di Alessandro Riva
Le chiese? Non sono intoccabili. A lanciare la provocazione – una vera “bomba”, nei giorni in cui il Duomo di Milano è stato malamente violato dalla mano di un imbrattatore, e il mondo del writing è insorto all’unanimità per prendere le distanze dal gesto, dichiarando a gran voce che l’imbrattatore “non può venire dalle nostre file” – è Bros, lo street artist più più lucidamente anticonformista, irriducibile alle piccole logiche di schieramento spesso praticate anche nel complesso universo del wrinting e della street art e molto attento ai complessi meccanismi, anche contraddittori (e forieri di discussioni e di problematiche) all’interno dei quali si muove da sempre l’arte, anche nei confronti della sfera sociale. Sia chiaro, e spazziamo subito il campo dalle (facili) strumentalizzazioni: il gesto dell’anonimo imbrattatore del Duomo è, anche per Bros, da condannare: ma solo in quanto “privo di qualsiasi valore estetico e concettuale”: non, dunque, in assoluto.
Una boutade pubblicitaria? Affatto. E lo dimostra il gesto –lucidamente e consapevolmente inseribile nell’ambito della più pura pratica artistica, benché indubbiamente provocatorio e discutibile sotto molti punti di vista – compiuto dallo stesso Bros non più di una decina di giorni (o meglio di notti) fa, sempre a Milano, in una piazza centrale come Piazza Leonardo da Vinci, di fianco al Politecnico, proprio sulla facciata di una chiesa. La chiesa in questione è la San Pio X, un edificio stretto tra due tristi palazzotti bassi, suppergiù coevi, dalla facciata a mattoncini verdi, progettata dall’architetto Giuseppe Chiningher a metà degli anni Cinquanta.
Armato di una scopa con manico da 9 metri, completamente solitario, lo street artist più spericolato d’Italia ha violato l’ultimo tabù, decorando – illegalmente, ça va sans dire– la facciata della chiesa con i suoi caratteristici segni astratti, fortemente calligrafici, a metà strada tra l’arcaismo neoprimitivista e l’articolata ricerca di maestri che hanno fatto di una nuova “semantica intellettuale” (come definì Argan la lezione di Capogrossi) la loro chiave stilistica precipua – segni che, da qualche anno in qua, per chi ha seguito la sua ricerca più recente, notoriamente contraddistinguono il lavoro dello street artist milanese.
La facciata, per chi volesse vederla, è oggi tornata (in tempi record) nuovamente come prima, cioè a mosaico verde, in tinta unita, senza alcun segno ad agitarne la piatta e per la verità assai poco allettante superficie. Il discutibile gesto di Bros è stato così cancellato, come lo sfregio di un vandalo qualsiasi, o forse come se si volesse spazzar via, e il più in fretta possibile, il gesto insano di un qualche diavolo notturno (e davvero, viene da chiedersi a cosa deve aver pensato quel povero curato, al mattino, vedendo quei segni rossi e bianchi che svolazzavano al centro della facciata della sua parrocchia, e se non fosse stato per davvero un diavolo volante a realizzarli!).
Di quel gesto frettolosamente cancellato, non rimane oggi che qualche manciata di fotografie, che pubblichiamo. Ma la questione posta da Bros, nelle stesse ore in cui il Duomo veniva banalmente e vergognosamente sfregiato, rimane intatta: che cosa è davvero lecito, e che cosa no, oggi alla street art (quella vera, quella esteticamente pensante, e non i balbettii e le tag prive di senso dei mille imitatori senza cervello)? Solo di compiere scorribande notturne su facili muri di periferia, esteticamente orrendi, che nessuno si perita più di difendere, neppure i più idioti difensori dello statu quo nascosti sotto le triste sigle “antigraffiti”, o – sorte in fondo forse ancora più banale –, unicamente di creare opere su committenza per amministrazioni comunali in vena di liberalismo estetico, come la maggior parte degli street artist della vecchia scuola sono ormai ridotti (salvo poche eccezioni) a fare, magari a suon di più o meno magri – o lauti – compensi, dimentichi di quando giravano illegalmente di notte per le strade per esprimersi liberamente e senza committenze (né restrizioni) di sorta?
“La domanda”, incalza Bros, “è che cosa oggi sia la committenza, e perché un intervento estetico debba assumere senso solo se a monte c’è una committenza, mentre diventa ‘vandalico’ o scandaloso se la committenza non c’è. La Chiesa è il più grande mecenate della storia, è la Commissione per eccellenza. Superare questa richiesta”, chiosa, “riporta l’arte al centro del lavoro”.
La questione non è priva di senso. Che la facciata di una chiesa sia intoccabile, è storicamente falso. Da sempre, architetti sono intervenuti, su richiesta della committenza (la Chiesa, appunto), su facciate progettate e iniziate da altri architetti prima di loro; artisti hanno realizzato le loro opere su facciate o muri di chiese progettate da altri architetti, che originariamente non prevedevano affatto gli interventi successivi. La stessa storia dell’arte non è che il succedersi di interventi, stratificazioni e superfetazioni successive e progressive, sui medesimi corpi architettonici.
Dunque? Che cosa dava legittimità, di volta in volta, al lavoro e alla “stratificazione” successiva? La committenza, per l’appunto: il fatto cioè che la Chiesa stessa desse mandato all’artista di intervenire sull’opera precedente.
Del resto, proprio su muri e facciate, magari secondarie, di chiese hanno lavorato anche di recente diversi street artist di ambito milanese; ma sempre e solo su committenza. Pensiamo ai lavori, alcuni un po’ didascalici (così del resto chiedeva la stessa committenza) di street artist quali Gatto Nero, Mr. Blob, Neve, Acme 107, Encs, Gianbattista Leoni e altri sulla parete laterale della Basilica di San Lorenzo, tra le Colonne di San Lorenzo e il Parco delle Basiliche, che rappresentano una sorta di storia di Milano attraverso i volti dei suoi protagonisti; o – caso ancora più eclatante – pensiamo alla facciata (cinquecentesca) dell’Archivio Diocesano e muri limitrofi, in piazza Cardinal Ferrari, decorati per i 140 anni della Fondazione Gaetano Pini da Orticanoodles, Pao e Ivan, con un progetto sostenuto dalla Fondazione Cariplo con il patrocinio di Comune di Milano, Provincia di Milano e Fondazione Stelline, e addirittura – come scrive il Corriere della Sera – “con tutte le benedizioni possibili: delle Belle Arti, della Curia, del Comune, della Provincia e dell’Associazione antigraffiti (ma prontamente l’Associazione antigraffiti smentirà qualsiasi benestare, ndr). E naturalmente del Convento, del Gaetano Pini e dell’Istituto Diocesano, proprietari dei muri in questione”. E non è finita: anche un altro street artist noto e di vecchia data come Christian Sonda oggi si sta dando alla decorazione, in solitaria, dei muri esterni di una chiesa alla periferia di Milano: anche lui, però, rigorosamente su commissione. Chiese e muri antichi sì, dunque, ma solo da fare legalmente e su commissione? Questa sembra, a grandi linee, lo spartiacque generale: fatta eccezione, ancora una volta, per l’opera-provocazione di Bros (che però parla di “opera” tout court, e non di provocazione: “Quel muro di mattoncini verdi mi solleticava come un supporto ideale per i miei grafismi”: a proposito dei quali dice che gli piace che si situino “in una zona ambigua, radente il lavoro di tanti artisti che hanno indagato il livello-base del linguaggio”, e allo stesso tempo anche “vicinissimi, nella percezione del passante distratto, ai segni insulsi di un vandalo qualsiasi”).
Oggi, però, non solo la committenza ha perso spesso qualsiasi capacità di differenziazione estetica (quanti artisti contemporanei di valore sono stati realmente chiamati, come avveniva nei secoli passati, a decorare o progettare chiese?), ma spesso si confonde con la più bieca prostituzione commerciale, a suon di cartelloni pubblicitari posti sulle facciate di chiese e basiliche con la scusa di lavori di ristrutturazione. È ancora Bros a lanciare la provocazione: “In fondo, vedo un eccesso di perbenismo nei miei colleghi writers, nel precipitarsi a prendere le distanze dall’imbrattamento del Duomo, quasi temessero di esserne contaminati. In fondo, perché il gesto, certamente non estetico, di un imbecille sul portale del Duomo deve essere condannato, e non altrettanto dovrebbero esserlo, allora, le orrende pubblicità di maglierie, di banche, di aziende e multinazionali che compaiono sulla medesima facciata del Duomo? Semplicemente perché questi signori pagano la loro brava tassa, e l’imbecille, invece, l’ha fatto illegalmente?”.
La domanda è retorica (e paradossale), ma non troppo. Sul fatto che il gesto dell’imbecille (come ormai si usa chiamarlo) sia uno sfregio non ci sono dubbi, ma la questione torna ad essere quella della legittimità di imporre un gesto artistico fuori dalle regole codificate del sistema, spesso drogato da pure logiche commerciali anziché puramente estetiche. Dopotutto: se, anziché illegalmente, la facciata della Chiesa di San Pio X in Piazza Leonardo fosse stata regolarmente commissionata a Bros, essa sarebbe oggi celebrata sui giornali, con tanto di fanfara pubblicitaria (e gli sarebbe stata lautamente pagata, in linea con gli standard commerciali delle sue opere, ampiamente richieste e ricercate, oggi, dal mercato); in quanto illegale – cioè non commissionata -, invece, viene cancellata in fretta e furia, e i giornalisti, come sempre distratti e con la testa altrove, non si accorgono neppure della sua esistenza.
È evidente che la questione investe il senso stesso del fare street art oggi: qual è diventata, oggi, la sua reale funzione? Solo fare un banale e un po’ scontato “decoro urbano” autorizzato e regolarmente retribuito, come un mestierucolo qualsiasi? O, ancora, come un tempo, porre questioni fondanti circa il valore estetico dell’arte, la sua fruizione libera anche al di fuori dei piccoli circolini artistici ufficiali, la sua “non riducibilità” alle pure logiche commerciali, prostitutive e pubblicitarie che investono tutte le forme d’arte nell’era dello spettacolo integrato? La discussione è aperta. Al di là dell’ovvia, e per la verità un po’ banale, condanna generale del gesto dell’imbecille che qualche giorno fa ha imbrattato il portone del Duomo, forse anche la street art oggi ha bisogno di ritrovare un po’ di linfa che la tolga dal troppo facile abito che la società dello spettacolo le ha prontamente cucito addosso.