L’arte? Nei Festival è libera, selvaggia e popolare. In breve molto più contemporanea che in tutte le Biennali del mondo

di Maria Dolfini e Alessandro Riva

 Samskara

L’arte contemporanea è vecchia, noiosa, imbalsamata. Non interessa più a nessuno, non emoziona più nessuno, non scalda i cuori, non eccita, non appassiona, non diverte, non fa muovere folle oceaniche a meno che non siano messe in piedi campagne milionarie e grondanti inutili retoriche, come è avvenuto per Christo sul Lago d’Iseo, dove centinaia di migliaia di infelici si sono messi in fila per ore e ore per calcare una triste passerella in mezzo al nulla, fingendo poi di essersi davvero emozionati a “camminare sull’acqua” (in realtà si trattava di un banalissimo pontile) per non confessare a se stessi e agli altri di aver perso il proprio tempo per prendere parte a una farsa senza capo né coda, né nuova né divertente: ma siccome tutti dicevano che era emozionante, bisognava far finta di essersi emozionati per davvero, per dire e pensare ciò che dice e pensa la massa. Quanto a Biennali, Manifestae Documentavarie, quanto alle mostre d’arte contemporanea nei musei e nelle gallerie chic, non sono altro che carrozzoni megalomani, pretenziosi, noiosissimi, utili a ingrassare l’ego di qualche artista che, beato lui, ce l’ha fatta a campare con due ideuzze messe in croce, e il portafoglio dei galleristi che le sostengono e le sponsorizzano. In breve, servono ad alimentare un circoletto asfittico ed elitario, che nulla ha a che spartire con l’interesse e l’attenzione e il convolgimento di qualcosa che somigli vagamente a un pubblico.

Diciamocelo una buona volta, le mostre d’arte contemporanea, così come sono fatte e concepite oggi, non interessano a nessuno, non eccitano nessuno, non scaldano nessuno. In una parola, sono ininfluenti, e fra trent’anni non saranno ricordate se non dai quattro gatti che ci hanno costruito su una carriera nelle aule di un’Accademia o nelle sale di un museo. Provate a chiedere a un ragazzo di diciotto o vent’anni se si ricordi un’opera che sia una, se conosca il nome di un artista, se si sia emozionato mai nella sua vita di fronte a un’opera d’arte contemporanea: vi guarderà come si guarda un imbecille, e tornerà poi tranquillamente a parlare con gli amici dell’ultima puntata di Stranger Thingso diBreaking Bad o diGame of Thrones,serie tv che, queste sì, emozionano, stupiscono, scaldano, appassionano, divertono. In breve, creano un pubblico vero, e non fittizio.

Eppure, esiste oggi un’alternativa all’arte imbalsamata, noiosa, asfittica delle Biennali tutte uguali una all’altra e delle mostre museali, tutte ugualmente mortifere, ammorbanti e pretenziose. Si chiamano festival, e si tengono ogni anno in tutto il mondo. Lì l’arte – un’arte selvaggia, creativa, psichedelica, autenticamente libera dalle regole e dagli schemettini ideologico-parrocchiali dettati dai pretini del contemporaneo chic –, prende forma e vigore, ed è ancora in grado di emozionare, di sorprendere, di stupire, di scaldare i cuori. E di attrarre folle di giovani paganti che si fanno chilometri e chilometri in giro per il mondo per esserci, per partecipare, per vedere, per lasciarsi trasportare da esperienze che valgano ancora la pena di essere vissute. In una parola, è ancora in grado di fare il mestiere che l’arte, prima che la squallida dittatura mercantile del “contemporaneo” prendesse ovunque piede e dettasse leggi e imponesse i suoi ammorbanti diktat, ha sempre fatto. Semplicemente questo: emozionare. Stupire. Scaldare i cuori.

In questo articolo, Maria Dolfini, che di festival e di arte non convenzionale se ne intende, se non altro per la sua età (20 anni) e per la sua propensione a guardare al di là del proprio naso non ancora indottrinato dalle logiche dell’artisticamente corretto, ci racconta la sua esperienza in presa diretta da uno dei festival di cultura psichedelica più celebri e più partecipati da ragazzi (e non solo) provenienti da tutto il mondo, il Boomdi Idhana-a-Nova in Portogallo. Leggiamo, impariamo, e proviamo a pensare cosa può essere oggi l’arte, anche al di fuori degli schemi di ciò che sempre e indistintamente ci passa il convento delle tristissime mafiette artistiche internazionali.

Alessandro Riva

Dieci giorni al Boom, festival psichedelico ed elettronico. Dove l’arte è ancora capace di farci volare e sognare

di Maria Dolfini

Cosa vuol dire ritrovarsi in un mondo in cui l’arte sopravvive priva di regole, circondati dalla spontaneità artistica e da un misticismo quasi primitivo, senza dover rendere conto a nessuno? Quando sono arrivata al Boom, festival di arte e musica psichedelica in Portogallo, Idhana-a-Nova, non riuscivo a smetter di guardarmi intorno a bocca aperta. Il festival ha luogo in un lago sperduto tra le montagne al confine con la Spagna, a venti chilometri dal villaggio più vicino. Raggiungere il festival ricorda l’entrata al paradiso dantesco, una scalata necessaria attraverso il purgatorio, colma di entusiasmo e aspettative, che rende sempre più intrigante la meta.

Il murales dipinto da Sam King

Boom è molto più che un festival di musica elettronica, le persone pur non conoscendosi si sentono legate da questo miracoloso destino che li ha portati nello stesso universo fiabesco. Nell’aria si respira amore, pace e voglia di creare un mondo parallelo. Mi sentivo come Alice nel paese della meraviglie, che seguendo un coniglio bianco attraverso una porticina si ritrova proiettata in una fiaba. Sta a noi decidere quanto farla durare, il tempo diventa soggettivo, una decisione puramente personale. Sta a noi decidere se seguire lo Stregatto e scomparire con lui, per poi riapparire da qualche altra parte in qualche altro momento. Ma Boom, per me, ha principalmente rappresentato un’immensa opera d’arte contemporanea, attiva e interattiva.

Non solo il festival propone infatti una quantità indescrivibile di espressioni artistiche tra le più varie, ma incorpora in ogni sua forma l’arte contemporanea che siamo abituati a vedere nella vita di tutti i giorni, solitamente rinchiusa in gallerie e spazi predefiniti. Un’arte senza presunzione, senza regole e spesso senza forma compiuta, wildand free, come si addice a una manifestazione di questo genere. Ogni sentiero ha una decorazione diversa e dettagliata. Meduse appese agli alberi, realizzate soltanto con qualche bottiglia di plastica riciclata e umili lucine colorate. I tentacoli penzolanti mossi dal vento sorprendono dall’alto chi si avventura in queste strade secondarie. Strepitose sculture di string artemergono dall’acqua come un angelo marino, basta soltanto un po’ di filo colorato e tanta fantasia. E poi, ci sono fate sui trampoli, unicorni volanti, ombrelli da pioggia trasformati in coccinelle: difficile, quasi impossibile raccontare tutto quello che ogni anfratto di questo festival di creatività diffusa ti mette sotto gli occhi ad ogni istante, come una felice esplosione di gioia, di colore, di immaginazione che supera ogni limite, ogni barriera, ogni regola di gusto o di misura.

Ogni giorno, da qualche parte si svolgevano infatti performance, c’erano persone colorate fluo, ballerini che danzavano, e musica dal vivo. Nessuna pretesa di “fine art”, bastava solo essere lì in quel momento, in quel mondo magico, viverlo intensamente e assolutamente non credere mai ai propri occhi. Una grande galleria d’arte si ergeva al centro del terreno e molte esposizioni minori facevano la loro comparsa tra una bancherella e l’altra. Le persone si fermavano ore a guardare questi quadri senza riuscire a fermarsi, il dipinto parlava e ti avrebbe portato dovunque gli avessi chiesto di andare, magari anche nell’aldilà. Boom è un festival che ogni giorno scopre e trasforma se stesso: a me personalmente ci sono voluti otto giorni per esplorarlo cercando di scoprirne tutti gli aspetti, e posso dire di non essere ancora riuscita a svelarne tutti i segreti nascosti.

Ho trovato una cupola magica, come quella del Brunelleschi a Santa Maria Novella, però parlava e mostrava un progetto di arte digitale unico, con cui potevi interagire. Si chiama Samskaraed è una proiezione digitale in 3D su disegni di Android Jones, artista multimediale riconosciuto a livello internazionale, che ti trasporta con sé in un favoloso ‘trip’ alla scoperta della tua coscienza più profonda. Samskaraporta lo spettatore ad analizzare non solo la sua vita di tutti giorni, ma tutto quello che vi sta dietro, tutta la triste foschia, gli imbrogli, i pensieri ossessivi, i meccanismi del nostro cervello e il nostro più profondo desiderio di pace rappresentato da una potentissima immagine di due dee in un locus amoenus.Questo viaggio in 3D è un enorme progetto d’arte multimediale a cui hanno partecipato molti artisti: è una potente combinazione di arte, immaginazione, tecnologia digitale, proiezioni e mapping al’interno di una cupola che sembra non avere limiti. Le proiezioni comprendono anche stampe, sculture e dipinti digitali, il tutto in 3D e avvolto da una musica che trafigge la memoria e accompagna nella totale immersione dell’esperienza mistica. L’aspetto più interessante di Samskara è la sua più assoluta libertà interpretativa nel suo particolare approccio all’arte: sicuramente ci narra una storia al di là dell’immaginazione, limitata all’esperienza mondana ma che ci lascia la libertà di dar forma a un nostro personale percorso spirituale legato a simboli e immagini forti.

Il festival si snodava poi tra vari murales: giovani artisti che dipingevano muri dal vivo tra una risata e l’altra, ‘face painting’, tamburi e tendoni colorati. Giorno dopo giorno il festival diventava più colorato, le staccionate si riempivamo di disegni, i giorni diventavano notti, il festival si tramutava in una vivace performance artistica diffusa ovunque. Un mondo di arte umile, felice e facile, destinata a scomparire dopo una settimana per riapparire poi da un’altra parte del globo, senza presunzioni, senza concettualismi o inaugurazioni mondane e doveri sociali.

Questo vorrei avere il potere di chiamare arte contemporanea: la capacità dell’arte di adattarsi alle situazioni e cambiare forma, suono, colore per esplodere e poi bruciare, appassire e scomparire senza lasciare traccia se non nella nostra esperienza e nella nostra memoria. Nessuna formalità, nessuna convenzione sociale, niente cravatta o vestito – basta esserci e vivere, nient’altro. Partecipare a un movimento artistico come questo significa creare un’arte accessibile e non selettiva. Alla fine siamo noi, da spettatori, a creare l’arte dal più profondo amore per la vita.