Intervista a Alan Rankle

Intervista realizzata da Brian Sherwin

alan rankleAlan Rankle è un artista inglese, nato a Oldham, Lancashire, nel 1952. Ha studiato alla Rochdale College, School of Art (1968-70) e al Goldsmiths’ College (1970-73). È uno degli artisti della sua generazione che maggiormente ha affrontato le questioni sociali ed ambientali attraverso la pittura di paesaggio. La sua prima mostra, tenutasi all’lnstitute of Contemporary Art di Londra (1973), è stata una performance/installazione multimediale basata su Il racconto dell’lndulgenziere nei Racconti di Canterboury di Geoffrey Chaucer. Da allora lavora principalmente come pittore. Una sua mostra personale è appena stata ospitata presso la Fondazione Stelline di Milano (corso Magenta 61, tel. 02 45462411, www.stelline.it. Fino al 13 marzo 2010). Dal 15 aprile fino al 15 maggio le sue opere saranno in mostra alla First Gallery di Roma (via Margutta 14, tel. 06 3230673, info@firstgallery.it).

Qui di seguito presentiamo alcuni stralci di una sua intervista, realizzata dal critico e storico dell’arte inglese Brian Sherwin per Art Space Talk (http://www.myartspace.com/blog/2008/03/art-space-talk-alan-rankle.html).

Il tema principale di Alan Rankle è lo sviluppo della pittura di paesaggio in relazione ai cambiamenti di atteggiamento nei confronti dell’ambiente. In alcuni lavori l’artista tratta l’intera storia della pittura di paesaggio quasi come un objet trouvé, manipolando e incrociando stili e tecniche tratti da periodi storici e culture differenti, con un mescolamento, di stampo post-moderno, di arte astratta, di trompe-I’oeil e di linguaggio figurativo.

Alan, hai studiato al Rochdale College e al Goldsmiths’ College negli anni 70. Chi sono stati i tuoi docenti? Inoltre puoi dirci di più riguardo ai tuoi inizi e a chi ti ha influenzato maggiormente?
Alan Rankle: I miei primi docenti a Rochdale, Keith Chadwick e Rod Bailey, hanno avuto un a grande nfluenza sulla mia visione dell’arte come totalità delle esperienze personali. (…) Anche se erano entrambi scultori, ci hanno incoraggiato a perseguire progetti complessi, che abbracciassero l’intero spettro delle discipline artistiche – film, fotografia, pittura, disegno, scultura – provando ad acquisire competenze in ciascuna di esse. (…) È stato un periodo determinante per me, l’inizio di un nuovo modo di pensare l’arte e il ruolo dell’artista. (…) In quel periodo Gilbert & George avevano appena esordito sulla scena artistica, suscitando un grandissimo interesse. (…) In ogni caso, le influenze più significative sono state quelle dello storico dell’arte Iain Jeffrey, che aveva curato la mostra British Landscape 1860-1960 alla Hayward Gallery, e del pittore Stephen McKenna, che aveva partecipato alla cura della mostra di Caspar David Friedrich alla Tate. È stato proprio grazie a loro che ho cominciato a capire che esisteva una tradizione nella pittura di paesaggio che poteva essere sovvertita ed ampliata, e non soltanto replicata pewdissequamente.

Alan, in passato tu hai anche lavorato come restauratore. Puoi dirci che compiti avevi e in che modo questa esperienza ha influenzato ii tuo lavoro? Suppongo che, lavorando in questo settore, avrai imparato molto sui materiali e sulla loro interazione reciproca.
Pur avendo avuto delle esperienze importanti al Rochdale e al Goldsmiths, sono uscito da lì con l’impressione di non sapere praticamente niente riguardo alla pratica pittorica. Era come se nelle scuole d’arte ci fosse un gap in quella che un tempo era stata la tradizione orale. Alla fine, studiando i quadri alla National Gallery, mi sono reso conto che nel mondo del restauro si conservavano ancora molte conoscenze sulla tecnica pittorica dei grandi maestri: per questo ho iniziato dapprima a frequentare i laboratori di restauro, poi a lavorare per loro, così come ho fatto con laboratori di doratura, mercanti d’arte antica, insomma chiunque potesse aiutarmi a capire l’arte in tutta la sua ampiezza. (…) La cosa straordinaria per me, in quel periodo, era la possibilità di avere nel mio studio delle opere originali di artisti come Turner o De Wint per mesi e mesi. Mi ha permesso di capire come una grande opera d’arte, oltre all’impatto che può produrre di primo acchitto, si rivela anche piano piano, nel tempo, in maniera quasi interattiva – ed è così che ho cominciato a desiderare che venissero considerati i miei lavori.

Nelle tue opere crei dei paesaggi. Tuttavia li ricrei, per così dire, “con parole tue”. Questi paesaggi contengono degli aspetti della pittura di paesaggio tradizionale, ma tu ne cambi anche le regole per dare loro un’aria più contemporanea. Negli anni hai infranto queste regole sempre più, mescolando aspetti del paesaggio naturale con altri provenienti dalla street art, come ad esempio nel quadro Strange Territory-Fraud. Puoi spiegarci da che cosa partono questi lavori?
Il mio lavoro esprime il concetto di una tradizione in continua evoluzione che porta dei cambiamenti nel nostro modo di guardare a noi stessi e all’ambiente. È un concetto importante. Per me riguarda anche la ridefinizione di quello che “rubiamo” ai diversi periodi storici e alle altre culture come modo di interpretare l’esperienza contemporanea. All’incirca nel 1975 ho iniziato ad interessarmi della pittura del XVII secolo: olandese, italiana, cinese, a partire da Ruisdael, Claude Lorrain, Shih-Tao. Per me questo periodo, durante il quale la pittura di paesaggio in particolare ha iniziato a liberarsi dal giogo dello Stato e della religione, ha segnato l’inizio dell’era moderna. Ovviamente da allora ci sono stati moltissimi artisti straordinari che hanno sviluppato aspetti della pittura di paesaggio ancora inesplorati. Prima e dopo Turner, per esempio, ci sono grandi differenze nel modo in cui le persone guardavano all’ambiente naturale intorno a loro. E così passando per Sargeant, Whistler e fino ai giorni nostri. La cosa da tenere in mente è che, quando si aderisce al modo di guardare di Turner, non si deve però mai perdere d’occhio Claude Lorrain. E se anche si segue Whistler, non si deve abbandonare Turner. Se ci si lascia suggestionare da Gerhard Richter e da Anselm Kiefer, c’è però anche sempre Max Ernst. Gli stili hanno anche un’evoluzione laterale, oltre a quella lineare. I lavori che hai citato, inclusi Fraud, Bloody e Fuck Yo, appartengono alla serie Strange Territory, nella quale il punto di partenza è l’interazione tra la natura “addomesticata” – l’architettura, i parchi, i giardini – e il fenomeno dei graffiti nelle città. È un lavoro che parla dell’alienazione, del fatto di non sentirsi parte della società in cui si vive, ma anche dell’essere stranieri in un paese straniero e dell’appropriazione del potere. È un progetto in corso che sto anche sviluppando sotto forma di film e di testo.

Alan, credi che gli artisti dovrebbero sforzarsi di affrontare, a livello visivo, i problemi ambientali (ed altri argomenti del genere) nei loro lavori? È dovere di un artista essere impegnato politicamente, spingere per il cambiamento, avere a che fare con temi che potrebbero far cambiare idea o aprire la mente alle persone? Come la pensi al riguardo?
Beh, io non posso dire quello che un artista dovrebbe o non dovrebbe fare. Per me, le problematiche sociali e politiche sono parte integrante dell’ambiente in cui vivo, come il vento che soffia nelle brughiere, o una lattina in un fiume. Credo che per un artista sia importante cercare di documentare e rappresentare il più possibile il suo punto di vista su ciò che accade intorno a lui. Detto questo, ci sono sempre temi cruciali di cui parlare. L’arte può contribuire al dibattito in vari modi, che non siano quelli della semplice dialettica politica o del reportage. Si pensi all’impatto diFinlandia di Sibelius o Guernica di Picasso o Cleaning the House di Marina Abramovic. (…)

È stato detto che tu prendi la storia della pittura di paesaggio e la usi come se fosse un object trouvé. Sei d’accordo con questa affermazione? Hai anche detto che “gli stili sono simboli del modo in cui possiamo attirare l’attenzione”; puoi spiegare meglio questa tua frase?
La nozione di object trouvé, di ready made, è stata centrale per l’avanguardia artistica a partire da Dada e dal Surrealismo; eppure questa logica rimanda a un altro concetto, quello dell’appropriazione, che risale a molto più indietro. Semplicemente ragionare sulla forza dirompente che ha avuto, nel corso della storia, lo stile di Claude Lorrain, o di Ruisdael, e appropriarsene con lo stesso riguardo (o con la mancanza di riguardo) con cui Antoni Tàpies raccoglierebbe ed userebbe un oggetto d’uso comune come un materasso, è esattamente quello che, a suo tempo, ha fatto Turner. Non c’è alcuna differenza. Per me questo è il vero scopo della storia dell’arte per un artista. Ouesto è, ad esempio, il senso dell’Arte Povera, e altrettanti esempi si potrebbero fare nel campo della musica. In quest’ottica si potrebbero considerare Bob Dylan o Robert Plant in relazione alla musica folk. Ouesto è il modo in cui lavora la “tradizione”. L’importante è che l’artista acceda con qualsiasi mezzo all’inconscio e a quella che Alighiero Boetti chiamava “la psiche collettiva della natura”. Quando guardiamo un’opera d’arte conosciamo il mondo dal punto di vista di quello ‘stile’. Concentriamo la nostra attenzione in un certo modo per far sì che l’opera d’arte funzioni. Giustapporre elementi di periodi e culture diversi per me è un modo di creare una nuova narrativa. Ciò che è veramente inaspettato nell’arte, sfida la percezione abituale. Eppure spesso molta arte, anche quella ‘progressista’, opera nell’ambito di una cornice prevedibile per il pubblico. (…) Il mio lavoro consiste nel provare a interrompere questo processo automatico, o almeno a renderlo più difficile. Le mie opere recenti riguardano la percezione e la consapevolezza, e il nostro modo di percepire il paesaggio nella società di oggi. In dipinti come Landscape with Electrostatic c’è una sorta di conflitto dell’immaginario, un pastiche della pittura di paesaggio del Seicento viene ‘interrotto’ da un modo più gestuale di dipingere la natura, da elementi di faux-realism e da citazioni tratte dalle illustrazioni botaniche dell’Ottocento. L’idea è quella di creare un’opera multiforme, che sottolinei che la natura ha un passato e un futuro osservabili nel presente.

Essendo gli stili degli emblemi del nostro modo di focalizzare l’attenzione, voglio che lo spettatore oscilli da una reazione intellettuale, ad una emotiva, passando per quella viscerale. Queste opere hanno a che fare con l’identità della natura e con la nostra consapevolezza. Landscape with Electrostatic potrebbe riferirsi alle radiazioni che inquinano l’ambiente, ma potrebbe anche riferirsi al ‘chiacchiericcio della mente’ che i buddisti vogliono che sia zittito per aumentare la percezione ed avere accesso ad una visione obiettiva della realtà.

Perché hai deciso di intraprendere questa strada con le tue opere? Ti ricordi la prima volta che hai pensato ‘È questo quello che voglio fare’?
Fin dagli anni Settanta ero sicuro di voler dipingere, e che la pittura avrebbe “raccontato” tutto il mio universo – luoghi, persone, ricordi, speranze, paure, ansie… il mio obiettivo era quello di lavorare con la pittura di paesaggio come Francis Bacon aveva lavorato con le figure e con i ritratti. Avendo già allora capito quanto grande ed importante fosse stata la pittura di paesaggio in passato, sentivo che il genere aveva bisogno di essere rivitalizzato, e riportato alla ribalta come un soggetto cruciale per il presente. Volevo fondere la potenza e la profondità della pittura di paesaggio classica con l’energia spontanea dell’espressionismo astratto. Ero anche molto interessato all’uso simbolico del segno presente in certe opere cinesi. Per ciò che mi riguardava, a 23 anni, questa era la cosa più forte che si potesse fare. Mi indispondeva il fatto che una foto di Hamish Fulton o un’opera di Richard Long fossero accettate come l’unica possibile arte di paesaggio, quando la stessa pittura di paesaggio era stata messa in un angolo e lasciata nelle mani incerte dei vecchi pittori accademici o dei pittori della domenica. Così decisi che avrei cambiato questa situazione. (…)

Puoi spiegarci in maniera più approfondita il tuo metodo di lavoro? Quanto prepari un’opera? Fai degli schizzi preliminari? Ti costruisci una mappa mentale del paesaggio?
La preparazione delle mie opere è negli sketch-book. Prendo molti appunti, sia a parole che per immagini, mentre sono in viaggio. Davvero dappertutto. Alla Gare du Nord, nelle brughiere dello Yorkshire, in un caffè a Soho. Lavoro particolarmente bene durante i viaggi nella mia casa estiva a Rørvig. Le idee spesso le sviluppo anche parlando con i miei amici, familiari e collaboratorl, specialmente se sto lavorando su un video o su un testo. Per quanto riguarda i dipinti su larga scala, le mostre e i progetti architettonici, c’è bisogno invece di programmazione, di schizzi e di discussioni. Come ho già detto tendo ad usare i video e le installazioni come un modo per elaborare le idee. Nel mio studio di Copenaghen lavoro da solo, elaborando studi, piccoli lavori e testi. A St. Leoncrd on Sea, creo tutti i miei dipinti più grandi con l’aiuto della mia assistente e collaooratrice Angela Young e con altri artisti che invito per contribuire ad alcune opere. (…)

Alan, Quali artisti ti hanno influenzato? C’è un particolare periodo della storia dell’arte che ti ispira?
Sono stato influenzato da molti artisti e periodi storici, tutti documentabili e rintracciabili nelle mie opere. Dal punto di vista pratico, ho guadagnato molto solo guardando le opere di Michael Andrews, Francis Bacon e Bruce Kurland. Per quanto riguarda l’ispirazione, cosa ben diversa dall’influenza, sono sempre stato attratto dai grandi pittori gestuali. Mi piace anche l’energia pura di alcuni artisti autodidatti come Chu-Ta, Don Van Vliet e Per Kirkeby. Van Vliet è probabilmente il mio artista outsider preferito di sempre. Poi ci sono alcuni artisti molto raffinati dal punto di vista formale, ma che hanno conservato la capacità di rimanere legati a una forza promordiale e viscerale, a cominciare da Antoni Tapiès; e poi Wilhelm de Kooning, ovviamente; e ancora Cecily Brown, o Julian Schnabel e Ornulf Opdahl. Conosci le opere di Chloe Piene? È una disegnatrice straordinaria. (…)