Intervista a Luca Beatrice

phpThumb_generated_thumbnailLuca Beatrice, torinese, classe 1961, è oggi considerato uno dei critici e curatori più impegnati e attivi, soprattutto nella valorizzazione della pittura e della scultura italiane (è stato il curatore, assieme a Beatrice Buscaroli, del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia del 2009). Tra i suoi libri sull’arte contemporanea, ricordiamo: Nuova Scena (con Cristiana Perrella), Milano, G. Mondadori, 1995;

  • Nuova Arte Italiana, Roma, Castelvecchi, 1998;

Dizionario della giovane arte italiana, Milano, Politi, 2003; Da che arte stai? Una storia revisionista dell’arte italiana, Milano, Rizzoli, 2010; Pop. L’artista come star, Milano, Rizzoli, 2012; SEX. Erotismi nell’arte da Courbet a YouPorn, Milano, Rizzoli, 2013.

Gli abbiamo rivolto alcune domande,  per capire da che parte sta andando, a suo giudizio, l’arte italiana.

1703783_0Uno dei tuoi libri si intitola “Da che arte stai? Una storia revisionista dell’arte italiana”. Ci spieghi perché c’è bisogno di una “revisione” della storia dell’arte in Italia?
Perché per decenni la linea ufficiale di critica militante dell’arte italiana è andata coincidendo con l’Arte Povera e i suoi derivati riconoscendo negli eventi coincisi, e immediatamente seguiti al ’68, l’unica strada percorribile dagli artisti votati così più che ad un confronto ad una omologazione di stili e vedute.

È arrivato il tempo di accettare il confronto con un diverso punto di vista. Revisionista è lo spirito che mi ha permesso di correggere, deviandolo, un pensiero per troppo tempo ritenuto l’unico con marchio di validità.

Tu parti dal 1979 come momento discriminante per la nascita di “nuovo corso” per l’arte italiana. Perché quella data? Cosa è cambiato in quegli anni?
È cambiato l’atteggiamento con cui la società italiana, partendo da un movimento tellurico proveniente dal basso, ha iniziato ad approcciarsi al mondo, una società desiderosa di una nuova vivacità e di rinnovare un fermento in realtà straniante propinato dal ‘68, grigio, arroccato al potere e tutt’altro che anticonformista. Il 1979 è l’avamposto di quei formidabili anni ottanta, è l’anno di svolta per un decennio nel quale si vuole tornare a ballare e a divertirsi dopo tante divisioni e ideologie. Tragiche peraltro.

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Quali hai individuato come le tappe più importanti, o i fenomeni di maggior rilievo, del percorso dell’arte italiana dal ’79 a oggi?
Indubbiamente la Transavanguardia, e a seguire tutti quei fenomeni che hanno riportato in auge la figurazione e la pittura del genius loci già teorizzato da ABO. Con tutti i suoi limiti è l’unico “padre” critico che possiamo rivendicare, anche se da ragazzo mi sentivo più vicino a Tondelli e alla Alinovi.

La storia del Novecento è stata contraddistinta dai movimenti, i cosiddetti “ismi”. Oggi credi che valga ancora il concetto e la formula di “movimento artistico”, o credi invece che la storia dell’arte si dipani secondo regole diverse, più individuali?
Di “ismi” ne abbiamo digeriti fin troppi, tanto da non permettere più formule di definizioni “originali” in questo senso. Certo ci sono i postmodernismi, i relazionismi, i concettualismi, ma oggi vale di più la riscrittura personale di un medium declinato secondo modalità che si differenziano per individualità più che per gruppi. L’arte, come anticipatrice dei tempi, aveva già parlato di globalità e di deframmentazione individualistiche ben prima dell’effettivo avvento dell’era globale.

Negli ultimi decenni l’arte italiana è stata messa in secondo piano a livello internazionale – con rare eccezioni, come il “caso Cattelan” -, arrivando persino all’assurdo di cancellare, per alcuni anni, il Padiglione Italia dalla più importante manifestazione nazionale, la Biennale di Venezia. Da cosa credi che nasca questo masochismo del sistema-Italia? E quali pensi siano le ricette per risollevare l’arte italiana dall’esterofilia che da decenni la contraddistingue?
Di nuovo si ritorna al concetto di globalizzazione che nei paesi dove il peso della tradizione è sempre stato vitale, come l’Italia, ha ridotto ai minimi termini l’autoconsapevolezza nazionale per scimmiottare un internazionalismo modaiolo. È l’eterno provincialismo comprovato nell’adesione ad un modello di esportazione piuttosto che di importazione, non tanto perché valido, quanto perché “così è cool”, il più delle volte senza neanche sapere cosa vuol dire “cool”.

Che ruolo ha avuto in questo contesto la rinascita di una “nuova pittura”, da te ben documentata nel libro, attorno ai grandi centri urbani italiani (la scuola torinese, l’Officina milanese, la Nuova scuola palermitana, la scena digitale a Roma)?
La risposta migliore l’ha data il collezionismo che ha sempre tenuto, e continua a farlo, in grande considerazione la pittura, nonostante il cosiddetto sistema dell’arte l’abbia sempre tenuta ai margini. Ma non lamentiamci troppo, in Italia c’è la possibilità per artisti indipendenti e liberi di continuare a fare bene il proprio mestiere, esistere e resistere. Altrove non accade.

NZOIn questi decenni il lavoro sulla rinascita dell’arte italiana ha avuto pochi e strenui difensori, spesso emarginati dai contesti museali più importanti. In quindici anni, però, molte cose sono cambiate: dalle tua storica mostra “Dodici pittori italiani” a Torino del 1995, passando per l’esperienza di Italian Factory (che già nel 2003 aveva affiancato lo striminzito Padiglione Italia di Gioni con una mostra collaterale di 35 artisti); fino al tuo Padiglione Italia del 2009, e quello che ci prospetta Sgarbi del prossimo anno, oggi sembra finalmente tirare un’altra aria. Che prospettive vedi per l’arte italiana nel contesto internazionale per il prossimo futuro?
Mi è capitato di parlare con artisti internazionali, soprattutto extraeuropei, che hanno passato lunghi periodi in Italia scoprendo con piacere il fare un’ arte meno concettuale e più strettamente “manuale”, fatta di “creazioni” più che di “intenzioni”, ritornare poi nei loro paesi d’origine e sentirsi soffocati da videoinstallazioni, web art, fotografie asettiche troppo spersonalizzate per poter bucare ilmainstream della cultura internazionale.

L’arte italiana ha già rivelato un appeal del quale era stata spodestata negli anni novanta e duemila scomparendo o quasi dalle grandi manifestazioni internazionali (Documenta a Kassel e Manifesta per fare due eclatanti esempi).

Gli artisti italiani ci sono e sono tanti e, soprattutto, stanno tornando a parlare e non la lingua d’altri, ma un loro specifico linguaggio.

Molti tuoi libri sull’arte si possono leggere anche come dei romanzi postmodern, tra mostre-luna park, aneddoti curiosi, storie bizzarre ai limiti dell’assurdo, starlettes, artisti furbastri, curatori megalomani e pseudo-professionisti del settore dai titoli altisonanti e ridicoli come cool-hunter, trend-setter, opinion maker. È questa la definitiva “cifra stilistica” dell’arte contemporanea, o credi che sia solo un periodo confuso e un po’ ridicolo, dopo il quale si tornerà a parlare finalmente di arte, di estetica e di linguaggi?
Quando si preferisce parlare piuttosto che fare, significa che qualcosa non sta andando per il verso giusto. Di creativi il mondo è pieno, di artisti meno. È chiaro che nomignoli e definizioni aiutano a confondere più che a capire, laddove sono solo lo spauracchio di un contenuto mancante. Insisto sull’importanza del fare piuttosto che del definire. Gli artisti devono riscoprire un dialogo interno al loro linguaggio e non lasciarsi inquadrare da critici appannaggio di uno star system a fine corsa.