È ancora possibile dipingere o raccontare visivamente la montagna senza rischiare di cadere nell’oleografico o nel retorico? A rispondere affermativamente sono ben due mostre che, sebbene con sfumature diverse, raccontano le atmosfere e i colori della montagna e i riti ad essa legati. “Lassù sulle montagne”, curata da Beatrice Buscaroli alla Galleria Forni di Bologna (poi in trasferta a Cortina e al Museo di Chiusa), e “Neve”, allestita alla Galleria Nuovospazio Artecontemporanea di Piacenza, riuniscono due differenti gruppi di artisti che si cimentano con questo tema.
Da sempre, del resto, artisti, poeti e scrittori si sono avvicinati alla montagna con interesse, e spesso con amore, ma quasi sempre anche con una sorta di sacro e reverenziale rispetto, quasi fosse, il tema della bellezza e dell’imperturbabilità dei monti, uno dei pochi “rifugi” in cui poter trovare ancora pace interiore, certezze e richiami a una qualche idea di trascendenza, in un’epoca in cui le suggestioni spirituali sembrano perse nel nevrotico caos del “contemporaneo”. Viene in mente, a questo proposito, un passo di una lettera di Dino Buzzati (pubblicata da Lorenzo Viganò nel bellissimo cofanetto “I fuorilegge della montagna”, edito da Mondadori, contenente i testi e i racconti dello scrittore bellunese dedicati ai monti), nel quale l’autore di “Barnabo delle Montagne” confessa: “ora mi sembra di non poter essere felice che sulle montagne e di non desiderare che quelle”. Sembra di sentire, nelle parole di Buzzati, l’eco dell’eterna nostalgia di un luogo “altro”, diverso, più elevato, quasi il simbolo materiale del sottrarsi per un momento al mondo e alle cose terrene: la ricerca, appunto, del proprio “luogo dell’anima”, dello spirito, l’unico luogo dove è ancora possibile, davvero, “essere felici” con se stessi (e non dice anche, lo Zarathustra nicciano, la cui “saggezza selvaggia è diventata gravida su solitarie montagne”, che “immota è la mia anima e chiara, come la montagna prima del meriggio”?).

La montagna è, insomma, più di ogni altro, un luogo capace di attrarre lo sguardo degli artisti e dei poeti per la carica metaforica e simbolica che riflette e sprigiona.
“Parto titanico dei movimenti tellurici di Pangea o dimora imperturbabile degli dei”, scrive Beatrice Buscaroli a commento della mostra di Bologna, “la montagna da sempre ha esercitato un fascino sottile nei confronti di quanti ad essa si avvicinano. Una seduzione che, da sempre, ha coinvolto gli artisti, che, in età romantica, nella montagna scoprono la sublime capacità di attrarre e di respingere, di esaltare e di incutere paura. Stupore, incanto e meraviglia che si accompagnano ad un sentimento panico, come accade in Turner, Fuessli, Friedrich, Cosenz. Ruskin ne fa quasi un emblema della visionarietà artistica sulla quale convergono anche interessi scientifici. Un po’ come accade in quella reiterazione della Saint-Victoire per Cézanne.
Eppure questa visionarietà, sul finire dell’Ottocento, conduce ad una sorta di “smaterializzazione” del reale per far emergere una dimensione concettuale che pare alludere simbolicamente alle domande inevase degli uomini, al loro richiamo disperato per affrontare una condizione antropologica che la contemporaneità sembra aver irrimediabilmente complicato, come accade per Hodler, Kandinskij, Kirchner, De Nittis, De Chirico, Savinio, Morbelli, Sironi.
Fascinazioni che ancor oggi agiscono potenti sulla creatività degli artisti, o attraverso una sorta di “negazione” della capacità seduttiva della montagna (valgano i casi dell’art brut o della pop art), oppure immaginandola come veicolo in grado di “narrare” la relazione ambigua che lega l’uomo alla natura, ponendola come icona di una bellezza che rischia inesorabilmente di collassare”.
Non è strano, dunque, che anche nell’epoca della non-raffigurazione e delle grandi rivoluzioni stilistiche e linguistiche, la montagna continui a sprigionare fascino e attrarre gli artisti per la sua carica seduttiva e spirituale.
Ecco allora presentarsi, nella mostra di Bologna, la straordinaria visionarietà di Agostino Arrivabene, che nella montagna trova l’ennesimo pretesto per evocare un mondo sospeso tra antiche reminiscenze mitologiche e dimensione onirica, quasi una rappresentazione figurata del nostro inconscio più profondo; perché i paesaggi rappresentati nei suoi quadri – come ha scritto Vittorio Sgarbi – “non sono luoghi per gli uomini, o forse non lo sono più”: sono piuttosto “vasti spazi evocativi, segni di glorie perdute, memorie”, in un’eterna “oscillazione fra la luce della natura ancora abitata dagli dei e le tenebre dell’uomo”.

Ed ecco l’ambiguo gioco a rimpiattino di Luca Conca, sospeso tra immagine fotografica e immagine pittorica, tra rappresentazione paesaggistica e tensione astratta della forma (“Vorrei trovare un senso nel raffigurare oggi un paesaggio di montagna”, dice l’artista: “è bello vedere un dipinto quando vedi la pittura in sé, che non sembri un’illustrazione o una fotografia, che non sembri un quadro totalmente astratto, ma semplicemente quell’immagine dipinta utilizzando un pennello, la sua sintassi, la sua grammatica…”).
Ed ecco, ancora, i giochi ironici di Milan Kunk, con una parodistica riproposizione del celebre “I love NY”, soppiantato invece da un giocoso “I love Tirol”; e ancora il lucido realismo di Paolo Quaresima, che rappresenta la montagna per metonimia, con la dettagliata riproduzione degli strumenti utilizzati negli sport invernali. Ecco il minuzioso descrittivismo paesaggistico di Nicola Nannini e quello mimetico di Hiroyuki Masuyama, sospeso tra citazionismo colto e voluta ambiguità del mezzo linguistico.
Ma d’altra parte, anche nella mostra piacentina, ecco artisti di grande spessore e di forte consapevolezza tecnica, come Matteo Massagrande, Letizia Fornasieri, Giorgio Scalco, o scultori di grande talento, come Ettore Greco, che si cimentano col tema della neve, essa stessa metafora dell’idea di montagna.
Tra questi, spicca il lavoro pittorico di Enrico Lombardi, sospeso tra riedizione consapevole – e consapevolmente “inattuale” – di un paesaggio pre-classico, primitivo, e l’utilizzo della montagna (o del suo fantasma) come puro pretesto formale per un discorso che è tutto interno al linguaggio della pittura e alla filosofia della rappresentazione: nella costante ricerca di luoghi della mente, puri, irreali e impossibili, spesso pluristratificati e labirintici; veri e propri paradossi visivi, dei quali appare impossibile ricostruire la mappa. “La mia pittura”, dice l’artista, “si fonda sulla contraddizione: su questa ossessione per le cose remote, come diceva Hermann Melville, per il mondo nell’ora della creazione, prima che l’uomo vi abitasse, e sull’impossibilità di poterlo rappresentare. Il mio mondo è tutto aggrovigliato intorno a un nucleo di desiderio che non ha nessuna speranza, per la sua stessa natura, di essere mai soddisfatto, né consumato, né placato”.
Forse, in questo suo carattere di luogo estremo, assolutamente primitivo, antecedente all’uomo e impossibile da raccontare e forse finanche da pensare, c’è tutto il senso della montagna, con i suoi paradossi, i suoi enigmi, la sua complessità e tutto il suo ancestrale mistero rimasto tutt’ora intatto e inviolabile.
Alessandro Riva
“Lassù sulle montagne”
a cura di Beatrice Buscaroli
Galleria Forni
Via Farini 26, Bologna
Tel +39 051 268090
www.galleriaforni.com
Visibile a Bologna fino al 14 gennaio 2014, la rassegna sarà poi allestita a Cortina d’Ampezzo nelle sale della Libreria Sovilla (febbario 2014) e al Museo di Chiusa (Klausen) nel periodo estivo.
“Neve”
Galleria Nuovospazio Artecontemporanea
via Calzolai 24, Piacenza
tel. + 39 523 321922