Kostabi: “il segreto del successo? Essere concettuale e popolare”. Fra poco anche in un film

di Giuditta Elettra Lavinia Nidiaci

Mark Kostabi, Emotion Vortex

È uno degli artisti che hanno rotto maggiormente gli schemi, soprattutto in tema di comunicazione. Durante gli anni Ottanta, ha fatto largo uso dei mass media in modo provocatorio, addirittura mediante alcune auto-interviste, dissertando riguardo ad un’arte “strumentale” e “pratica”. Ama dare consigli agli artisti all’interno di una sua rubrica, “Ask to Mark Kostabi”, presente su Artnet.com. Ha “giocato” coi media anche tramite uno spettacolo in una TV via cavo, dal titolo “Title This”, nel quale molti Vip e noti critici d’arte gareggiano per dare un titolo alle sue opere, ricevendo un compenso. È solito però chiedere consigli sui dipinti anche ai suoi amici di Facebook, interagisce senza difficoltà con il popolo dei social, da vero “socializer”, indagando sul livello di gradimento delle sue opere ed elevando così il feedback dei non addetti ai lavori. Non fatica persino a mettersi a nudo riguardo al metodo di lavoro all’interno della sua “factory”, l’ormai mitico Kostabi World (lo studio newyorchese in cui lavorano molti assistenti, che seguendo le sue istruzioni “confezionano” le sue opere, ndr). La sua anima pop, nell’originario significato di “popular”, si traduce poi in una tela o scultura che spesso mirano ad una critica della società e dei media stessi.

Oggi, Kostabi si prepara a sbarcare anche sullo schermo: ha infatti appena girato un film, come co-protagonista, incentrato sul mondo dell’arte. Il film si chiama “My Italy”, è diretto da Bruno Colella e racconta la storia di quattro artisti (oltre allo stesso Kostabi, ci sono Krzysztof M. Bednarski, Thorsten Kirchoff e H.H. Lim) che hanno deciso di vivere stabilmente in Italia (tra i personaggi del film, non mancherà, tra gli altri, Achille Bonito Oliva che interpreta, con la verve e l’ironia che lo contraddistingue, il ruolo di se stesso).

Mark Kostabi è, insomma, davvero un personaggio a tutto tondo: oltre che artista visivo è anche comunicatore, star, attore, intellettuale, musicista, performer, secondo la migliore accezione del contemporaneo avanzato. In questa intervista esclusiva, ci racconta il suo rapporto con la comunicazione, la società di massa e i cambiamenti avvenuti nell’arte contemporanea, dalle sue prime esperienze da giovane artista nell’East Village ai “mi piace” di Facebook.

 

Durante gli anni Ottanta hai utilizzato i media per promuovere la tua arte e l’arte in generale. Come credi che la tua opera artistica sia stata favorita e successivamente influenzata dai media?

“Tutti gli artisti devono usare i media, sono essenziali per la diffusione dell’arte, noi artisti dobbiamo essere “visti”. Io stesso dipingo l’iconografia dei media, negli anni ’80 non avevamo ancora Facebook e Internet, però c’era ampio uso della tv, e conseguentemente ho dipinto molti televisori, sempre accompagnati dalle mie figure senza volto. In seguito ho visto che stava prendendo piede il fenomeno del cellulare e ho cominciato a dipingere i telefoni, dapprima grandi, poi più piccoli. Recentemente ho dipinto molte opere nelle quali si nota come l’uso dei cellulari abbia cambiato la nostra vita: per esempio, ho realizzato un quadro che ritrae una famiglia intenta nell’uso di apparecchi elettronici (quali iPad, iPhone, ecc.), e quindi “divisa” dalla tecnologia; nel quadro è raffigurato un grande televisore davanti ad un divano vuoto, e c’è un gattino che sta aspettando il ritorno della famiglia unita. Ho intitolato ironicamente questo quadro “Quality Time”, poiché questa espressione normalmente indica il tempo trascorso con le persone amate, senza distrazioni, tempo quindi prezioso. Un altro dipinto che possa esprimere questo radicale cambiamento delle nostre abitudini è sicuramente quello che ritrae quattro persone a cena ad un tavolo e ognuno sta usando il cellulare invece di parlare tra loro. Credo che questo fenomeno si possa definire “un altro modo di essere senza volto”, oggigiorno siamo insieme ma sempre distanti, poiché probabilmente in quel momento stiamo parlando con qualcun altro al telefono”.

Cosa pensi sia cambiato, dagli anni ’80 ad oggi, nel tuo modo di usare i media come veicolo per diffondere la tua arte?

“Oggigiorno posso avere più rapidamente una risposta alla mia arte, che negli anni è stata in costante dialogo con il pubblico. Quando ero studente, chiedevo spesso le opinioni di insegnanti, colleghi ed amici: anche ai miei parenti ho chiesto cosa pensassero delle mie opere; tutte queste informazioni mi hanno permesso di essere pronto a migliorarmi sempre. Nei primi anni Ottanta capitava che terminassi una nuova opera il lunedì, e io subito volevo sapere che cosa ne pensasse il pubblico: iniziavo col chiedere ad un artista che abitava nelle vicinanze che cosa pensasse del mio quadro e da lui ricevevo una piccola indicazione, il giorno dopo chiedevo l’opinione della mia gallerista e così via, dopo una settimana che avevo raccolto indicazioni finalmente avevo una chiara idea di come rapportarmi all’opera, se quindi dovessi usarla come copertina di un catalogo o come locandina per una mostra, o al contrario se l’opera meritasse un posto più “nascosto”. All’epoca era necessaria una settimana per comprendere la comunicabilità di un’opera, oggi, invece di sette giorni, bastano sette secondi; sono solito pubblicare su Facebook la foto di un mio quadro persino per ricevere suggerimenti riguardo al titolo, e in pochissimo tempo riesco ad averne molti. Tutte queste indicazioni mi sono utili anche per aspetti strettamente economici, poiché per realizzare una tiratura dell’opera (questo aspetto riguarda anche le sculture) devo essere sicuro che l’opera sia facilmente vendibile; non realizzo le mie opere solo per soldi, ma chiaramente realizzarne una tiratura è un discorso a parte, devo quindi essere certo che le opere ricevano grandi consensi da parte del pubblico. La scultura presente oggi in studio mi era già nota per il fatto di suscitare grande interesse, poiché avevo precedentemente realizzato circa dieci dipinti con lo stesso tema, e ognuno di questi era stato molto apprezzato. Le persone un po’ ciniche potrebbero definire questa mia ricerca “marketing service”, ma in via definitiva io credo che siano semplicemente modi per capire se con la tua arte stai davvero comunicando o meno”.

Mark Kostabi, Absent Minded, 2007Hai spesso esposto le tue opere in spazi “non ufficiali”, come, ad esempio, i ristoranti di lusso. Credi che l’arte abbia grande forza comunicativa anche e soprattutto al di fuori di spazi istituzionali come musei e gallerie?

“Esistono diversi tipi di artisti, ma per semplificare direi che si possono raggruppare in due grandi categorie: ci sono gli artisti elitari, come ad esempio Robert Smithson, Bruce Nauman e Jasper Johns, e ci sono gli artisti che parlano alle masse, come Keith Haring, ‪Roy Lichtenstein e Andy Warhol; io credo di far parte di entrambe le categorie, poiché ritengo il mio lavoro da un lato concettuale, dall’altro molto vendibile e comunicativo: viene richiesto anche per le copertine dei dischi, ho disegnato infatti la copertina dell’album “Use Your Illusion” dei Guns N’ Roses, e quella di “¡Adios Amigos!” dei Ramones. Ho esposto in numerosi ristoranti di lusso, ma in realtà anche in ristoranti di minor fama, generalmente cerco di non essere snob, mi piace comunicare con tutti e i miei collezionisti variano dai “VIP” a giovani innamorati che desiderano avere un mio pezzo “romantico” nella loro dimora. D’altra parte però, c’è un “prezzo” da pagare per questa disponibilità: quando abitavo nell’East Village, per esempio, mi fu chiesto di esporre le mie opere per l’inaugurazione di una nuova galleria, ma il giorno seguente anche un ristorante giapponese mi chiese di esporre dei pezzi; così, volendo accontentare entrambi, la gallerista lo scoprì e annullò l’evento della mostra, chiamandomi “la puttana dell’arte” (in seguito una critica d’arte mi definì addirittura come “la puttana numero uno del mondo dell’arte”). Ma la mia disponibilità ad esporre in spazi non convenzionali ha certamente portato anche notevoli vantaggi: ad esempio, grazie al fatto di avere esposto in un noto ristorante romano, ho avuto la commissione di una scultura in bronzo per Papa Benedetto XVI. Un altro esempio riguarda proprio il modo in cui sono arrivato a fare la copertina di “Use Your Illusion” dei Guns N’ Roses: Axl Rose, camminando su Rodeo Drive a Beverly Hills, notò le mie opere esposte in una galleria di genere volutamente “kitsch”, che commercializzava un genere d’arte non molto apprezzata dai critici dell’epoca… beh, ad Axl Rose il mio lavoro piacque talmente tanto, che decise di prendere un mio quadro come icona del loro ultimo album!”.

THE-JUNK-HAS-ARRIVED-AT-LONRitieni quindi che il pubblico, i potenziali collezionisti, possano “connettersi” più facilmente alle opere d’arte in questi luoghi “informali”?

“Bella domanda. Dipende dal tipo di opera: ad esempio non consiglierei mai a un artista di sottili astrazioni, bisognose di luci perfette, silenzio e meditazione, di esporre in un ristorante, ma nel mio caso assolutamente sì: il mio lavoro è “grafico” e immediatamente comprensibile, un Kostabi è un Kostabi anche con luci soffuse. In generale direi che dipende da che artista sei, da cosa fai, sicuramente per me può funzionare molto bene”.

Quali credi che siano i veri vantaggi di avere una factory, che tu precisamente definisci come “Kostabi World”?

“Sono cresciuto in un sobborgo di Los Angeles, nell’ambiente della classe media, che trovavo eccessivamente “tranquillo”, direi addirittura noioso e piuttosto conservatore. Sentivo quindi la necessità di fuggire da quell’ambiente perché desideravo emergere con la mia arte e con la mia musica, volevo diventare un artista ricco e famoso alla stregua di Andy Warhol, e per questo motivo mi sono trasferito a New York. Non mi sono ispirato allo stile delle opere di Warhol, ho piuttosto concentrato la mia attenzione sulla sua “attitudine” lavorativa riguardante la Factory, poiché consideravo il suo modo di lavorare davvero funzionale e proficuo, ed ero disposto a qualsiasi cosa per la fama, esclusi naturalmente i mezzi illegali. Non ho mai voluto abbracciare il graffitismo, come invece hanno fatto alcuni dei miei colleghi, poiché l’ho sempre considerato un modo di barare, come il doping nello sport. C’è la tendenza oggigiorno a idealizzare la street art in quanto trasgressiva, succede spesso che un artista, le cui opere avrebbero normalmente poco valore se paragonate a quelle di altri artisti validi che espongono nelle gallerie, diventi più ricco e famoso di quegli stessi artisti, proprio perché graffitista: io invece desideravo far carriera secondo le regole, ero anche all’epoca piuttosto timido e pauroso. Ho voluto abbattere i codici all’interno dei miei quadri, ma non avrei mai potuto violare le regole nella vita reale. In generale, riguardo al “Kostabi World”, devo dire che non ho mai amato dire bugie: la mia sincerità sul fatto di lavorare affiancato da numerosi assistenti è stata particolarmente apprezzata dai giornalisti, a cui quasi subito ho aperto le porte del mio studio. Decisi che volevo divertirmi, la mia infanzia era stata piuttosto noiosa e desideravo giocare con i media, talvolta anche esagerando: come quando avevo solo sei assistenti, e, pensando che erano tutto sommato pochi per destare scalpore, invitai alcuni dei miei amici a posare per un giornale proprio come se fossero anch’essi degli assistenti…”.

Ci puoi descrivere come, quotidianamente, si svolge il lavoro all’interno della tua factory? Come si fa a raggiungere un risultato di efficienza assoluta come quello che anima la tua “fabbrica d’arte”? 

kostabi_04“Potrei impiegare una vita a rispondere a questa domanda, considerando tutte le sue variabili, ma fornirò ai nostri lettori una breve versione. Quando mi trovo a Roma invio per l’esecuzione via e-mail i disegni ai miei assistenti di New York, talvolta con istruzioni riguardarti il colore, altre volte incoraggio loro a scegliere i colori, ma anche quando sono gli assistenti a sceglierli, solitamente fanno riferimento a “strategie di colore” di Kostabi già esistenti. Dopo aver “progettato” la tela, mi inviano un’immagine via e-mail per l’approvazione. A quel punto io posso rispondere approvando o chiedendo correzioni. Quando sono a New York, tutto questo processo avviene di persona, al terzo piano del “Kostabi World”, che attualmente si trova in un palazzo sulla Upper East Side”.

Oltre ad essere pittore e scultore eccellente, sei pianista e compositore di successo. Pensi che la tua arte e la tua musica possano influenzarsi a vicenda?

“Assolutamente si, la musica è una forma d’arte, mi piace rappresentarla nei miei quadri e mi piace creare un collegamento tra queste due “dimensioni” durante le mie esposizioni, spesso mi sono esibito suonando il piano in spazi dove ho esposto le mie opere. È capitato anche che durante alcune esibizioni livedel progetto “Kostabeat”, di cui fanno parte Tony Esposito e mio fratello Paul, dipingessi dal vivo, durante l’esecuzione dei pezzi”.

Da anni ormai sei un artista famoso in tutto il mondo. C’è però ancora un desiderio nascosto o un progetto non realizzato che vorresti compiere?

“In realtà non mi sento ancora famoso in tutto il mondo, ed è proprio questo l’obiettivo che vorrei raggiungere: credo per esempio di essere ancora sconosciuto in India: e non ti nascondo che mi piacerebbe moltissimo diventare famoso anche lì…”.