprendosi agli spazi collettivi, alle periferie ma anche ai centri storici e siti di pregio che captano il virtuosismo della contaminazione.
In questo doppio binario, tanto per capirci, uno come Banksy stravince nel consesso mediatico, con numeri inarrivabili per qualsiasi artista vivente; eppure non lo vedrete tra gli invitati ufficiali alla Biennale di Venezia o a Documenta Kassel, così come non lo troverete al Guggenheim o al Moma, al massimo nel loro bookshop con gadgets che aiutano le casse del negozio stesso. Il motivo risiede nella biforcazione appena descritta, nel fatto che un sistema chiuso si rafforzi attraverso la strategia del controllo, scegliendo artisti che producano con misura, rispettosi dei vincoli contrattuali, senza picchi instabili. Come potrebbe un motore lobbistico che gestisce azioni e transazioni, fidarsi di un antagonista invisibile alla Banksy? Il sistema chiuso vuole certezze monolitiche, vuole un artista che realizzi opere in numero limitato, che non si disperda tra produzioni spontanee ed eventi troppo popolari. Eppure Banksy travolge tutto con le sue intuizioni, e il motivo è semplice: solo il pubblico decreta un successo di ampia portata, alzando la potenza del feticcio e l’energia del simbolo.
In un presente dove i social network ridefiniscono il consenso popolare, OBEY opera nella terra di mezzo tra i due sistemi, nel limbo che avvicina sapere e popolo recettivo, giovani e meno giovani, con un’arte al di sopra dei fonemi linguistici, oltre gli ambienti canonici, oltre le nature elitarie del sistema. OBEY avvicina gli opposti, amando la gente e il fronte aperto della città, immergendo l’arte nella baraonda del quotidiano; al contempo, accetta il corteggiamento di alcune aristocrazie culturali, usando a suo vantaggio gli approcci mondani e i sussurri del fashion system. Shepard Fairey configura la dimensione fluida del presente, fatta di adeguamento agli habitat professionali, approcci inclusivi, semplificazione del linguaggio, di empatia semantica e simboli catartici. Shepard Fairey è la risposta alla diatriba tra sistema chiuso e aperto. OBEY è l’epilogo, grafico e concettuale, della miglior arte urbana in circolazione.
L’artista americano si presenta con un nome in codice, OBEY, che sfrutta una fonetica rapida e universale, quattro lettere gonfie che si pronunciano come si leggono. Il suo successo ha qualcosa di altrettanto impattante: un alto voltaggio figurativo che lo rende un fenomeno più ampio della musealità ma anche della street art canonica. Perché le sue immagini, più vicine ad un quadro che ad un graffito, hanno la natura del poster e l’ambizione del manifesto urbano. Lui possiede uno stile inimitabile, basato sulle grafiche sovietiche e futuriste di inizio Novecento, sulle pitture di propaganda latinoamericane, sui muralismi italiani alla Mario Sironi. OBEY crea cover urlanti e motorie, semplificate nella palette cromatica, puro equilibrio di pesi tra testo e immagine. I formati tendono al gigantismo quando ll contesto prescelto è la strada, diminuiscono nel caso di oggetti funzionali al progetto (cover di album, skateboard, poster incorniciabili…) ma, in entrambi i casi, non si perde la forza d’urto e d’urlo, una sorta di Munch che incontra Balla che incontra Rodchenko che incontra Rivera che incontra Marinetti che incontra Malevic…
OBEY stravolge le pitture di propaganda muralista, tuttora diffuse nel Centroamerica di Messico, Colombia e Perù. L’autore riprende la grafica d’origine, quell’enfasi rurale e populista che tatua mitografie urbane sugli intonaci. OBEY impianta il modello muralista nella vertigine geometrica di Rodchenko, Moholy-Nagy, Malevic e in generale nel Costruttivismo sovietico di inizio Novecento. Si aggiunga la matrice grafica del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti, il rigore lineare del Bauhaus, il minimalismo alla Dieter Rams, fino ai maestri di grafica essenziale come David Carson e Neville Brody… il risultato sono stampe cartacee bollenti, carne viva che brilla sotto il sole della civiltà, trasformando gli sguardi in un valore d’azione. Organismi caldi con una loro implicita respirazione, sembra di sentire l’urlo catartico di Angela Davis o la speranza democratica di Barack Obama, con le loro silhouette che catturano le giuste frequenze e si prendono il palcoscenico mediatico del nuovo millennio.
OBEY è il prototipo fluido del nuovo artista politico. Perché ha capito che i temi scottanti si affrontano con simboli e intelligenza visiva, con l’impatto rapido di un messaggio in cui riconoscersi senza confondersi. La società non ha bisogno di artisti militanti che urlino davanti al Parlamento, questo compito è materia del popolo e di chi rappresenta la democrazia dal basso. Oggi servono creatori di simboli virali e replicabili, produttori di icone che alzino la soglia d’attenzione, che diano messaggi politici in maniera metaforica e condivisa. Gli artisti non devono essere speculari al reale, mai troppo fotografici rispetto al mondo; OBEY, che lo sa bene, alimenta la consapevolezza di massa con una lezione di estetica laterale, tanto semplice quanto liquida, aperta nei sottotesti, un esperanto pacifista che comunica su piani concentrici. OBEY dimostra tutta la mediocrità della propaganda politica, scegliendo invece una pedagogia estetica che generi una lezione di civiltà visuale, innestata nei gangli urbani, arte pubblica nel senso spirituale del termine, vera e propria matrice che attende la sua viralità da social media. In genere le opere d’arte usano la fotografia come traccia editoriale, nel caso di OBEY ogni lavoro si completa con la fotografia rapida da smartphone, raggiungendo così lo stadio liquido del processo creativo, andando oltre il semplice documentare. I social media moltiplicano le matrici – l’opera d’origine – in maniera random, sorta di pandemia figurativa che delocalizza l’opera in un parallelo di vita digitale, ricreando tante anime e altrettanti corpi dietro l’apparenza. Il disegno iniziale, la matrice da stampare, le declinazioni su formati e materiali diversi, la pubblicazione cartacea, l’uso per multipli e altri oggetti, fino alla viralità digitale che permette infinite variazioni sul tema, sfidando i termini del copyright, stimolando l’artista a nuove soluzioni: tutto questo definisce la vita biologica di un’opera liquida targata Shepard Fairey.
OBEY produce immaginari simbolici ad alto valore emozionale. La sua arte attrae i nostri sensi in modo spontaneo, ampliando il linguaggio informativo dei muri metropolitani. Fairey ha capito che le pareti stradali rappresentano la prima pagina della comunicazione virale, una nuova home page da cui non puoi sottrarti e che ti avvolge nei rituali quotidiani. Non è un caso che brand come Gucci usino i muri per creare testi e sottotesti in forma di pittura urbana. E non è un caso se i poster di OBEY li noti in un istante, come il lampo che buca il cielo notturno. Un breve flash che resta sulla retina e produce conseguenze, più o meno immediate ma reali, piccole istigazioni alla Bellezza che usano la memoria grafica per una rinata coscienza del Tempo Estetico.
OBEY stimola riflessioni sui temi umanitari, sui passaggi esistenziali, sulle utopie sociali, sui valori al di sopra delle leggi. Il suo messaggio pacifista ed ecologista ci rende piccoli “soldati” di una nuova militanza, fatta di spazi etici del confronto, di nuovi modelli del vivere, di azioni sane e consapevoli. Fate arte al posto della guerra. Fate l’amore al posto della guerra. Celebrate la Bellezza al posto della violenza. Denigrate il Male con alti dosaggi di consapevolezza morale. È come se gli Anni Settanta delle culture antagoniste tornassero a nuotare nel mare fluido del web, come se lo spirito dei nostri paladini freak rivivesse nella Politica Estetica di un mondo migliore per gente migliore. Che ci crediate oppure no, solo l’arte può ancora salvare il mondo…
OBEY | MAKE ART NOT WAR
Firenze, Palazzo Medici Riccardi
Via Cavour, 3
orari: 9-19 (chiuso mercoledì)
prezzo 10 euro