di Alessandro Riva
Una nuova generazione di artisti è cresciuta, in Italia, in questo ultimo decennio. Si tratta di artisti appararentemente diversi tra loro: alcuni usano la fotografia, altri il video, altri la pittura, altri utilizzano invece linguaggi meticci, rimescolando materiali provenienti da ambiti diversi rispetto al bacino tradizionale di cui si nutre la storia dell’arte, come il tessuto, la carta, o la colla industriale; altri ancora utilizzano il linguaggio della street art, dialogando direttamente con il grande pubblico delle metropoli. Eppure, si respira un’aria comune in questi artisti.
La nuova generazione di artisti che occupa ora la parte più interessante della scena artistica in Italia è composta da artisti che hanno nel loro Dna la lezione delle avanguardie storiche, quella della Pop Art e del primo graffitismo storico di Keith Haring e Basquiat, la capacità di sintesi estetica della migliore fotografia di moda, la grande tradizione del cinema italiano, da Fellini a Pasolini, e ancora la sofisticatezza dei pionieri del design e la semplicità di comunicazione dei pubblicitari.
Una generazione disincantata e “aperta”, che ha fatto naturalmente suoi gli elementi, i linguaggi e la pratica della storia delle avanguardie, ma che nel contempo è anche l’erede naturale della cultura iperpopolare oggi diffusa ovunque nel mondo, dall’Occidente alle più sperdute lande orientali: è figlia dei fumetti manga e del cinema di genere, dell’immaginario televisivo e pubblicitario come ovvi e immediati punti di riferimento estetici e culturali.
Una generazione che si è definitivamente lasciata alle spalle lo snobismo degli artisti “colti” e concettuali per dilagare nelle strade, sui muri, in televisione e nelle vetrine dei negozi, nelle cartolerie o negli outlet, senza gerarchie né complessi d’inferiorità. Una generazione che si serve indistintamente di stikers e di bombolette, di video diffusi via internet e di immagini postate sui social metwork, di foto e di immagini dipinte sui muri delle città, di manifesti e di spillette, di opere d’arte e di gadget, di contaminazioni con la pratica pubblicitaria, con il cinema o la televisione senza complessi di colpa né paura di scadere in eccessive semplificazioni, senza intrupparsi in scuole o gruppi precostituiti, senza porsi il problema di appartenere o meno all’arte “di ricerca” o a quella cosidetta commerciale.
Ė la cosiddetta “generazione Pop Up”, termine da me coniato nel 2007, in occasione di “Street Art Sweet Art – dalla cultura Hip Hop alla Generazione Pop Up”, prima grande esposizione pubblica dedicata alla street art in Italia. Il termine Pop Up (che fa pensare a un’estensione naturale della tradizione pop, ma che, come suggerisce il verbo to pop up, appare e scompare all’improvviso, dove meno te l’aspetti, fiorisce e si delinea in maniere fulminea e inaspettata, con la tecnica della guerriglia urbana ma anche quella dolcedella seduzione pubblicitaria), è diventato quindi, col tempo, il marchio di fabbrica di una vera e propria nuova scuola artistica, un nuovo movimento, entrato ormai di diritto nel sistema artistico, non solo italiano: tant’è vero che l’etichetta “Pop Up” è stato applicata già numerose volte in Italia, negli ultimi anni, per descrivere una generazione di artisti che si muove nel sistema dell’arte in modo innovativo e disincantato, fuori da qualsiasi schema, abituata ad applicare la propria creatività nelle pubblicità, sulle copertine di dischi, sui manifesti, nelle strade e nell’abbigliamento, ma anche in strada e dovunque le capiti l’occasione di farlo, disposta a servirsi del proprio know-how in maniera non convenzionale e al di fuori alle regole del mercato e della mercificazione diffusa. Una generazione che ha ormai superato da tempo, nonostante la distrazione e le resistenze intelletuali della maggior parte dei cosiddetti curatori e critici d’arte, le categorie ormai obsolete che un tempo dividevano la street art dall’arte “da galleria”, le pratiche artistiche più “radicali” e quelle “tradizionali”, il lavoro sociale sul territorio e la penetrazione nel sistema artistico, la comunicazione virale attraverso i social network e la diffusione materiale del lavoro attraverso viaggi, residenze artistiche, pratica comune con altri artisti sparsi in giro per il mondo.
È nata così, dalle ceneri delle vecchie divisioni in categorie che hanno perso la loro stessa ragion d’essere, una vera forma d’arte rivoluzionaria, rizomatica, virale: la Rivoluzione Pop Up.
Una rivoluzione portata avanti da una generazione di artisti che praticano il lavoro artistico con naturalezza e con divertimento, senza complessi di colpa né paura di scadere in eccessive semplificazioni, senza porsi il problema di appartenere o meno all’ambito della street art o all’arte “museale”, all’arte d’avanguardia o a quella “tradizionale”, alle categorie del “concettuale” o del “commerciale”. Mescolando e scambiandosi ruoli, dribblando divisioni e rifiutando etichette, superando barriere tra ambiti differenti, ruoli professionali, linguaggi e pratiche culturali.
Così, in maniera naturale, autonoma, esplosiva, senza padri-padroni né direttive estetiche imposte dall’alto, una nuova generazione di artisti è nata, è cresciuta, si è moltiplicata, ha fatto scuola anche tra gli artisti più giovani. Ha mescolato sapientemente i linguaggi più diversi, ha unito, mixato, miscelato selvaggiamente pratiche di street art e ricerca artistica, astrazione e figurazione, concettuale e pop, classicità e avanguardia, imparando a slittare, come il surfista sulle cresta dell’onda più alta, tra sperimentazione e comunicazione, tra giocosità e invenzione, tra divertimento e profondità concettuale.
È la generazione Pop Up, un nuovo modo di vivere l’arte, una rivoluzione profonda, virale, dinamica, che, piaccia o no a chi ancora non se n’è accorto, colpisce al cuore il senso stesso del fare arte, oggi, nel mondo.
Pop Up Italian Show
a cura diAlessandro Riva
Hubei Museum of Art – Wuhan, China
21 novembre 2014 – 1 febbraio 2015