di Alessandro Riva.
Era il 1975 quando un giovane artista trentacinquenne, di origine pugliese ma già attivo a Milano da oltre quindici anni, cominciò a girare per Milano con un rotolo di carta e ad “attacchinare” per le strade della città lombarda dei singolari manifesti (più avanti avrebbe fatto lo stesso in altre città, italiane e non solo, come Venezia, Modena, Parigi, Lisbona, New York), che contenevano slogan, scritti a grossi caratteri in stampatello rosso, dichiaratamente politici ma anche vagamente criptici, sintetici e al contempo ambigui, vagamente incongrui e stridenti nel tessuto urbano per il loro carattere di immediata riconoscibilità ma anche di difficile comprensione: “L’arte è ideologia”, “Le contraddizioni sono ovunque”, “La mano non è soltanto l’organo del lavoro, è anche il suo prodotto”, “La stessa specie di lavoro può essere produttiva o improduttiva”, “Arte come pratica sociale”.
“A Milano”, racconterà in seguito l’artista, “feci affiggere oltre cinquemila manifesti di due metri per 140 e due striscioni stradali, uno in via Fatebenefratelli, l’altro in Corso Venezia. Ho avuto la fortuna di fotografarli il giorno dell’inaugurazione, perché il giorno dopo erano già stati rimossi. Le frasi di Marx ed Engels avevo creato inquietudine neri politici e nei benpensanti milanesi… il resto delle affissioni erano abusive e selvagge. Con l’aiuto di alcuni collaboratori armati di colla e pennello, in piena notte facevamo gli attacchini…”
L’artista si chiamava Fernando De Filippi, era già conosciuto non soltanto per la sua appartenenza a un gruppo che sarebbe stato un po’ frettolosamente denominato come “Nuova Figurazione” (assieme a Paolo Baratella, Gian Giacomo Spadari, Umberto Mariani), ma anche per alcune azioni di “riappropriazione” della figura di Lenin nel proprio privato, attraverso la pratica del ritratto iperrealistico tratto da documenti originali d’epoca (“Si trattava di un lavoro che non trascriveva la natura, ma la cultura”, spiega De Filippi nell’intervista rilasciata ad Angela Madesani nel volume edito da Prearo per la mostra alla Fondazione Mudima di Milano. “Tutto il mio lavoro è antinaturalista, non è mai partito dalla visione del vero, ma da ciò che era già stato traslato. Non ho fatto il ritratto a Lenin, ma il ritratto a documenti che lo riguardavano”).
Fino alla stessa “messa in scena” del suo personaggio pubblico attraverso la pratica del travestimento e della sostituzione di se stesso con la figura del padre della Rivoluzione d’Ottobre (“L’immedesimazione leniniana era di ordine sostanzialmente esistenziale, un modo di partecipazione per appropriazione a livelli quasi di frequentazione quotidiana, nella sfera appunto intima, domestica, e non per semplice consenso ideologico…”). Non un punto di vista piattamente “celebrativo” del grande rivoluzionario russo, dunque, ma una pratica tutta interna al linguaggio dell’arte, che prevedeva veri e propri rituali di tipo quasi psicanalitico (secondo i modelli della sostituzione, della fissazione, della ripetizione compulsiva) riportati nella pratica artistica, quasi a scardinare, psicanaliticamente, linguaggio e prassi dell’arte dall’interno, con una metodologia che era insieme parallela e metaforica dei cambiamenti in atto nella società: nel momento massimo di spiegamento del concetto per cui “il personale è politico” (con l’inizio di una diversa consapevolezza e messa in pratica di modi di vita alternativi nel quotidiano, come la rivoluzione sessuale, la contestazione del modello di autorità in seno alla famiglia, alla scuola, sul lavoro, etc.), il processo, tutto interno al linguaggio dell’arte, di De Filippi era un atto fortemente simbolico e intellettuale, prima ancora che formale. Anticipatore di molti esperimenti successivi (pensiamo ai tanti artisti che, dai tardi anni Settanta agli Ottanta e oltre, utilizzeranno la pratica della sostituzione autobiografica con personaggi storici e mitologici, da Luigi Ontani a Cindy Sherman a Morimura), il lavoro di De Filippi diventa straordinariamente profetico, però, quando sposta il suo “pubblico di riferimento” dalla galleria alla strada.
Apparentemente astrusi e incomprensibili, portati nella strada come misteriosi messaggi affidati al mare in una bottiglia, e forse mai realmente giunti a destinazione, cioè all’ipotetico pubblico allargato che vive nella città, per lo più incapace di recepirli, gli slogan (rigorosamente presi da testi marxiani) “gettati” in strada da De Filippi sono infatti dei veri e propri sensori di anticipazione di una prassi (e di una logica sociale, prima ancora che artistica), ancora di là da venire, e che in seguito verrà denominata “Street Art”: è infatti il mezzo, il veicolo – quello pubblicitario e propagandistico, mimato da de Filippi attraverso l’uso di poster e di striscioni posti in strada, in maniera illegale, accanto a quelli pubblicitari – che viene posto come centro nevralgico del messaggio stesso, prima ancora del sibillino slogan che esso contiene: il carattere, cioè, non-neutrale del mezzo, come profetizzato in quegli anni da McLuhan, anche indipendentemente dai contenuti di ciò che il mezzo stesso veicola. “I testi”, spiega ancora De Filippi, “sull’esempio della pubblicità, si condensavano in messaggi mirati a mettere in discussione il corretto utilizzo dell’arte per mano dell’artista e per le sue relazioni con il mondo della produzione, assumendo nel contempo una funzione critica sul sistema dell’arte in generale. Il momento della rappresentazione diveniva quindi la dimostrazione e la documentazione di una pratica artistica utilizzabile all’esterno dei luoghi deputati, degli spazi tradizionali. Il risultato si concretizzava come un momento d’infiltrazione nel mondo delle parole e delle idee, in una realtà del quotidiano dominata dalla persuasione occulta”.
Il momento di massima concentrazione del carattere elitario e iper-intellettualistico dell’arte – quello della nascita e dell’espansione del concettuale e del performativo, ben sintetizzato da Sordi nella sua impareggiabile parodia della Biennale di Venezia –, diviene così per De Filippi anche il momento per porre le basi, tutte da sviluppare, per una pratica dell’arte, pur problematizzata e fortemente intellettuale, rivolta fuoridal sistema, ai di là dei piccoli centri di potere e di interesse dello stesso sistema dell’arte. Un primo accenno, puramente intuitivo e anticipatore, di quello che poi sarà il vasto movimento del graffitismo storico prima, e della street art poi. Un primo contributo alla lenta e graduale trasformazione del mondo dell’arte da sistema chiuso, autoreferenziale, asfittico e latamente mafioso, a possibile campo di interazione tra soggetti diversi, aperto alle spinte, ai desideri, anche al gusto di un pubblico più vasto, qual è quello che genericamente ruota attorno alla strada, e oggi alla rete.
Contributo che De Filippi aveva già intuito e messo in pratica, attraverso la pratica illegale (come sarà poi illegale al pratica della street art, tre o quattro decenni più tardi) dell’attacchinaggio abusivo e diffuso. “L’affiche”, spiega ancora De Filippi, “è un’idea che prende forma tra l’accumulazione di sollecitazioni, spesso menzognere, mille volte ricoperte da altre, esse stesse già dimenticate. La città così ricoperta e segnalata viene a offrirsi come teatro del gioco delle manovre e delle denunce…”; e ancora: “Si trattava di sottolineare lo spaesamento del ruolo dell’artista, me compreso, che si trovava a operare in uno specifico completamente staccato dalla realtà e dal rapporto con il sociale, oltre che impotente a partecipare alla determinazione di un concetto di cultura contesa come manifestazione autentica dei modi di essere e sentire della collettività”. Un primo passo, cui ne sarebbero poi seguiti molti altri. Che, tuttavia, oggi andrebbe ripensato e ripreso in esame per quello che è: un processo di anticipazione e di intelligente messa in discussione del ruolo dell’artista e dell’intellettuale rispetto alla vasta pluralità della collettività, e non solo al piccolo e triste mondo degli eterni “addetti ai lavori” cui troppo spesso gli artisti sembrano far riferimento.
Fernando De Filippi | La rivoluzione privata II
a cura di Angela Madesani
all’8 gennaio al 6 febbraio 2015
Milano, Fondazione Mudima
Via Tadino 26
Catalogo Giampaolo Prearo Editore