L’arte e la memoria. Per non dimenticare l’Olocausto

di Margherita Fontanesi

Massimiliano Alioto, Menorah, olio su tela, cm 50x40.L’arte è uno strumento potente tanto che in ogni epoca i regimi dittatoriali hanno cercato di mettere a tacere le libere espressioni del pensiero. Centinaia e centinaia di opere d’arte sono state fatte  sparre dal azifascismo a causa del loro altissimo potere eversivo e della loro capacità di far breccia sulla gente in modo più diretto ed immediato dell’elaborazione verbale o scritta.

Il nazifascismo ha cercato, programmaticamente, di eliminare il popolo ebraico, come intere categorie di esseri umani: omosessuali, disabili, rom, sinti, “asociali”. Cancellare, far sparire, dimenticare, occultare attraverso un processo di oblio collettivo forzato, con l’obbiettivo che non restasse proprio nulla. Né cadaveri, né beni personali, né idee e nessuna loro traccia, scritta, dipinta o scolpita che fosse.

Questa è la stora di Lucia Finzi, che ha ispirato la la mostra “In Absentia” al Museo di Correggio. Lucia era di Correggio, come me e viveva anche lei all’ombra del Palazzo dei Principi, sede di questa collettiva. Nel 1943, al momento del suo arresto, aveva 49 anni. Viveva sola, ricamava, si occupava della casa e aveva un grande, speciale affetto per il nipote Guido, che ci ha raccontato la sua storia.

Lucia era ebrea. Un pomeriggio la cercano a casa, lei è fuori. Una volta rientrata e avvertita dell’accaduto non scappa ma si reca alla polizia per chiedere delucidazioni con un gesto di candida, disarmante ingenuità. Il graduato al quale si rivolge la mette in guardia, esortandola ad andarsene, abbandonando la sua abitazione, per mettersi in salvo magari in campagna. Lei segue il consiglio ma solo per poco tempo, poi torna a casa, sentendosi al sicuro e sottovalutando la gravità del momento. Viene arrestata da lì a breve e portata prima a Reggio Emilia, poi al tristemente noto campo di concentramento di Fossoli, vicino a Carpi, in provincia di Modena e da lì ad Auschwitz dove non fu mai registrata e da dove non fece ritorno; presumibilmente, fu giudicata inabile al lavoro e mandata subito alle camere a gas.

Alla famiglia di Lucia non è rimasto niente di lei: non una lettera, non un documento, non un vestito, non una catenina; solo i ricordi. Sembra che tutto ciò che la riguardava sia stato inghiottito nel vuoto creando nei suoi cari rimasti un senso di irrealtà.

“In absentia”, Il titolo di questa collettiva, allude proprio alla sua assenza, la sua e quella di tutte le vite cancellate dal nazifascismo. Un’assenza che abbiamo cercato di colmare con i nostri strumenti. In risposta a beni sequestrati e distrutti abbiamo offerto opere d’arte, alcune delle quali realizzate proprio per questa mostra e ispirate alla storia di Lucia, arrivata a noi attraverso i racconti del nipote Guido. In risposta alla distruzione abbiamo scelto la creazione, in risposta all’omologazione imposta alle menti dalla dittatura abbiamo voluto sottolineare la libertà di pensiero e la ricchezza della varietà di espressione.

Se il nazifascismo ha cercato di cancellare l’arte di opposizione, l’arte che sveglia le coscienze, oggi con questo progetto possiamo provare a ridare spazio a tutte le voci che sono state soffocate, come quella di Lucia Finzi e lo facciamo attraverso lo strumento che ci è proprio: l’arte. Uno strumento che non riporta date o numeri, non mette in ordine avvenimenti, non trascrive documenti ma evoca atmosfere, piange, urla, commuove, ci catapulta dentro un coacervo di sentimenti attraverso i quali la storia si fissa nella nostra mente e facciamo davvero nostra l’idea di “mai più”.

Abbiamo cercato di raccontare per sensazioni la storia di Lucia Finzi che è la storia di tante altre vittime; una singola storia che è riflesso della “grande storia” segnata da tappe drammatiche: le leggi razziali, la fuga in cerca di un nascondiglio sicuro, i rastrellamenti, gli arresti, le deportazioni, i campi di concentramento, la morte. Un climax di violenza che non riusciamo nemmeno a immaginare e che questi artisti hanno evocato.

Luca Pignatelli, Bombardieri, 1998, olio su telone, cm 80x60.
Luca Pignatelli, Bombardieri, 1998, olio su telone, cm 80×60.

Per raccontare l’inenarrabile abbiamo cercato una storia locale, poco conosciuta, che potesse aggiungere un tassello a quanto già si sa − o si crede di sapere − sull’Olocausto. Quindi abbiamo invitato degli artisti che la raccontassero e ognuno di loro ci ha sorpreso, restituendoci un racconto per sensazioni molto più ricco e profondo di quello che avrebbe potuto essere una narrazione tradizionale.

Nella ricerca degli artisti, durante lunghe chiacchierate con i galleristi che hanno preso parte al progetto, ci siamo imbattuti anche in opere già esistenti che abbiamo scelto di inserire nella mostra come elementi mancanti al nostro discorso. Per esempio, Il bombardiere di Luca Pignatelli ci cala nell’atmosfera della guerra evocando sirene ed esplosioni, il rumore di questi rapaci d’acciaio che fendono l’aria. La tunica macchiata di Hermann Nitsch è la violenza pura e cieca, la furia assassina che cancella gli esseri umani lasciandone solo gli indumenti ridotti a sudari. La grande tavola a grafite di Omar Galliani ritrae  un volto inghiottito dal buio: l’ultimo elemento rimasto in luce è una fronte bianca, la sede del pensiero e degli ideali che sopravvivono alla morte e che lottano contro le tenebre. Allo stesso modo l’opera di Tea Giobbio, con quelle mani che affiorano da buio, ci dà l’idea di una storia che lotta per non finire nell’ombra dell’oblio. La posizione delle mani del soggetto ricorda proprio quella di una persona anziana intenta a raccontare.

L’opera di Santiago Ydañez è stata scelta per la sua profonda simbologia allegorica, che ci fa ricordare come primo Levi chiamasse i bambini nei campi di concentramento “uccelli di passo”. Tutti questi uccellini morti, rigidi, incasellati in cuccette che fanno pensare proprio ai giacigli dei campi, sono tante piccole vittime sacrificali che gelano il sangue.

Di una violenza non minore è anche l’opera di Svetlana Grebenyuk, in cui al centro di un gruppo di persone scure avvolte da un clima tetro sta, di spalle, una figura incompiuta ridotta ad un modello anatomico, spersonalizzata e disumanizzata.

Parla di dolore violento anche l’opera senza titolo di Giuseppe Gonella: un vestito e un paio di scarpe abbandonate in un paesaggio esploso, cancellato da pennellate energiche e veloci come folate di un vento che sembra voler spazzare via tutto. Un involucro senza contenuto, un abito vuoto senza identità.

L’identità è messa in dubbio anche nel quadro di Francesco De Grandi, suggestivamente intitolato Il paesaggio difficile, nel quale una figura femminile dai capelli scarmigliati e dall’abbigliamento che ricorda una divisa da carcerata si copre il volto con tutta la mano aperta, in un gesto di fredda e alienata disperazione. La disperazione di chi non vuole vedere né farsi vedere e che inizia a non riconoscere più neanche se stesso.

Gabriele Arruzzo non ci parla delle vittime ma del carnefice: Il suo dipinto, Ritratto di un’idea, ci mostra Adolf Hitler – il suo profilo è inconfondibile – di spalle, inserito in una complessa “gabbia” concettuale e di escheriana memoria, davanti a un foglio da disegno ancora bianco. La sinistra, che regge la matita, è bloccata da un peso che la trattiene. Sotto di lui, sul fondo della gabbia e sopra una svastica giace, legato anch’esso al peso che trattiene la mano di Hitler, un agnello. Siamo di fronte al ritratto della follia di un uomo che avrebbe voluto sostituirsi a Dio e compiere il suo personale disegno: la dominazione sul mondo della Grande Germania e della razza ariana annientando il popolo ebraico, il “popolo di Dio”. Così facendo si sarebbe sostituito a Dio egli stesso rendendo eletta la “propria” gente. A questa lettura di significati va aggiunta l’importanza per il Führer dell’arte e della sua funzione educativa. Lui per primo, artista appassionato ma frustrato e non accettato dal mondo accademico, pose sempre l’arte al centro delle sue strategie, conoscendone a fondo il potenziale persuasivo come quello eversivo.

Svetlana Grebenyuk, Senza titolo, 2013, smalto su tela, cm 100x120.
Svetlana Grebenyuk, Senza titolo, 2013, smalto su tela, cm 100×120.

Massimiliano Alioto ha scelto, come soggetto per il suo dipinto, un simbolo fortissimo che identifica il popolo ebraico: la Menorah, il candelabro a sette braccia. A livello simbolico e iconologico la Menorah è anche la stilizzazione del roveto ardente sotto forma del quale Dio parlò a Mosè e gli affidò le tavole della legge, indicando quello ebraico come popolo eletto. Alioto ha dato vita al simbolo avvolgendolo in spire di vegetazione e fumo: al tempo stesso questi elementi parlano di oblio, del tempo che passa, identificato dalla vegetazione che cresce, rischiando di soffocare la memoria. Anche quest’opera è stata ispirata dalla storia di Lucia Finzi e dalla nostra comune volontà di non farla cadere, insieme a tante altre, nell’oblio, evitando che il tempo la copra  con le sue spire fumose.

Una interessante scelta è stata quella di Giorgio Ortona che, pur da ebreo, ha ritratto, per la nostra mostra, un altro gruppo di perseguitati, quelli identificati con il triangolo nero: asociali, Sinti, Rom, quegli irregolari che rovinavano la perfezione della razza ariana, quegli individui e quelle etnie che creavano disordine sociale, i non inquadrabili, coloro che rischiano di far saltare la macchina del sistema.

Giovanni Sesia e Paolo Quaresima fanno entrambi parlare gli oggetti. Sesia, con una tecnica fatta di fotografia, pittura e doratura, rievoca la sensazione che danno le fotografie trovate in soffitta, dietro le quali sono annotate date e memorie. Quello sgabello con un drappo abbandonato che potrebbe essere un abito, una tovaglia, un lenzuolo, evoca un senso di abbandono, la traccia di un passaggio umano veloce che lascia in disordine gli oggetti, come accade quando si è costretti a fuggire in fretta. In contrasto con il senso di povertà di questa immagine è la campitura dorata in alto, continua come una fusione, come tutto l’oro di tante famiglie ebree deportate, requisito dai nazisti insieme alle case, alle opere d’arte e a tutti gli altri beni.

Pentole e stoviglie fermate in eterni istanti da Paolo Quaresima ricordano gli strumenti musicali silenziosi, impolverati e iperrealistici di Evaristo Baschenis nei quali la vitalità della musica tace alludendo alla morte. Così pentole e stoviglie inutilizzati sottolineano l’assenza di qualcuno che li usa per cucinare (la quintessenza della vita!). In questo contesto diventano gli oggetti abbandonati di una vita spezzata.

Silvio Porzionato, artista piemontese che da tempo porta avanti una ricerca sul corpo e sul passare del tempo, è stato scelto con un’opera che rappresenta una figura femminile nuda, con lo sguardo perso lontano ed entrambe le mani sul cuore che restituisce il ricordo delle persone spogliate nei lager non solo dei beni materiali ma anche della propria personalità (con la rasatura dei capelli), della dignità umana, dei propri affetti. La donna ritratta da Porzionato ci ha fatto pensare a chi, spogliato di tutto, si porta le mani al cuore per tenersi stretti almeno i ricordi.

La giovane di spalle di Cristiano Tassinari è di una dolcezza e di una poesia struggenti. Il capo chinato in avanti, la mano sul collo, il viso nascosto, il soggetto di spalle. Un ritratto intimista, una figura sola e racchiusa in se stessa che ha evocato in noi le stesse impressioni dei racconti dei familiari di Lucia Finzi: una donna dolce e sola che se ne va…

Giorgio Ortona, Senza titolo, 2013, matita e olio su cartoncino, cm 31x43,8.
Giorgio Ortona, Senza titolo, 2013, matita e olio su cartoncino, cm 31×43,8.

Massimo Lagrotteria è presente in mostra con tre opere inedite: nella prima, tre bambini si premono le mani contro le orecchie, per non sentire l’orrore. Sono l’infanzia, l’ingenuità, la purezza che vengono toccate dal Male, da una violenta follia che travolge persino le giovani vite. La seconda opera è una veduta del campo di concentramento di  Fossoli, vicino a Carpi (dove Lagrotteria vive e lavora). Fossoli è stato un centro di smistamento nel quale i deportati venivano imprigionati prima di essere destinati ai campi di sterminio, una sorta di anticamera dell’inferno che vide fra le sue baracche anche Lucia Finzi. Infine, nella terza opera, ci presenta una donna con un abito bianco fuori dal tempo, una presenza evanescente come uno spirito o come un ricordo.

Aldo Sergo, Radici, 2012, olio su tela, cm 70x55.
Aldo Sergo, Radici, 2012, olio su tela, cm 70×55.

Una bambina è protagonista anche del profondo dipinto che Aldo Sergio ha intitolato Radici. Quest’opera parla di appartenenza e sradicamento. Quel prezioso patrimonio che è la propria identità preserva la dignità umana fintanto che la si porta con sé, nel proprio zaino, come la bambina del dipinto che ha tolto l’albero della sua storia dal vaso e se lo è caricato sulle spalle.

Una partecipazione interessante e di grande significato per il progetto è quella di Ali Hassoun, artista di origine libanese e di credo musulmano che da tempo desiderava confrontarsi con la Shoah e che ha trovato nel nostro invito l’occasione per farlo. La sensibilità di Ali e il suo accostarsi a questo grande tema in punta di piedi, provenendo da un contesto culturale ostile a Israele, si racchiude in una sua bellissima frase: “credo sia compito anche di noi artisti cercare di favorire i processi di pace”. La sua opera Don’t say goodbye rappresenta un addio che ha la speranza di un arrivederci. Una famiglia, in procinto di separarsi in vista della deportazione davanti a un treno. L’uomo ha fattezze vagamente mediorientali, forse un elemento uscito quasi inconsciamente dal tratto di Hassoun, forse un’allusione a quell’atteggiamento sovranazionale e interreligioso che mette al primo posto l’essere umano al di là di credo, bandiere e qualsiasi tipo di catalogazione e che ha contraddistinto l’approccio dell’artista a questa tematica.

Non poteva mancare in questa collettiva Trento Longaretti, un artista che ha sempre avuto molto a cuore il mondo ebraico e la Shoah. Per In absentia abbiamo selezionato due opere che parlano di miseria e di dignità, di un popolo errante che, andando incontro a un destino ignoto, che già avverte come terribile, si tiene strette le proprie tradizioni come la spiccata sensibilità musicale e il legame fra le generazioni. Nelle sue opere ci presenta una famiglia che cammina piegata in avanti, come se dovesse fronteggiare un vento fortissimo e contrario, tenendosi stretto al petto un neonato. Sullo sfondo un paesaggio astratto e apocalittico con un sole e tre lune. Nel secondo dipinto, un vecchio musicista e un bambino si voltano a guardare spaventati un uccello nero che incombe alle loro spalle come una minaccia.

I quadri di Longaretti hanno una tristezza che non diventa veramente cupa o violenta, ma ricorda piuttosto quella dimensione surreale e onirica propria dell’arte di Chagall.

Guido Finzi ha raccontato a noi la storia di sua zia Lucia, noi l’abbiamo raccontata ai nostri artisti, i nostri artisti la raccontano al loro pubblico che ne parlerà a famigliari e amici.

Su una sola cosa Hitler aveva ragione: l’arte è davvero uno strumento potente.

“In Absentia” | Museo Il Correggio – Palazzo dei Principi, Correggio (Reggio Emilia)

19 gennaio -­ 9 febbraio 2014

“Museo Il Correggio”

Palazzo dei Principi | P.zza Cavour 7, Correggio

tel. 0522 691806 | Fax 0522 633017