Ragazze spaesate e alienazione nelle foto di Inbe Kawori

di Christian Gancitano.

Non fotografa persone famose, attrici o modelle. Le protagoniste delle sue straordinarie foto sono persone “normali”, ragazze della porta accanto che lei riprende nel loro habitat quotidiano, in casa, o per la strada, in situazioni di solitudine, di rabbia o di disperazione. Lei è Inbe Kawori, ha 34 anni, è nata a Tokyo ed è considerata una delle fotografe più interessanti e promettenti nell’ultima generazione di artisti giapponesi. In Giappone, ma soprattutto per le community della rete e dei social media giapponesi e internazionali, Inbe ha ormai spiccato il volo, con un susseguirsi di mostre personali, collaborazioni editoriali e recensioni, oltre alla recente pubblicazione di un libro che raccoglie i suoi scatti di ritratti dal 2004 al 2013, intitolato “Time to go back… to the moon”, per i tipi di Akaaka Art Publishing; mentre in Italia, una sua foto è stata scelta per la copertina del romanzo “L’origine della distanza”, di Francesca Scotti, pubblicato da Terre di mezzo, ambientato in Giappone, tra alienazioni, infelicità generazionali e difficoltà di creare relazioni.

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Quello di Inbe è uno sguardo sull’universo femminile, declinato con una cifra forte, originale ed estremamente partecipe: “Presento il mondo interiore delle donne attraverso il ritratto”, dice l’artista. “Faccio una ricerca generale sui pensieri e le esistenze delle donne ascoltando le loro storie. Quindi interpreto ciò che ho assorbito prendendo spunto dal nucleo che li costituisce: coscienza di sé, complessità, disperazione, rabbia, piacere e dolore. Mi concentro sui singoli problemi di ognuna di loro, ma l’insieme dei loro problemi rappresenta al meglio ciò che avviene sotto la pelle della nostra società. In questo modo interpreto la parte oscura della nostra società attraverso i sentimenti delle donne “.

Nata a Tokyo nel 1980, Inbe ha iniziato a fotografare da autodidatta nel 2000. Il “brodo di cultura” in cui è vissuta fin dall’infanzia è stato quello della pop-culture giapponese degli anni Ottanta: in periodo in cui si affermava Hello Kitty, nata nel 1976 ma diventata fenomeno di massa negli anni Ottanta, in cui prendevano piede le culture shojo, i mecha (grandi robot), sorgeva il sole di Miyazaki come guru delle anime d’arte e dietro a lui Hideaki Anno e la Gainax, il futuro erede alla guida dello Studio Ghibli.

Questi sono anche gli anni in cui a Tokyo si forma un tessuto urbano e suburbano (la megalopoli cresce in modo esponenziale, si sviluppa in alto, con oltre 30 milioni di abitanti) basato su un consumo di massa e una deriva consumistica ipertrofica, generando frotte di Otaku, maniaci divoratori di ogni genere e stile di anime, manga, toys nei quali cercano di immedesimarsi. Nascono derive border-line estreme, dal bondage all’hentai al tentacle rape, che la miglior fotografia giapponese di quegli anni ha saputo portare alla luce meglio di ogni altro linguaggio.

Di questa formazione, Inbe porta nel suo Dna le stimmate: nelle sue fotografie riesce infatti a valorizzare e a rendere poetiche realtà urbane e suburbane, tendenze estreme, realtà dell’alienazione ai confini della psicosi e della difficoltà di vivere in una megalopoli spaesante come Tokyo, senza mai, però, perdere il suo punto di vista prettamente femminile, profondamente intimistico e partecipe, che è caratteristico di tutta la sua poetica.

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Le sue modelle sono infatti quasi tutte “ragazze reali”, non modelle ma ragazze qualsiasi, che amano farsi fotografare da Inbe invece che farsi i soliti #selfie: ragazze spesso contattate in rete o attraverso i social media, che amano apparire diversamente, evadere dal formicaio dei sarary man (la massa di impiegati, salariati delle zone dei grandi uffici a Tokyo), che cercano uno stacco, una frattura dalla monotonia della quotidianità attraverso abiti, atteggiamenti, abbigliamenti insoliti come il “Kigurumi”, letteralmente “pigiama”, vestendosi da personaggi dei fumetti o da animaletti come conigli, panda e orsacchiotti. “Il mio interesse”, mi spiega Inbe, “è captare in che modo ogni persona, ogni ragazza o ogni donna dimostri la propria diversità, la propria differenza rispetto alle altre persone. La distorsione, la differenza è parte integrante del processo di crescita e di vita”.

Una delle realtà che traspaiono dalla poetica di Inbe, vero e proprio soggetto privilegiato della sua poetica, è quella della depressione: una forma che a Tokyo, nella grande megalopoli spaesante e alienante, è diventato un fenomeno diffusissimo, anche tra i giovani. Il suo è un tentativo di catturare in modo discreto, dall’interno, il “mondo” degli hikikomori e in generale della depressione acuta. Hikikomori è un fenomeno ritenuto “patologico” delle società ultra tecnologiche, che vede ragazzi e ragazze giovani chiudersi in casa, vivere soltanto attaccati a internet o al computer, non uscire mai e rimanere per lunghi mesi, a volte anni nelle loro (piccole) abitazioni della megalopoli sommersi da fumetti, gadget e dai loro rifiuti di consumo. Una realtà molto particolare che sta toccando anche le società “occidentali” che guardano in modo molto attento e preoccupato a questo fenomeno, e che rischia di dilagare anche negli stati Uniti e in Europa soprattutto tra i giovanissimi.

“Cerco di lavorare con la fotografia sulla individualità delle persone”, mi spiega ancora Inbe. “Scavo nella loro vita, e cerco di immaginare il loro passato e il loro presente. Ma quando le persone si adattano ai desideri della società, la loro reale individualità tende a nascondersi. Una figura ben visibile non è necessariamente anche reale. Per questo, utilizzando la fotografia cerco di scavare nella reale personalità della persona che ritraggo. Parlo dei veri problemi che la attanagliano. E attraverso questo cerco di avere uno sguardo anche sulla società intera”.

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Così, come nella lezione dei grandi “maestri” della fotografia del Sol Levante, come Nobuyoshi Araki e Hajime Sawatari, Inbe riesce a raccontare storie di vita vissuta anche attraverso realtà estreme e difficili: dalle quali traspare, però, anche un’altra realtà.

Fatta di poesia, valore estetico, emozioni reali.

 

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