Il Paradiso perduto di Jiang Heng. Sospeso tra malinconia e incertezza esistenziale

di Alessandro Riva

L’appropriazione, da parte degli artisti contemporanei, di icone ed immagini provenienti dall’universo dei cartoon è stato un fenomeno che ha caratterizzato un’intera generazione di artisti, fin dai primi anni Novanta, attraversando trasversalmente l’arte asiatica (in Cina, con la cosiddetta “Cartoon Generation”, e in Giappone, con la “Superflat Generation” di Murakami e Nara), ma anche il continente americano e quello europeo. In Italia, esattamente com’è avvenuto in Cina con la “Cartoon Generation”, si è parlato fin dalla metà degli anni Novanta di una “generazione Disney”, per definire quell’area di artisti che ha saputo mescolare con intelligenza, ironia e spesso grande raffinatezza stilistica elementi provenienti dalla tradizione pittorica classica con immagini e charactersprelevati dal mondo dei media e dei cartoon. Il fenomeno, che ha attraverso l’arte contemporanea ma ha influenzato anche altre forme espressive, come ad esempio il cinema, non è stato solo un esperimento isolato e circoscritto agli anni Novanta, ma un cambiamento di prospettiva e di linguaggio che ha attraversato tutta l’arte e, in qualche maniera, tutte le forme espressive della contemporaneità più avanzata.

L’opera di Jiang Heng è perfettamente inseribile, con caratteri di grande autenticità, all’interno di questo discorso. Benché si serva di un metodo antico come quello pittorico, che in Cina vanta una grande tradizione di tecnica accademica, Jiang Heng ha scelto di utilizzare uno stile assolutamente e volutamente anti-accademico, che ha i suoi referenti immediati proprio nel fumetto, nell’illustrazione popolare e conseguentemente delle chiare relazioni visive e concettuali con la linea Pop e Neo Pop dell’arte internazionale.

Fin dai quadri degli anni Novanta, Jiang Heng ha riprodotto, come figura centrale dei suoi quadri, la fisionomia standardizzata delle ragazze figlie del consumismo diffuso ormai ovunque, in Occidente come in Oriente: protagoniste dei suoi quadri erano fin dall’inizio quelle piccole dee pagane che fanno quotidianamente la loro comparsa dai manifesti, dagli spettacoli televisivi per adolescenti, dai cartoni, ma anche nei milioni di foto postate ogni giorno sui social network come un immenso e folle spettacolo del proprio presente e della propria vita trasformata in un eterno set cinematografico o televisivo. L’artista ha così colto il nucleo fondante della nuova società dello “spettacolo integrato” (questo “cattivo sogno della società occidentale”, come l’ha chiamato con straordinaria preveggenza Guy Débord fin dagli anni Sessanta, ormai dilagato da molto tempo anche in Oriente), ravvisabile nella standardizzazione forzata dei consumi, dei bisogni, degli stili di vita, insieme al mito di un’eterna adolescenza destinata a non finire mai, di cui la bambina-bambola, lolita innocente e tuttavia già aperta alle capacità seduttive dello sguardo, dei movimenti, dell’abbigliamento, è il simbolo perfetto, cristallino, a un tempo onnipresente e vicinissimo a noi eppure fatalmente inaccessibile, poiché a chiunque – eccetto che a chi si trova a viverla in questo stesso e pur brevissimo istante – la stessa adolescenza è preclusa per sempre, e con lei i suoi sogni, la sua freschezza, il suo carico di speranza e di sottile malinconia, che sfocia a volte nella più cupa malinconia o disperazione.

In questa idea di passaggio, e di incertezza sul proprio ruolo, c’è appunto il senso stesso della nuova identità di una generazione di giovani ragazze che hanno assunto il ruolo, in Occidente come in Oriente, di simbolo stesso di un’intera epoca: un’età (e un momento) di incertezza, quasi il simbolo di un tempo fatalmente fluido, sdrucciolevole, incerto. E proprio qui, nella chiave del momento di passaggio da un’età all’altra, con la conseguente dose di incertezza e di inquietudine che tali momenti sempre comportano, c’è la chiave per comprendere il lavoro di Jiang Heng. È proprio l’incertezza, infatti, l’inquietudine e l’indeterminatezza che costituiscono il cuore della cosiddetta civiltà postmoderna, caratterizzata dalla perdita di quell’ottimismo della ragione che ha contraddistinto invece il periodo precedente, seguito dalla nascita delle grandi ideologie col loro carico di tragedie, ma anche di speranze e di uno sguardo limpido, aperto e fiducioso sul futuro. Se la società moderna era cresciuta sulla fiducia nel progresso, infatti, quella postmoderna è diventata invece la società del “rischio” e dell’incertezza per antonomasia. Paure riguardanti il futuro, la contaminazione nucleare, la distruzione stessa del pianeta, la perdita delle risorse energetiche, la fine del benessere, la contaminazione alimentare, gli stessi ruoli identitari, famigliari e sessuali, e poi carestie, guerre, rivoluzioni, scontri etnici, terrorismo, biotecnologie sempre più avanzate che mettono in crisi le nostre certezze acquisite… la società del consumo, della finanza e del capitalismo avanzato e incontrollato, non avendo più certezze ideologiche a cui far riferimento, non fa che agitarsi sempre più in mezzo a drammatiche incertezze, mascherate dal sorriso ottimistico delle favolose ragazze-bambine che occhieggiano dagli schermi televisivi e delle pubblicità stradali.

Il lavoro di Jiang Heng, pur mostrandoci innocenti bambole-bambine immerse in un “paradiso perduto” di fiori e di natura incontaminata, finisce proprio per ricordarci, per contrasto, l’incertezza del tempo che ci troviamo a vivere. La loro fisionomia forzatamente standardizzata ci ricorda l’artificialità della condizione dell’uomo nell’epoca del post-umano. Non a caso, per alcuni anni è proprio la “Barbie”, la celebre bambola prodotta dalla Mattel, a diventare protagonista assoluta dei quadri dell’artista: bambola tanto “perfetta” da apparire insieme verosimile, perché creata in un corpo da modella e abbigliata in vestiti alla moda, e tuttavia impossibile da eguagliare (è cronaca che una donna americana si sia nevroticamente sottoposta a innumerevoli interventi chirurgici per cercare inutilmente di imitarne le fattezze), Barbie è il simbolo di un’epoca che cerca nella bellezza estetica impeccabile ai limiti dell’impossibile di una giovinezza eterna la propria soluzione a una profonda crisi d’identità seguita alle certezze del moderno.

Ma, come dietro ogni maschera di clown s’intravede un’ombra di malinconia, anche dietro la sintetica e perfetta bellezza artificiale delle leggiadre bamboline immerse nei fiori di Jiang Heng fa capolino l’ombra del dramma incombente sulla società del consumismo avanzato. Come il lifting con cui tante donne occidentali tendono a nascondere l’invecchiamento del loro corpo non può mascherare la nevrosi che fatalmente le attanaglia, e che lo stesso tentativo di fermare artificialmente il flusso del tempo drammaticamente rivela, così il trionfante ottimismo che le immagini pubblicitarie ci fanno piovere addosso quotidianamente non possono nascondere la profonda crisi di senso e di valori che una società votata unicamente al consumo nasconde.

Ecco, allora, che il lavoro di Jiang Heng negli ultimi anni si fa più esplicito, più diretto, più stringente: le sue bambole immerse nei suoi fiori sono inevitabilmente affette da una sorta di cupa malinconia esistenziale, la morte e la tragedia sembrano volerle ghermire ad ogni passo.

Altri protagonisti, drammaticamente inanimati, vengono a dominare la scena dei quadri dell’artista. Immerse in paesaggi fantastici o in un nugolo di farfalle svolazzanti, immense pillole giganti, simboli della malattia organica degli anni Duemila (quella nostra nevrosi di uomini persi in un mondo e in un tempo che non offre più alcuna certezza esistenziale né alcun possibile ristoro in un possibile futuro ultraterreno), diventano allora il feticcio ideale cui ricorrere per lenire il nostro male di vivere, come “oggetti sostitutivi”, per dirla con Freud, di una nevrosi che non può più essere curata da nessuna ideologia. E così il teschio, questo simbolo non a caso tornato fortemente in auge nella scena artistica contemporanea, ritorna ad occupare la scena dei dipinti di Jiang Heng, che diventano così delle straordinarie e gioiose “Vanitas” contemporanee, dei Memento moridell’epoca moderna. Nascosti e mimetizzati tra i fiori, i teschi e le pillole si nascondono, nei quadri più recenti di Jiang Heng, dietro un’apparente giocosità e una felicissima ansia decorativa, così come la tragedia di senso dell’epoca contemporanea è costantemente celata dietro strati e strati di belletto, di trucco, di pubblicità invasive e di sorrisi artificiali spacciatici da milioni di schermi in ogni istante della nostra vita.

I teschi e le pillole dei nuovi quadri di Jiang Heng rivestono lo stesso ruolo che rivestivano, e rivestono, le sue bambole: oggetti decorativi, appaganti, piacevolmente artificiali e seducenti, e tuttavia sottilmente e drammaticamente inquietanti.

Il teschio di Jiang Heng, simbolicamente mimetizzato tra i fiori, anch’esso allo stesso tempo affabile e spaventoso, rappresenta perfettamente la duplice, ambivalente e contraddittoria percezione che l’uomo della postmodernità può avere circa la propria incidenza nell’ordine della totalità della storia e dell’eterno e immutabile movimento dell’universo stesso: un astro passeggero, un momento solo di euforia tra la nascita e la morte; e spiega, parimenti, il modo euforico, ansioso, nevrotico con cui l’individuo postmoderno vive il senso di frammentata marginalità nel grande caos di una storia che sembra aver perduto per sempre il suo sviluppo lineare e positivo.

Jiang Heng | Highway to Hell

Venezia, Palazzo Michiel

a cura di Ji Shaofeng e Ilaria Bonacossa

Evento collaterale della 56. Esposizione Internazionale d’Arte – la Biennale di Venezia

fino al 22 Novembre 2015