La memoria dell’arte. Gli artisti “degenerati” nella morsa nazista

di Demetrio Paparoni (da “Il bello, il buono e il cattivo”)

Ernst Ludwig Kirchner, Autoritratto da soldato, 1915.

Nel 1933, anno in cui il Partito Nazionalsocialista andò al potere, il Ministro della Propaganda Jospeh Goebbels istituì la Camera della Cultura del Reich, un organismo formato da sette dipartimenti, ognuno dei quali si occupava di un settore specifico della cultura. Il dipartimento delle arti visive fu affidato all’architetto Eugen Hönig, sostituito nel 1936 dal pittore Adolf Ziegler, che lo diresse fino al 1943. In quegli anni in Germania fu vietato esporre opere d’avanguardia, mentre artisti, critici e direttori di musei furono sorvegliati al pari di cospiratori. (…) Nell’ottobre del 1936, (…) la sezione d’arte moderna della Nationalgalerie di Berlino fu chiusa. Nell’estate dell’anno successivo, Goebbles istituì una commissione di cinque membri, presieduta dal pittore Adolf Ziegler, cui fu affidato il compito di individuare e sequestrare presso musei e collezioni pubbliche e private le opere di artisti che non aderivano ai principi estetici dettati dal nazionalsocialismo. Nel periodo in cui questa commissione operò, vennero confiscate oltre sedicimila opere, simbolicamente destinate al rogo.

La mostra "Arte degenerata" a Berlino nel 1937.A suggellare questa politica furono due grandi mostre allestite nel 1937 a Monaco, quella della cosiddetta Entartete Kunst(Arte degenerata) e la GrosseDeutsche Kunstausstellung(Grande Rassegna di Arte germanica). Le due mostre si inaugurarono a distanza di un giorno in due sedi vicine, in modo che fosse possibile visitarle contestualmente e fare un confronto tra la grandiosità dell’arte germanica e l’assurdità e la pericolosità dell’arte degenerata. Considerando “degenerati” Bauhaus, Cubismo, Dada, Espressionismo, Fauvismo, Impressionismo, Nuova Oggettività e Surrealismo, cioè i principali movimenti artistici del primo Novecento, i nazisti riunirono nella mostra sull’arte degenerata oltre seicentocinquanta opere di centododici artisti, tra i quali Max Beckmann, Paul Cézanne, Marc Chagall, Otto Dix, Max Ernst, Lyonel Feininger, George Grosz, Raoul Hausmann, Erich Heckel, Karl Hofer, Vasilij Kandinskij, Alexander Kanoldt, Paul Klee, Elkfriede Lohse-Wächtler, Ernst Ludwig Kirchner, Oskar Kokoschka, El Lissitzky, Emil Nolde, Franz Marc, László Moholy-Nagy, Piet Mondrian, Otto Mueller, Edward Munch, Max Pechstein, Hans Richter, Oskar Schlemmer, Kurt Schwitters, Karl Schmidt-Rottluff, Vincent Van Gogh.

Contrariamente alla mostra dell’arte gradita al nazismo, quella dell’arte degenerata presentava le opere in maniera caotica per far apparire gli autori mentalmente disturbati. Per sottolineare le similitudini con quelli degli artisti “degenerati”, vennero esposti anche disegni, dipinti e sculture di malati di mente. Le opere erano inoltre accompagnate da scritte che tendevano a metterle in ridicolo e raggruppate in modo da evidenziare il motivo che le rendeva indegne di essere considerate arte: mancanza di rispetto delle regole basilari delle belle arti, offesa della religione, incitamento alla lotta di classe, propaganda marxista, vilipendio delle forze armate, assenza di principi morali, esaltazione della negritudine, idiozia assunta a modello intellettuale, matrice ebraica, visione aberrante dell’arte manifestata dagli “ismi”. “Dinanzi a queste opere”, si leggeva in catalogo, “si può solo reprimere la propria rabbia per il fatto che un popolo dignitoso come quello tedesco sia stato così brutalmente maltrattato”.

Affinché fosse inequivocabilmente chiaro il contenuto osceno delle opere, la mostra era stata vietata ai minori di diciotto anni. Il catalogo avvertiva inoltre che l’esposizione avrebbe potuto avere un effetto depressivo sui visitatori e che, per evitare traumi, erano state escluse le rappresentazioni con implicazioni sessuali, ritenute offensive per le donne. L’obiettivo era dimostrare che dietro l’arte degenerata si nascondeva il tentativo di un gruppo ristretto di ebrei e bolscevichi di imporre l’anarchia politica, complotto reso evidente dal fatto che mentre nessun artista osava parodiare le “leggende” dell’Antico Testamento, erano ricorrenti parodie dei temi religiosi legati al Cristianesimo. E ancora si accusavano gli artisti di rappresentare i soldati tedeschi come “idioti, vili, bruti, sessisti e ubriaconi”; di considerare il mondo “un grande bordello” popolato da prostitute e ruffiani; di idealizzare le prostitute paragonandole alle donne della società borghese.

George Grosz, Circe, 1927

Per creare una situazione di disagio si poteva accedere alla mostra, allestita al secondo piano dell’ex Istituto di archeologia, solo attraverso un’angusta sala. La prima opera con la quale il visitatore si trovava faccia a faccia era una grande scultura lignea di Ludwig Gies raffigurante un Cristo sofferente e contorto. Realizzata nel 1921 per commemorare i caduti della Prima guerra mondiale, la scultura proveniva dalla Cattedrale di Lubecca. I nazisti strumentalizzarono l’orrore e l’angoscia che la scultura trasmetteva nel comunicare la sofferenza dei caduti in guerra. Esponendola in modo che il visitatore trovasse la strada ostruita dalle gambe del Cristo, che piegate sporgevano abbondantemente dalla croce, i curatori dell’allestimento volevano trasferire il senso di disagio del tema trattato alla scelta estetica “malata” dell’artista. Essendo difficilmente vendibile, si pensa che il crocefisso di Gies sia stato bruciato.

Hitler non inaugurò ufficialmente la mostra, ma la visitò un giorno prima con Goebbels. Della sua visita furono anche realizzate delle riprese, diffuse nelle sale cinematografiche, e foto destinate ai giornali. Censurare le opere d’avanguardia e nel contempo presentarle al pubblico rilevava un salto di qualità nella strategia della propaganda nazista: si volevano mettere gli autori alla gogna e nello stesso tempo creare i presupposti per un vantaggioso affare economico. Solo una parte delle opere venne infatti mandata al rogo, i lavori più importanti vennero venduti in un’asta pubblica organizzata dalla Galerie Fischer di Lucerna. Si stima che l’asta abbia fruttato al Terzo Reich mezzo milione di franchi svizzeri di allora, cifra che equivale a oltre ventidue milioni di euro dei nostri giorni. Le quattromila opere che il Reich mandò al rogo nello spettacolare falò del 1939, nella sede dei pompieri di Berlino, erano prevalentemente quelle non vendibili fuori dalla Germania.

In contrapposizione all’arte delle avanguardie, che si proponeva di aprire alle innovazioni e al progresso, il Partito Nazionalsocialista teorizzava un’arte fuori dal tempo, e per questo eterna. In altre parole esso sosteneva che l’arte doveva trovare le proprie matrici negli stilemi dell’arte classica e fare sintesi delle culture che avevano formato il carattere nazionale del popolo tedesco. Questo avrebbe permesso all’arte di incarnare l’unicità germanica, considerata un valore da difendere dalle contaminazioni volute dagli ebrei e dai bolscevichi per corromperne la purezza. Muovendo dal presupposto che forma e contenuto costituiscono un’unità indivisibile e che l’arte deve servire la verità e non la realtà, si pretese che essa si esprimesse attraverso una figurazione di matrice realista, ma anche ricorrendo a figure mitologiche e neoclassiche. L’estetica nazista doveva dare forma alla perfezione di corpi privi di tensione erotica, all’unità dei nuclei familiari dalla caratteristiche ariane, all’eroismo e all’attitudine al sacrificio di soldati, contadini e operai, all’assenza di malizia della donna ariana, ossessivamente ritratta nuda, alla bellezza di paesaggi incontaminati.

Furono accusati di aver realizzato arte “degenerata” anche Franz Marc, morto durante la Prima guerra mondiale dopo essersi arruolato volontariamente per difendere la Germania, ed Emil Nolde, fedele alle idee nazionalsocialiste al punto da essere stato membro del Partito. (…) In un siffatto contesto le simpatie nazionalsocialiste di Nolde non ebbero rilevanza alcuna nella valutazione del suo lavoro da parte di Hitler e della sua corte: oltre al sequestro delle opere e all’interdizione dall’insegnamento, gli fu addirittura proibito di acquistare l’occorrente per dipingere. È diventata voce comune che, poiché temeva visite a sorpresa della Gestapo, per non essere tradito dall’odore della pittura a olio, Nolde si dedicò agli acquerelli, che chiamava “quadri non dipinti” e che fecero da base per i lavori a olio dopo la fine della guerra. Molti altri artisti subirono analogo trattamento, alcuni fuggirono all’estero, tra questi Max Beckmann. Ognuno dovette trovare la sua soluzione per continuare a dipingere. Otto Dix, per esempio, si trasferì in campagna e, abbandonati i suoi soggetti graffianti e antiborghesi, si dedicò alla pittura di paesaggi.

Ernst Ludwig Kirchner, A Group of Artists. Otto Mueller, Kirchner, Heckel,Schmidt-Rottluff.

Mentre tutto questo accadeva, Adolf Ziegler poteva dipingere, esporre e vendere indisturbato i suoi quadri. (…) Amico e consigliere del Führer per le questioni inerenti l’arte, Ziegler presiedeva la Reichskammer der bildenden Künste(Camera delle Belle Arti del Reich) ed era stato premiato nel 1936 con la più alta onorificenza del Partito, il Distintivo d’oro. Fu lui a tenere il discorso d’apertura alla mostra di Monaco sull’arte “degenerata”.

In quell’occasione egli definì le opere esposte “prodotti della follia, della spudoratezza, dell’incapacità e della degenerazione”, dimenticando di aver realizzato da giovane, con scarsi risultati, quadri d’avanguardia. (…) Ziegler si impegnò per il Partito come censore e come pittore. In quanto presidente della commissione incaricata di individuare le opere “degenerate”, firmò di suo pugno le lettere indirizzate agli artisti non graditi al regime, nelle quali, accusandoli di non contribuire al progresso della cultura tedesca, comunicava il numero di opere sequestrate e l’espulsione dalla Camera delle Belle Arti. Sempre in quelle lettere Ziegler intimava agli artisti di smettere di dipingere, sia in modo professionale sia per diletto. Al compagno di partito Nolde comunicò il sequestro di 1052 opere, a Schmidt-Rottluff di 608. Scriveva Ziegler a Nolde: “Come risulta dalla presa visione delle sue opere originali degli ultimi tempi che ci sono state recapitate, Lei è ancora oggi lontano dal patrimonio ideale del Paese sollecitato da Hitler e oggi, come già in precedenza, il suo operato non corrisponde ai requisiti richiesti per consentire l’attività artistica all’interno del Reich (…)  la escludo pertanto per scarsa affidabilità dalla Camera di Belle Arti e le proibisco con decorrenza immediata qualsiasi attività, anche secondaria, nel campo delle arti figurative”.

Nel contesto delle stragi di innocenti e delle atrocità che hanno caratterizzato gli anni in cui il Nazionalsocialismo è stato al potere, le censure e le costrizioni imposte agli artisti dalla commissione diretta da Ziegler appaiono ben poca cosa. Ziegler non ha mai pagato un vero prezzo per le sue colpe. Probabilmente non sarebbe andata così se a giudicarlo, dopo la fine della guerra, fosse stato un tribunale composto da artisti. Nessuno meglio di un artista avrebbe potuto capire la reale portata dei suoi crimini. Intervistato nel 1972, Gerhard Richter, uno dei più grandi artisti tedeschi del secondo Novecento, ha affermato: “Tutti i bambini dipingono, tutti i matti dipingono. Per me non c’è futuro se smetto di dipingere. E non perché sono malato o perché voglio guadagnarci dei soldi. Dipingere è diventata l’unica cosa che rende la mia vita possibile”.

Il brano qui riprodotto è tratto da:

Demetrio Paparoni, “Il bello, il buono e il cattivo – come la politica ha condizionato l’arte negli ultimi cento anni”

Edizioni Ponte alle Grazie, 2014, pagg. 421, euro 26.

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