di Alessandro Riva
Chi altri poteva trasformare uno dei luoghi divenuti i simboli perfetti dell’inferno contemporaneo quotidiano, quelle Vele di Scampia, caotiche, sporche e sempre piene zeppe di persone, tra baby criminali, spacciatori e boss della camorra, divenute oggi iconiche e famose a livello popolare anche grazie alla serie tv “Gomorra” tratta dal romanzo di Saviano (ma oggi già in via di parziale abbattimento e pronte a diventare, nel progetto di De Magistris, “luogo di innovazione architettonica e urbana”), in un’astratta e rigorosissima griglia geometrica di cui non si riesce più a intravedere nulla di reale, se non un mutevole e freddo gioco sovrapposto di linee e di colori? Se qualcuno poteva farlo, quel qualcuno non poteva essere che Marco Petrus.
Pittore urbano per eccellenza, ma che del paesaggio urbano ha via via congelato, razionalizzato, reso via via più scarnificato e astratto ogni singolo dettaglio del paesaggio stesso, dal cielo sullo sfondo (neutro, mai naturalistico né in alcun modo tendente ad alcuna forma di rappresentatività), alle finestre, divenute pura griglia geometrica colorata sulla tela, Petrus ha infatti, proprio con la serie delle Vele – presentata nella suggestiva cornice delle Gallerie d’Italia di Napoli col significativo titolo “Matrici” –, “saltato il fosso”: s’è trasformato, con un volo acrobatico, da maestro della figurazione italiana a pittore astratto.
Eppure, a ben guardare, solo chi conoscesse solo superficialmente l’evoluzione del lavoro dell’artista milanese poteva davvero stupirsi di questa improvvisa quanto lungamente meditata scelta. Da anni, infatti, il suo stile tendeva sempre maggiormente a una sorta di progressiva razionalizzazione e stilizzazione delle forme del paesaggio urbano, che sembrava spingerlo progressivamente nella direzione cui ora è, a quanto sembra, definitivamente approdato.
Già qualche anno fa, del resto, rispondendo a una domanda sulla definizione di “paesaggio urbano” per una rivista d’architettura, l’artista sottolineava: “Se per ‘paesaggio’ possiamo intendere ‘un album di ricordi’, composto da sguardi e da esperienze individuali, dalla propria formazione culturale e ambientale, dai luoghi dove siamo nati e cresciuti e quelli che abbiamo visitato o che abbiamo sognato; e se per la sua “rappresentazione” miriamo alla trasfigurazione di realtà conosciute in nuovi mondi da esplorare, definiamo codici e linguaggi basati su una ricerca formale originale e del tutto personale… allora posso ritenere di far parte di quella nutrita schiera di artisti che da sempre indagano, e trovano ispirazione, dall’ambiente e dai luoghi. Ma”, continuava il pittore, “forse il quesito non è tanto quello di definire o riaffermare un ‘genere’ che incaselli e fissi un’espressione artistica: dopotutto, un dettaglio di edificio estrapolato dal contesto originale con un triangolino di ‘cielo’ rosso va ancora considerato ‘paesaggio urbano’, o è invece più puntualmente etichettabile come ‘composizione geometrica’?”.
Ecco, come si vede, il “punto” cui oggi l’artista è puntualmente approdato con la mostra partenopea era già bell’e pronto, o per meglio dire in incubazione, nell’evoluzione del suo stesso lavoro precedente. E le Vele di Scampia non hanno che fornito lo strumento perfetto – geometricamente perfetto, potremmo dire –, per realizzare questo doppio salto mortale in direzione dell’astrazione pura.
Ma facciamo un passo indietro. È il 1962 quando l’architetto Franz Di Salvo getta la prima pietra di quello che diventerà uno dei più discussi progetti architettonici italiani. Ispirate alle famose unités d’habitationdi Le Corbusier, complesso di case popolari ispirate a criteri di razionalismo e di abitabilità sociale e condivisa, come una sorta di piccolo quartiere-fortezza, o “città verticale”, nella quale fosse possibile trovare non solo abitazioni, ma servizi, esercizi commerciali e spazi comuni, di condivisione e comunione tra i condomini, le Vele di Scampia si svilupparono, al pari del loro modello, come progetto fortemente utopistico, di urbanistica sociale “aperta” e condivisa, divenendo però col tempo – per uno di quei paradossi assai frequenti nella storia – simbolo, al contrario, di mero degrado abitativo, di fallimento delle politiche sociali e solidali, di humus ideale per lo sviluppo di attività criminali diffuse.
Da questo paradosso è, in qualche modo, partito dunque Marco Petrus, che ha giocato sul contrasto tra l’immagine che abbiamo oggi di Scampia e il progetto originario di Di Salvo, riproponendo, a livello linguistico, la dicotomia tra progetto urbanistico e sua realizzazione pratica nello spazio nel contrasto pittorico tra “rappresentazione” e forma pura.
Già il titolo del progetto, del resto – “Matrici” – esemplificava bene l’idea di un ritorno alla forma pura del progetto, in contrapposizione alla mera rappresentatività dell’immagine reale. “Matrici” si sviluppa infatti su due diversi piani, che dialogano tra loro a distanza fortemente ravvicinata: da una parte, le tipiche raffigurazioni urbanistiche delle Vele, dipinte alla maniera “tradizionale” a cui l’artista ci aveva abituato fino a ieri, già pur caratterizzate da un sempre maggior grado di sintesi compositiva; dall’altra, la loro “traduzione” in puro elemento aniconico – che a tratti sembra sfociare in una misteriosa partitura musicale –, costituito da un incrocio di griglie colorate, di rimandi compositivi, di giochi di linee che richiamano, per assonanze, i toni e la tavolozza cromatica dei quadri figurativi dell’artista, quasi a ripeterne lo svolgimento e il complesso incrocio semantico, pur privato della “corazza” visiva della rappresentazione realistica.
Le “Matrici” di Petrus divengono in questo modo l’ultimo passo verso una pittura che si fa via via sempre più sganciata e autonoma dalla semplice riproposizione figurativa di elementi e scorci del paesaggio urbano, per farsi, invece, ricerca rigorosa e impeccabile della “pura forma” architettonica. “Ogni architettura tende a costituirsi in codice”, scriveva Cesare Brandi in “Struttura e Architettura”; “pertanto l’architettura porta in sé il germe di una degenerazione semantica”. Ecco allora che Petrus, in perfetta coerenza con il suo percorso di “pittore di città” che ha sempre saputo guardare ai codici formali e alla struttura sottesa all’architettura urbana più che alla semplice suggestione visiva del suo porsi nello spazio del reale, compie, con quest’ultimo progetto, un ulteriore passo nella direzione di una progressiva e sempre più estremizzata sintesi formale del paesaggio urbano contemporaneo, in un progetto originale, di grande rigore formale, che è insieme analisi simbolica dell’architettura urbana ma anche metafora dello stesso linguaggio pittorico nel suo farsi forma e materia.
È un vero e proprio percorso a ritroso, dunque, quello di Petrus, nel voler tornare a dare voce al progetto originario delle Vele, esente dai drammi e dai fallimenti della storia, che, a ben guardare, si inserisce perfettamente nella più generale operazione dell’artista della ricerca di quel “tempo puro” della forma e dell’architettura di cui a suo tempo ha parlato l’antropologo Marc Augé: un tempo scevro dagli accidenti, dalla retorica, dal dramma della storia umana, congelato nell’attimo del suo farsi idea, composizione e forma. E così, allo stesso modo, anche la pittura, con la sua ricerca di una composizione e di una forma “pure”, astratte, al di là di ogni suggestione realistica o di ogni tendenza alla rappresentazione, diviene il pretesto per ragionare sul delicato rapporto tra la cristallina astrazione dell’idea e la tortuosa complessità (che contiene già in sé, per definizione, anche il rischio del fallimento) della sua realizzazione nella complessa sfera del reale. Un ragionamento sul fare pittorico, dunque, che è anche riflessione sul delicato rapporto che intercorre tra progettualità e realizzazione, tra idea e realizzazione pratica.
Col suo astrarre sempre di più il “tempo puro” della forma e dell’architettura dalle icone del paesaggio contemporaneo, Petrus ha finito infatti, con impeccabile rigore concettuale prima ancora che formale, per mutare definitivamente anche il proprio linguaggio e il proprio stile. Il lavoro di ricerca, a posteriori, delle “matrici” della forma urbanistica originaria è divenuto così, per il “pittore di città”, un puro pretesto visivo per una più vasta ricerca delle “matrici” del senso stesso del dipingere e del rappresentare.
Marco Petrus | Matrici
a cura di Michele Bonuomo
Gallerie d’Italia, Palazzo Zevallos Stigliano
Via Toledo, 185 Napoli
fino al 3 settembre 2017