La mostra? Non c’è. E la galleria? Chiusa. Non per ferie, ma proprio per ospitare la mostra. O meglio, la non-mostra. Che infatti non espone niente, se non la sua assenza. Se dall’arte contemporanea ormai ci si può aspettare di tutto, alla galleria che, per ospitare la mostra, chiude i battenti e manda tutti i dipendenti in vacanza per un mese (col telefono staccato e divieto di rispondere alle mail), forse, però, non eravamo ancora pronti. O forse sì, tanto da far dire da alcuni addetti ai lavori che si tratta di un’operazione “già vista” (guarda caso, negli anni Sessanta).
Che sia la la solita provocazione? Per carità! L’operazione artistica dell’artista tedesca Maria Eichhorn presso la Chisenhale Gallerydi Londra (titolo: 5 weeks, 25 days, 175 hour, aperta, o meglio chiusa, fino al 29 maggio), infatti, ha altri scopi: riflettere, e far riflettere, sull’idea del tempo del lavoro e sul suo rapporto con il cosiddetto “tempo libero”, mettendo in discussione le ragioni per cui il lavoro debba essere sinonimo di produzione e mettendo in evidenza la precarietà dei posti di lavoro a bassa retribuzione in un’economia neoliberista. Un gesto fondamentalmente politico, e sociale, dunque, attraverso la forma di una performance artistica.
Che, come dicevamo, come gesto in sé non è però del tutto nuovo: già nel maggio 1968, a Milano, l’artista francese Daniel Buren chiuse la porta della Galleria Apollinaire impedendo ai visitatori di entrare, mentre l’anno successivo l’artista americano Robert Barry chiuse contemporaneamente le porte di ben tre gallerie (ad Amsterdam, Torino e Los Angeles) con un semplice cartellino bianco su cui era scritto: “During the exhibition the gallery will be closed”. E ancora, nel 1974, l’americano Michael Asher, che con le sue opere ragionava sulle logiche del sistema artistico, in una galleria a Los Angeles non espose nulla, buttando però giù un muro divisorio per permettere ai visitatori di vedere il lavoro che si svolgeva dietro le quinte.
E non è finita. Lo spagnolo Santiago Serra, nel 2003, eresse un muro intorno al Padiglione spagnolo e impedì l’ingresso a tutti coloro che non avevano passaporto spagnolo, evidente metafora del processo di chiusura delle frontiere di fronte alla crescente ondata migratoria.
Oggi, dunque, ci riprova Maria Eichhorn, che non è nuova a indagini sul rapporto tra arte e vita reale. E proprio sul rapporto tra lavoro artistico e vita vissuta si dipana il lavoro alla galleria londinese: “La mia mostra alla Galleria Chisenhale è un modo di restituire il tempo al personale che vi lavora”, ha dichiarato l’artista. “Nel momento in cui essi accettano la mia proposta, senza che il loro salario venga sospeso, ecco che il senso del mio lavoro verrà fuori”. Ma come fa a manifestarsi un lavoro che, di fatto, si realizza proprio nel suo non esserci? “La galleria e la mostra non sono chiuse, ma piuttosto spostati nella sfera pubblica e nella società”, ha detto ancora l’artista.
In effetti, grazie alla “provocazione” dell’artista tedesca, viene da chiedersi quanti visitatori frequentino realmente le gallerie oggi nel mondo: e quanto invece oggi il lavoro di un artista non passi molto maggiormente dal suo riverbero e dalla sua diffusione sui social network, sul web, sui giornali. Forse, allora, il lavoro di Maria Eichhorn mette effettivamente il dito nella piaga di un problema più che mai reale del sistema artistico oggi. Nonostante l’aria di importanza e di sussiego che tendono sempre a darsi, le gallerie oggi servono a ben poco. Dopo le inaugurazioni, nessuno le frequenta. Il lavoro degli artisti viene visto da pochi, spesso da pochissimi visitatori, e, anche tra questi, spesso nessuno ci capisce niente: se lo apprezza o addirittura arriva a comprarlo, è solo perché è di moda, e qualcuno gli ha fatto credere che sia considerato molto “cool” e intelligente collezionarlo. Perché allora non fare tutti come Maria Eichhorn: chiudere le mostre, finirla con il futile e inutile gioco delle inaugurazioni, e chi s’è visto s’è visto?
Alessandro Riva