di Alessandro Riva
Oui, bien sûr, nous somme tous Charlie Hebdo, siamo tutti Charlie Hebdo (noi, per lo meno, che da sempre amavamo senza riserve l’ironia corrosiva e spietata di Wolinski, Cabu & Co., esattamente come in gioventù abbiamo adorato l’irresistibile e irriducibile sarcasmo di Reiser). E tutti, senza eccezioni, siamo rimasti sconvolti, letteralmente sconvolti e orripilati, dall’orribile massacro della redazione di Charlie Hebdo a Parigi. Non solo perché amavamo la libertà di giudizio e di totale, irresponsabile capacità di dire e scrivere tutto ciò che passava loro per il capo dei disegnatori trucidati dalla follia integralista, ma anche perché ci rendiamo conto, come è stato sottolineato in questi giorni, che una pagina così nera della nostra storia rischia di costituire uno spartiacque drammatico per chi è abituato a esprimersi – con le armi del giornalismo, della letteratura, della satira ma anche dell’arte – sui temi controversi come la politica, la religione, il sesso, la morale.
Anche l’arte, sì: non illudiamoci di poter vivere in un territorio altro, una torre d’avorio non toccata dalla deriva estremista e integralista che il mondo si sta trovando in questi decenni ad attraversare. La domanda, infatti – e non da oggi – sorge spontanea: i tanti artisti contemporanei che, da anni, si dilettano a prendere in giro, a dileggiare, a sfottere, o semplicemente a ironizzare (del tutto legittimamente, a nostro parere: con buono o cattivo gusto, comunque legittimamente), su papi e Madonne, Cristi, angeli e prelati, sempre e solo e rigorosamente cattolici, avrebbero però – o avranno? – la stessa scanzonata leggerezza nel prendere di mira, con le armi di quell’ironia che da tempo è diventata parte integrante del linguaggio artistico contemporaneo, anche i costumi, le rigidità, le figure più o meno simboliche e autorevoli della religione islamica, sapendo che questo potrebbe dopo tutto comportare, per il loro autore, dei rischi personali?
Senza fare la facile morale – o peggio ancora del moralismo a buon mercato, merce che personalmente ci ripugna ovunque si annidi –, è lecito domandarsi, dopo tutto, se l’ampissima e felice libertà che, per fortuna, tre secoli di pensiero libero nato in Europa dalla cultura iIluminista non possano essere oggettivamente messi in forse da un vento oscuro, e oscurantista, proveniente vuoi dal più bieco integralismo islamista, imposto a suon di ammazzamenti, stragi, teste tagliate, gente trucidata non solo nei paesi arabi, ma anche nel cuore della nostra stessa civiltà, vuoi dai settori oscurantisti, integralisti, fascistoidi e razzisti, annidati nella stessa cultura occidentale, che approfittano delle orrende crociate islamiste per invocare sempre maggiori e più pressanti restrizioni sulle libertà altrui, da Internet, alle comunicazioni, ai flussi migratori, alla stessa libertà di stampa e di parola.
La domanda non è retorica. Perché, se è vero che l’arte dovrebbe, nell’era delle post-avanguardie, essere pur sempre la cartina di tornasole del clima culturale che la società intera si ritrova a vivere, è altrettanto vero che la possibilità di un’autocensura, da parte degli artisti, su temi quali il rapporto tra i costumi di libertà dell’Occidente e l’Islam più radicale – uno dei temi centrali del dibattito attuale internazionale – potrebbe essere un spaventosa prova del nove per l’intera cultura di domani. In buona sostanza, possiamo davvero, oggi, ridere di tutto – anche di Cristo e del Papa –, ma nondell’Islam, per il semplice motivo che abbiamo la consapevolezza che, nel 2015, il Papa non ci manderà più né l’Inquisizione né le guardie svizzere, mentre qualche fanatico islamista potrebbe aspettarci sotto casa armato di coltello o di kalashnikov?
Abbiamo provato a girare la domanda agli artisti (noi, per parte nostra, abbiamo già cercato di dare una risposta, pubblicando, a poche ore dalla strage, una vignetta del nostro Richard Mutt nella sua rubrica “Satyricon”).
Il primo interpellato è Massimo Giacon, che di Wolinski e di altri disegnatori morti sotto i colpi di kalashnikov era, se non proprio intimo amico, certo buon conoscente, militando da decenni nelle file del fumetto e della satira, e incontrandoli dunque spesso nei vari festival internazionali. Triste, peggio, annichilito dalle notizie che via via si succedevano da Parigi, l’abbiamo sentito a poche ore dal massacro. La sua risposta è stata desolata: “È spaventoso”, dice, “non solo perché è la prima volta che in Occidente dei creativi geniali, dei disegnatori, degli artisti vengano ammazzati per quello che disegnavano e scrivevano, ma anche per quello che fa presagire per il futuro… violenza generalizzata, fanatismo, estremismo e paura…”.
“Oltretutto”, sottolinea, “questa orrenda strage mette sotto scacco la facoltà più bella e gioiosa, quella di poter ridere di tutto, che è per principio l’arma della tolleranza” (al punto che lui stesso, annichilito da quanto è successo a Parigi, per quattro giorni non è riuscito a disegnare: ci riuscirà solo la mattina del 12 gennaio, nel momento in cui andiamo on line, pubblicando una vignetta sulla sua pagina Facebook, che riportiamo qua di fianco).
Le sue previsioni per il futuro appaiono cupe: “È un vento di oscurantismo spaventoso che porterà ancora più intolleranza: ora si scateneranno anche le varie Marine Le Pen e compagnia bella a invocare pena di morte e leggi repressive, e allo stesso modo gli islamici che non erano estremisti si sentiranno magari spinti nell’angolo, e diventeranno anche loro estremisti. E noi, che abbiamo sempre amato la tolleranza, la convivenza, l’ironia, la libertà di pensiero e di parola, finiremo per raccontaci l’un l’altro le barzellette nell’orecchio, come avviene sotto i regimi totalitari”.
Previsione fosca? Forse un eccesso di pessimismo, nato sull’onda della tristezza e dell’emozione. Ma certo è che il senso di sconfitta è palpabile, e generale.
“Certo, più che il rischio di una censura, c’è quello di un’autocensura, a scanso di guai”, conferma Robert Gligorov, che col suo lavoro ha sempre toccato, in maniera anche provocatoria e corrosiva, temi sociali, etici e politici. “Il rischio che, ad esempio, domani un gallerista, di fronte a un’opera un po’ pesante, possa dire: questa è meglio non esporla, potremmo trovarci un pazzo armato di kalashnikov sotto la galleria, è plausibile”. Dunque? Anche l’arte rischia di essere messa sotto tutela? “No, in realtà lo escludo”, dice Gligorov. “Non solo perché l’arte è meno diretta della satira, lavora sul piano del simbolico e non dell’attualità. Ma anche perché di condizionamenti ce ne sono sempre e sempre ce ne saranno, anche in Occidente. Io stesso sono stato censurato, per esempio in nome del politicamente corretto o del rispetto per gli animali. Ciò non toglie che io abbia continuato a fare quello che ritenevo giusto di fare. E, in tema di islamismo, avevo già fatto, in tempi non sospetti, lavori provocatori sull’influenza dell’islam nella società occidentale: basti pensare a Eurabia – Place de l’Etoile, un lavoro del 2006, o L’infedele, del 2013, che rappresentava un Cristo colpito da freccette coi colori delle bandiere dei paesi arabi. Dunque, il mio lavoro l’ho sempre fatto, senza pormi il problema di infastidire o non infastidire qualcuno. Anzi, proprio in questi ultimi mesi stavo lavorando a un nuovo progetto, per una grande installazione che rappresenta un tipico ‘rosone’ islamico, realizzato però con nodi di cravatta”. Nessuna autocensura, dunque? “No, assolutamente. Anche se va tenuto conto”, aggiunge, come ultima analisi, “che se poi col tuo lavoro ti metti di proposito a sfidare sistematicamente sensibilità o religioni differenti dalle tue, e sai per certo che questo potrebbe provocare delle reazioni che mettono in forse la tua incolumità personale, allora devi anche mettere in conto le eventuali reazioni violente che potrebbero scaturirne. E saperti o difendere, o comunque proteggere”.
Dall’altra parte del globo –e per la precisione da Pechino –, risponde Zhang Dali, che su temi di forte impatto sociale, finiti spesso sotto i riflettori dei media e dell’opinione pubblica, oltre che sotto il costante rischio di censura per la loro carica di forte denuncia sociale, ha imbastito da sempre il suo lavoro. “In questi 20 anni”, dice, categorico, “la mia arte e il mio pensiero sono sempre stati profetici e in conflitto con conservatori e integralisti. Spesso sono stato vittima di minacce e violenze, quindi da tempo sono abituato a questo clima, ma non lo subisco. So che lo stesso capita in altri luoghi e ad altre persone, ma dobbiamo andare avanti lo stesso”. Certo è che, in questi giorni terribili, nei quali Parigi è rimasta in stato d’assedio come una città in guerra, non poteva non tornare alla mente la sigla che ha caratterizzato, e continua a caratterizzare, molti dei lavori dell’artista: quell’AK47 che altro poi non è se non il nome dei Kalashnikov utilizzati generalmente in ogni sorta di conflitto contemporaneo, e, in questi giorni, lo stesso usato dai terroristi nell’attacco alla redazione di Charlie Hebdo. E pare allora davvero tragicamente profetica la sua insistenza ossessiva nel ripeterne la sigla sui volti di anonimi cittadini qualsiasi, quasi il germe della violenza li avesse colpiti inesorabilmente, sfigurandoli per sempre, come se si fosse annidato fin dentro la loro carne, alterandone i lineamenti, marchiando per sempre la loro epidermide e mutandone fin nel profondo la fisionomia…
Un altro artista che, col suo lavoro, da sempre gioca in modo irreverente e provocatorio (scatenando spesso polemiche, reazioni e anche censure) sui temi scottanti dell’attualità è Giuseppe Veneziano. A cominciare proprio da temi che hanno a che fare con la politica dell’Occidente nei confronti dell’Islam: basti pensare al suo celebre “Occidente, Occidente”, quadro del 2006 raffigurante la testa decapitata di Oriana Fallaci, la grande nemica dell’islam e della (presunta) islamizzazione dell’Occidente, che scatenò un’ondata di sdegno, di polemiche, di articoli al vetriolo, oltre alle proteste della stessa Fallaci e persino un “picchetto” di protesta di fronte alla sua mostra da parte di strenui difensori dei valori occidentali.
“Questa escalation, per quanto orrenda, non fa altro che portare all’estremo una reazione tipica al lavoro degli artisti più irriverenti”, dice Veneziano. “E cioè il fatto che, se col tuo lavoro ti trovi a toccare i valori di una qualche comunità, quella comunità si offende e reagisce”. Sì, ma qui siamo arrivati alla follia: al compimento di una strage per seminare il terrore, mettere il bavaglio alla satira e imporre il silenzio… “Certo, ma, ripeto, tentativi meno eclatanti e certamente meno violenti di censura, gli artisti li subiscono ogni giorno… l’importante è andare avanti e non farsi intimidire”. La domanda però è d’obbligo: avrebbe avuto il coraggio, lui, che in molti lavori ha ironizzato sui simboli religiosi cattolici (dalla La Madonna del Terzo Reichcon in braccio Hitler al Cristo vestito con le mutande di Dolce & Gabbana) di mettere alla berlina, anziché i simboli della religione cattolica, quelli dell’Islam? “Non è questione di aver paura. È questione che un’idea abbia un senso nell’ambito del proprio percorso. Io stesso ho messo Bin Laden tra i simboli del male nella mia serie dedicata ai ‘cattivi’, tra Totò Riina, Hannibal Lecter, Marilyn Manson… non è che prima di realizzare un quadro mi pongo il problema se la mafia, o Al Qaeda, potrebbero offendersi oppure no: altrimenti non farei più niente. Esattamente come non mi pongo il problema che l’Opus Dei o la Curia possano offendersi, e dunque boicottare il mio lavoro, se non gradiscono un quadro ironico come quello della Madonna del Terzo Reich” (che destò scandalo alla Fiera di Verona e a Pietrasanta, ndr). La libertà dell’artista non è messa in forse da questa escalation di terrore, allora? “No, per niente: l’artista deve dar retta solo alla propria coscienza. Non può subire pressioni di sorta né intimidazioni. Io mi sono sempre posto come un artista che se ha un’idea, e ritiene che quell’idea sia importante per il suo percorso, affronta tutto quello che c’è da affrontare”.
Quasi tutti gli altri artisti sembrano concordare nel dire di non volersi autocensurare, per nessuna ragione: così, ad esempio, Paolo Schmidlin, che, pur non lavorando quasi mai su temi riguardanti l’attualità più stretta, nel 2007 suscitò però scandalo raffigurando in una scultura Papa Benedetto XVI in reggicalze: “Non ho mai cercato lo scandalo in sé e per sé, anzi. Quella del Papa è stato un caso un po’ isolato, io non avevo intenzione in realtà né di provocare né di suscitare reazioni sdegnate… era un lavoro che mi divertiva, che nasceva da una serie di ragionamenti estranei all’attualità, più legati al tema delle diverse identità presenti in ognuno di noi…”. Ma avrebbe il coraggio, all’occorrenza, di ironizzare con altrettanta leggerezza e divertita noncuranza anche su Maometto? “Non so, non credo nell’arte che provoca a bella posta, come fosse appunto una banale operazione satirica… io credo che l’arte lavori sui simboli, in maniera istintiva, senza calcoli fatti a tavolino in base a ciò che accade nel mondo: quando la provocazione è fatta apposta per creare scandalo perde di efficacia. Detto questo, se credessi in un’idea, la porterei avanti fino in fondo, senza esitazioni. Autocensurarsi è avvilente”.
Non la pensa diversamente Francesco de Molfetta, che già in passato aveva affrontato temi legati al rapporto tra Occidente e cultura islamica, con Il mondo arabo, del 2008, in cui raffigurava un omino che riempiva un mappamondo di scritte del Corano; e, viceversa, con Cancellare la cultura araba, del 2004, dove un imbianchino era invece intento a cancellare proprio una pagina del Corano: quasi a indicare, in entrambi i casi – pur sotto l’egida di un raffinato concettualismo ironico – lo scontro di civiltà e di culture tra cui troppo spesso rischiamo di rimanere stritolati.
“Col mio lavoro”, dice, “affronto con ironia tutti i temi, senza distinzioni. Del resto, non ho mai cercato la provocazione, o men che meno di offendere la sensibilità di nessuno. Però è vero che, qualche volta, qualcuno si offende. Come quando, per il mio Lourdes Vuitton, del 2010 (una Madonna vestita con una tunica griffata, ndr), una signora scandalizzata ha pensato bene di denunciarmi per vilipendio alla religione. E son dovuto finire in commissariato a spiegare le ragioni del mio lavoro”. Nessun intento veramente provocatorio, dunque: solo una garbata ironia. Sta di fatto che i fondamentalisti islamici non gradiscono neppure quella: e, al contrario della signora scandalizzata, che ai tempi si limitò a denunciarlo, costoro non vanno per il sottile, e sparano. Il che non è proprio una differenza da poco… “Mah, certo, oggi forse ci penserei due volte. Però va detto che, se ci tolgono anche la possibilità di ridere, di ironizzare, la nostra stessa identità di artisti ne uscirebbe svilita… dunque, se si crede in qualcosa, va fatto e basta”.
Anche Desiderio, che, pur lavorando, come artista, su temi molto più onirici e fantastici rispetto all’attualità spicciola, sia in passato che in tempi recenti ha lavorato anche come illustratore e vignettista (sua è una recente campagna pubblicitaria del Manifesto, a carattere satirico): non a caso, uno dei suoi maestri è stato Riccardo Mannelli. “In Francia c’è una totale libertà, che sconfina a volte in una compiaciuta irresponsabilità”, dice. “Anche noi siamo a volte sarcastici, ma meno diretti. Detto questo, il mio lavoro è meno mirato all’attualità, ma in linea di principio concordo con l’idea che non ci si può autocensurare. Sarebbe un delitto”.
Non diversamente Bros, che, da street artist molto libero e scanzonato nella metodologia artistica, ma sempre ben conscio dei meccanismi e delle dinamiche proprie del sistema dell’arte, ha sempre disdegnato qualsiasi forma di compromesso e di autolimitazione, dell’idea dell’autocensura non ne vuol proprio sapere: “Ragionare con i ‘se’ è impossibile, però è un dato di fatto che le minacce non possono fermare il lavoro di un artista. Anche quando ho subito un processo per i miei graffiti, e rischiavo la prigione, non ho per questo smesso di andare in giro di notte. Fa parte del senso del lavoro”. Eppure, pochi giorni fa, in margine a un articolo di un quotidiano che descriveva la sua ultima performance illegale sulla facciata di una chiesa, la Pio X di Milano, un lettore in vena di polemiche l’ha provocato, chiedendogli perché, anziché su una chiesa, non va a fare un intervento su una moschea. Come a sottindere: mentre i cattolici si limitano a cancellare il suo graffito, i musulmani potrebbero avere reazioni ben diverse… e molto più pericolose. Se la sentirebbe? “Non si tratta di studiare gesti a tavolino per fare scalpore, o per fare incazzare questo o quello. Si tratta di dar senso al proprio lavoro. Io ho utilizzato la facciata della chiesa Pio X come un foglio bianco, oltre che come uno stimolo per ragionare che cosa sia possibile fare e non fare per un artista, oggi, al di là della committenza e del museo. Non come una provocazione per i parrochiani: anzi. Dunque il problema non si può porre in questa maniera. Detto questo, se ne sentissi la necessità e avesse senso, sì, potrei anche andare a dipingere la facciata di una moschea. Senza per questo voler cercare lo scontro o la provocazione a tutti i costi”.
Decisamente in controtendenza è invece la reazione di un artista che ha fatto anche lui, come molti altri, della provocazione divertita e dell’ironia una costante del proprio lavoro: Max Papeschi. “Non prendiamoci in giro”, sbotta. “Sarei ipocrita se dicessi che una violenza cieca e bruta come quella dell’estremismo islamico non mi condiziona per niente. Io lo confesso: non mi sento libero. Posso prendere in giro Hitler e i naziskin, che non sono mammolette, e che più di una volta mi hanno anche minacciato, o chiunque altro, ma devo ammettere che sull’argomento Islam non posso sentirmi libero. Un po’ me ne vergogno, certo, mi dà un senso di amarezza, e mi dispiace ammetterlo: ma detesto l’ipocrisia, e non posso proprio dire che quello che è successo in questi giorni a Parigi, e che del resto ripete un copione già tragicamente visto, non mi condizioni per niente nella scelta dei lavori che voglio realizzare. Del resto”, aggiunge, “proprio sopra casa mia c’era una cellula dormiente di Al Qaeda, sgominata qualche anno fa da un’incursione notturna delle teste di cuoio. Questo dimostra che il pericolo, come i fatti di Parigi hanno dimostrato, si può annidare ovunque. Non dimentichiamoci di Theo van Gogh, ammazzato da un estremista islamico per il suo cortometraggio Submission. O dell’accoltellamento, in Italia, del traduttore di Salman Rushdie. E poi dovremmo far finta di non esserne condizionati? Pura ipocrisia”. Ma c’è stato un caso in cui, nel passato, ha rinunciato a realizzare un lavoro per timore di suscitare reazioni violente da parte degli integralisti islamici? “Sì, una volta. Su un’idea che toccava per l’appunto una figura della religione islamica. I terroristi in fondo si possono anche sfottere, ma sono proprio i simboli religiosi che, per i musulmani, sono intoccabili. E sfidarli è un rischio oggettivo, tangibile. E farlo è avventato, o irresponsabile”.
Più articolata, ma anch’essa in netta controtendenza (sebbene da prospettive diverse) la posizione di Dario Arcidiacono: che col suo lavoro ha sempre ironizzato in maniera massiccia e provocatoria contro i simboli del potere occidentale, in un complesso e volutamente astruso guazzabuglio di segni e di riferimenti critici contro il sofisticato intreccio di potere occulto, logge segrete, massonerie internazionali, finanza globale e meccanismi sotterranei di potere, con rimandi voluti e dichiarati al cinema e al fumetto di serie B e agli horror movies. “La libertà in Occidente?”, dice. “Una libertà apparente. Il potere ci consente di dire e di ironizzare solo su quello che è lecito dire o su quello su cui il politicamente corretto del Nuovo Ordine Mondiale ti consente di criticare. Altro non è concesso. Basti vedere i casi di Assange o di Snowden, in fuga per salvarsi la vita solo per aver rivelato delle informazioni che non dovevano essere rivelate, per rendersi conto che la libertà di cui si parla in Occidente è del tutto relativa”. Sì, ma in questo caso non si parla di censura: si parla di disegnatori ammazzati per aver fatto dell’ironia. Non è un attentato alla libertà? “Certo, lo è. Ed è drammatico. Ma tutti noi siamo, in un modo o nell’altro, sotto la minaccia di forme più o meno palesi di violenza e di censura, anche in Occidente, e non per mano islamica. Io stesso lavoro in maniera simbolica e criptica, perché dire le cose a voce alta comporta dei rischi. E il paradosso è che poi – com’è successo a me pochi mesi fa – può accadere che dei lavori che qua venivano considerati troppo forti, e dunque impresentabili e impubblicabili, sono invece stati accolti senza alcun problema in un museo pubblico in Cina, dove a rigore dovrebbe esserci maggior controllo e una forma maggiore di censura. Il che dimostra che, forse, il concetto stesso di libertà è in fondo alquanto relativo…”.
A tirare le conclusioni è Philippe Daverio, con la sua consueta vervepolemica: “L’arte contemporanea? Non può temere alcuna censura, né autocensura, né alcuna rappresaglia, per il semplice motivo che non ha alcun collegamento vero con la realtà”. Ci domandiamo se abbiamo capito bene, o non ci sia sfuggito qualcosa. L’arte non avrebbe alcuna attinenza con la realtà? Ma non era quell’arte che rischia a volte di sconfinare nella sociologia, e che, dalle Biennali alle varie Dokumenta, si picca di affrontare sempre temi politici o sociali, che vede in intellettuali come Pasolini i suoi idoli indiscussi, riempiendosi la bocca di concetti quali “impegno civile”, “arte sociale”, etc.? “Ma neanche per sogno… siamo passati dallo Scià agli islamici e l’arte non se n’è neanche accorta, dallo sviluppo economico alla crisi ecologica e non se n’è accorta… le Biennali sono sempre tutte uguali, da cinquant’anni a questa parte. A rincorrere giochetti sul linguaggio e facili sperimentazioni. Tra una Biennale di oggi e quella presa in giro quarant’anni fa da Alberto Sordi non c’è alcuna differenza”. Dunque? Gli artisti non devono temere possibili rappresaglie, minacce da parte di gruppi terroristici o altre attenzioni poco benevole da parte di integralisti fanatici desiderosi di guadagnarsi la propria fetta di martirio, se espongono un lavoro troppo provocatorio? “Neanche per sogno. Come all’arte non gliene frega niente della realtà, diciamocelo chiaramente: alla realtà non gliene frega proprio niente dell’arte. Incide molto più una vignetta di Charlie Hebdo che l’opera più provocatoria del più provocatorio degli artisti contemporanei”. E con questo, ecco che anche il mito dell’artista engagéha avuto il ben servito.
Milano, 12 gennaio 2015