di Alessandro Riva
Una mattina mi ha telefonato Girolamo Ciulla. Mi ha detto: “Vieni a prendere il caffè al bar? Ho una cosa da mostrarti”, ha aggiunto dopo un momento. “Un reperto ritrovato”.
Eravamo a Pietrasanta. Io mi sono messo un paio di calzoni e una camicia, e sono sceso in strada.
Un reperto?, ho pensato. Cos’avrà mai trovato? Forse un pezzo di scultura etrusca, nascosta sotto un metro di terra, come quegli archeologi dilettanti baciati dalla dea fortuna un paio di secoli fa?
M’è venuto da pensare a quando anch’io, da giovane, in Toscana (all’epoca studiavo lettere classiche, ed ero innamorato d’ogni cosa che odorasse d’antichità), avevo sognato di trovare un qualcosina − che so, un braccio, un naso, anche solo un frammento di vasetto etrusco, sotto qualche metro di terra. Invece niente. Macché! Solo sudare, sotto il sole, e dar di vanga.
C’era lo stesso sole caldo e abbacinante, quel mattino sulla piazza di Pietrasanta. Neanche l’ombra di un filo d’ombra, come nelle peggiori estati siciliane.
E infatti al bar c’era proprio lui, Girolamo, che della Sicilia s’è portato dietro tutto, modi di fare, sguardi, la lentezza sorniona e cavernosa, nonostante gli anni e passa che ha passato all’ombra delle Apuane.
Al bar, dunque, in quella piazza dove tutto sembra muoversi lento e rarefatto come in un romanzo di Simenon, Girolamo ha tirato fuori dalla tasca un vecchio foglio spiegazzato e stinto, e mi ha detto: “Guarda qui. È un testo che mi ha scritto Soavi qualche anno fa. L’ho ritrovato ieri sera, sotto una pila di libri”.
Io ho guardato, e letto: “In prima fila i coccodrilli quindi, l’asino, quindi la capra, il rinoceronte…”.
Come non riconoscere al primo sguardo la prosa di Soavi? “…quindi l’autoritratto, cioè l’Ariete, con sulla testa un Partenone e, infine, Cerere…”.
E poi quelle annotazioni biografiche, buttate là, così, tra un pezzo di bravura e uno svolazzo lirico: “Ho studiato malamente il latino e, in fondo, ho studiato malamente tutto quanto vedevo, perché non avevo la minima voglia di studiare, esclusa l’ora di ginnastica dove sembrava che avessi le ali ai piedi…”.
Quel suo andare dritto al punto e poi scartare di lato, con finta distrazione, con la nonchalance di chi possa permettersi qualsiasi tipo di divagazione, e svolazzo, perché sa che alla fine il suo racconto filerà via liscio e lineare come un tiro di fioretto!
E così, gli ho chiesto, hai ritrovato un testo di Soavi?
“Sì, un testo. Inedito”, mi ha detto, raggiante.
Il testo, però, non era più tanto raggiante. Stampato su carta termica, tendeva a sbiadire. Si stava scolorendo come se fosse stato scritto due o tremila anni fa. L’ho guardato. Ho guardato tutto quel sole, là fuori – il sole di Sicilia importato a Pietrasanta apposta per Girolamo, perché, dopotutto, come avrebbe fatto lui, siciliano di Caltanissetta, a sopportare di vivere in un luogo senza il sole della sua Sicilia? – e ho avuto l’impressione, anzi la certezza che, se l’avessimo lasciato ancora un po’ all’aria aperta, sotto quel solleone, entro un paio d’ore al posto di quel testo ci saremmo trovati in mano nient’altro che un foglio bianco.
“La carta termica”, ho detto a Girolamo, “sta scolorendo. Bisogna ribatterlo al più presto. Finché si riesce ancora a leggere” (e difatti, alcune parole cominciavano già a non leggersi più correttamente).
“Me l’ha mandato Giorgio, via fax”, ha detto Girolamo, come per scusarsi; e, per un momento, io ho pensato davvero che, anche da lassù, dove si troverà ora, nel Paradiso degli amanti della buona pittura e dell’ottima scultura (giacché dev’essere proprio quello il posto nel quale dev’essersi scavato ora il suo angolino, per trascorrere il suo tempo, in compagnia dei suoi amati Balthus, e Giacometti, e Sutherland, e tanti altri pittori e scultori di cui ha amato svisceratamente le opere quand’era in vita), beh, per un momento, dicevo, ho pensato che, anche da lassù, deve aver trovato il modo di mandare un fax, per far avere a Ciulla l’ultimo testo che non era riuscito a dargli in tempo!
Poi Girolamo mi ha riscosso dalle mie fantasticherie.
“Era venuto qua, un mattino, a trovarmi, in studio. Poi è tornato a Monte Marcello, dove aveva la casa. Il mattino dopo, alle 7, mi chiama al telefono. ‘Ho scritto un testo’, mi ha detto. ‘te lo mando via fax’. Dopo un’oretta, ecco arrivare il suo fax. Era sceso in paese, al bar, apposta per mandarmi questo fax! Purtroppo, non avevo avuto ancora occasione di pubblicarlo, fino ad ora. E così il testo è rimasto a casa mia, sotto a una pila di libri”.
Non ha ancora finito di raccontare, che io già comincio a fantasticare. Soavi, lo studio di Ciulla a Pietrasanta… tutto quel sole, che batte sulle pietre e le rende roventi… e quei suoi coccodrilli, che sembrano abitare questi luoghi da sempre! Come antichi reperti, potrebbero forse, anche loro, saltare un giorno fuori da un mucchietto di terra, alzare la testa, risvegliarsi, e…
D’un tratto, quell’idea balzana, che Soavi abbia battuto un colpo, dal suo Paradiso degli amanti della buona pittura e dell’ottima scultura, per farci avere quel suo piccolo, sbiadito fax, non mi sembra in fondo più così balzana.
Che mi sia beccato un colpo di sole, in quel tragitto tra la mia casa e il bar?
Eppure, eppure… non parla, Soavi, in quel suo testo, principalmente di Cerere, la dea delle messi e della fertilità? “…ed ecco, finalmente, apparire Cerere. (…) Cerere è la dea delle messi, quindi associata al culto della Terra Madre ed è nei paraggi di Cerere che ho visto la dea che sognavo, per lei, che avesse un volto, un volto sovrano circondato dalle messi, cioè dal grano sorgente di vita…”.
Già: di vita. Di vita che rinasce, dopo la rituale morte invernale.
Sì, dal grano, dalle messi, nasce infatti il culto di una dea che ha nel rapporto con l’oltretomba, nel mito della fertilità in quanto morte e rinascita perenne, il fulcro del suo insegnamento simbolico.
Cerere, cioè Demetra per i greci, è non a caso la madre di Proserpina, protagonista di uno dei miti più antichi e “primitivi” della mitologia antica, legato in maniera indissolubile alle vicende degli uomini, al loro nascere e morire, e al loro rinascere a nuova vita in seguito all’esperienza rituale della conoscenza… è, quello di Proserpina (e con lei quello di Cerere e della Grande Madre) un mito “fondante” per eccellenza, che ci parla del ciclo rituale e vivificante, di morte ed eterna rinascita, dell’alternarsi delle stagioni, del morire e rinascere dei frutti, dei fiori, della terra stessa…
Che abbia un suo significato recondito, segreto, mi chiedo mentre il sole si alza lento nel cielo versiliese, quel testo sepolto per anni sotto a una pila di libri, e riportato ora a nuova vita, per puro caso, da Girolamo in un angolo della sua casa a Pietrasanta, e strappato per un pelo all’estinzione dell’inchiostro sulla carta termica? Che si tratti, sotto sotto, di una sorta di rinascita propiziata proprio dalla bionda Cerere, la Ctonia, la dea delle messi e delle rinascite rituali?
Mi sono chiesto spesso che cosa accadesse davvero in quello studio, lì a Pietrasanta.
Abbiamo alcuni dati certi, incontrovertibili. Soavi arrivava, sulla tarda mattinata. Arrivava “a bordo di certi suoi macchinoni”, come ricorda Ciulla. Non era più un giovanotto, come si suol dire. Eppure: arrivava a bordo di quelle auto di grossa cilindrata. Era l’inizio dell’estate. Sbarcava dalla sua macchina, e s’incamminava nel sole già alto della Versilia. Lo vediamo, incedere, il passo svelto, tra la folla dei primi turisti che si avviano, carichi di borse, verso le loro auto surriscaldate per andare ad accalcarsi giù in spiaggia, verso il Forte.
Lui fende la folla, la bocca piegata in una leggera smorfia (di disprezzo? Di ironia? O sta forse pensando alla trama di un racconto, che gli gira vorticosamente in testa da quel mattino presto, come un sogno da cui non sia riuscito a liberarsi in tempo?).
Cammina svelto. Ha fretta? O è solo un suo modo di mettere una distanza tra sé e il mondo, tra i suoi pensieri che saltabeccano vorticosamente di qua e di là e le tristi banalità del quotidiano? Non lo sappiamo.
Di certo, dev’essere stato impeccabile, come sempre, anche sotto quel sole che già comincia a scaldare troppo per com’è vestito (ce lo immaginiamo con dei pantaloni di buon taglio, una camicia a maniche corte, di cotone, e una giacca chiara, tenuta in mano).
Ha l’aria arguta. Tagliente. Con quel suo sguardo solo apparentemente aperto, disponibile al mondo, ma che in realtà nascondeva sempre il lampo d’un dardo avvelenato.
Cosa fa appena entra nella Bottega Versiliese, tra i battiti dei mazzuoli e dei martelli, lo sbozzare, il levigare, e scalpellare, scavare, lapidare, tra il rollìo delle macchine e lo sfarinarsi dei marmi che si sciolgono al vento in un impalpabile ma denso pulviscolo biancastro?
A noi piace immaginarlo come un predatore all’erta.

Si ferma sulla soglia, per abituare gli occhi alla penombra di quel luogo, dopo la luce di quel sole forte che, per un istante, ha rischiato quasi di accecarlo: e guarda.
Guarda, studia, annusa: le decine, le centinaia di sculture abbozzate, impolverate, ammucchiate ovunque l’occhio possa finire per posarsi: ci sono infatti, “ben allineati sugli scaffali”, (scriverà in un testo di qualche anno fa) “le immagini religiose dell’Ottocento come le Madonne, i Cristi e il figlio della Madonna di Praga…”. È la quintessenza degli studi, questo: la summa, l’essenza stessa dei laboratori dove si lavora il marmo, giù a Pietrasanta. È l’antro del Mago, lo studio d’alchimista dove Faust ricerca la sua personale via all’immortalità, nella sua accezione versiliese.
E poi, in un angolo della grande stanza, immerso, quasi nascosto dai suoi abbozzi di sculture, dalle steli, dalle colonne lunghe e strette come i colli di Modigliani, dietro a separé di marmo che somigliano a spighe di grano ritte sotto il solleone estivo, c’è lui, Girolamo Ciulla, che Soavi è venuto a trovare, quel mattino, rombando sulla sua macchina giù da Monte Marcello.
Ciulla è al lavoro su qualcosa: una dea Cerere? Un Coccodrillo? Un antico tempio greco abbarbicato sulla cima di una colonna dorica? O magari, chissà, è l’immagine di una civetta a tormentarlo quel mattino, la civetta che si diceva fosse tanto cara alla dea Atena, e che per gli antichi greci rappresentava la chiaroveggenza e la risoluzione dei problemi (e su quale problema formale si starà allora interrogando, adesso, Ciulla, immerso, come il Faust tra i suoi grimori ed alambicchi, nel pulviscolo di marmo che lo ricopre dalla testa ai piedi, scendendogli fino al fondo della gola, rendendo la sua voce, già rauca di natura, simile a quella del più ostinato tra gli ostinati tabagisti?).
C’è un racconto, scritto da Giorgio Soavi molti anni fa, che mi è sempre rimasto impresso come il simbolo perfetto, ineguagliabile, della visita allo studio d’un artista. È, per me, una specie di “scena primaria” (come direbbe Freud) della visita allo studio di un artista da parte di un amatore. Un amatore? Sì, forse solo questa parola si può usare, così desueta e generica, così poco moderna e “professionale”, per parlare del rapporto tra Giorgio Soavi e l’arte, laddove i “professionismi” e le “specializzazioni” hanno oggigiorno fatalmente rubato il posto a quello che, semplicemente, ha sempre costituito il motore primario dell’arte: l’amore, l’amore sviscerato per l’opera (anche a dispetto dell’artista che l’ha creata), fatto di nient’altro che passione, passione viva e fremente, scevra da ragionamenti o da interessi contingenti; è il desiderio fisico di far propria un’opera, di guardarla, e possederla, come si desidera il corpo e l’anima di una donna, o di una ragazza (o di un ragazzo), di cui ci si è completamente e perdutamente innamorati, e si vorrebbe possederlo, così, semplicemente, senza tentennamenti o calcoli: il fatto è che la si immagina già, chissà perché, quest’opera, dialogare e relazionarsi con le altre suppellettili, le memorie, e i ricordi di cui è già piena zeppa casa nostra; li si vede e li si immagina tessere silenziosi dialoghi gli uni e gli altri, nel buio della notte, quando le tende sono chiuse sulla strada e le luci sono tutte spente, e gli umani sono sprofondati tutti nel più buio sonno: ce li si immagina pulsare, e sussurrare silenziose parole che passano da un quadro all’altro, da una scultura a un’abat jour, da una poltrona malandata alla trama d’un tappeto, e, sotto a tutto, il ronzare di vecchie pendole che hanno smesso già da un pezzo di battere i rintocchi della mezzanotte.
Raccontava, Soavi, che quando andava nello studio di un artista assieme a un amico, anch’esso amatore, e anch’esso collezionista di quelle strane entità che sono le opere d’arte (non le opere cosiddette d’avanguardia, fatte dell’impalpabile materia di cui son fatte le idee platoniche ed astratte, ma le opere vere, le opere e basta, senza etichette, quella concrete, che s’appendono ai muri e si lasciano guardare e soprattutto toccare, le opere fatte di travertino, marmo, terracotta o di pittura a olio, corpose, materiche, frementi e sensuali sotto il nostro sguardo e il nostro tocco delicato ed eccitato); raccontava, dunque, che quando andava assieme a un amico nello studio d’un artista che amava, cominciava tra i due uno strano balletto. Lui, per non dar nell’occhio e non rivelare all’altro quale fosse il quadro (o la scultura) che desiderava far sua, cominciava a tergiversare, soffermandosi su quelle che gli garbavano meno; volendo, così, attirare l’attenzione dell’amico-rivale su questa, e non su quella invece che (l’aveva stabilito in un lampo, poiché è così che si manifestano i colpi di fulmine e gli innamoramenti) lui aveva già deciso, fin dall’inizio, di portarsi via. L’altro, però, faceva lo stesso: e potevano andare avanti così, per ore, a saltabeccare da un’opera all’altra, per non rischiare di rivelare prematuramente l’uno all’altro le proprie vicendevoli intenzioni, col rischio di farsi sottrarre dall’amico-rivale l’oggetto delle proprie voglie.
È, questa, una scena che mi è sempre rimasta ben fissa nella mente, poiché rappresenta l’essenza della passione per l’opera da parte di un collezionista, o meglio, di un amatore. Davanti a un’opera di cui ci s’innamora, non si guarda più in faccia a nessuno: né amici, né mogli o fidanzate. Desiderarla e farla propria sono un tutt’uno.
Soavi aveva questo amore sviscerato, ancestrale per le opere d’arte. “Non voleva regali, si innamorava di un’opera, e la comprava”, ricorda Ciulla. E poi, fotografava. Aveva questa sua macchinetta, una macchinetta da poco, di quelle portatili, da tenere ben nascosta in tasca, che tirava fuori solo alla bisogna, e, senza quasi farsi notare, fotografava. Fotografava tutto: l’artista al lavoro, le opere, lo studio. Guardare e fotografare, immergersi nel piacere che dà la vista, prima ancora (e assieme) al tatto, era per lui un modo di portarsi via un pezzo del lavoro, di impossessarsi di un brandello dell’anima di un’opera, e di un luogo. Il luogo, lo studio di un artista, l’antro magico dove tutto nasce e ha origine. La Grande Madre dell’opus degli artisti.
Ha raccontato mille volte, Soavi, di come abbia conosciuto Sutherland, Giacometti, Balthus. Di come amasse affondare nella polvere o nel silenzio immobile degli studi degli artisti che amava per immergersi, bearsi dei sogni da cui gli artisti erano partiti per creare le loro opere.
Nello studio di Ciulla, però, ci andava sempre solo. Non portava amici o rivali con cui dividere quella passione, e iniziare strani balletti di menzogne e di false indecisioni. Arrivava solo, e restava davanti alle opere, affascinato dal modo in cui Girolamo immergeva mani e piedi nella polvere, di come, al pari di un rinato Efesto, torcesse e costringesse la pietra a prender vita e forma sotto la forza e la volontà dei suoi attrezzi e delle sue mani. E di Ciulla, Soavi amava quella sua passione primitiva del creare, una passione ch’è qualcosa di ancestrale, di arcaico, di atavico come certe immagini che abbiamo forse sognato da bambini, e che restano attorcigliate, avvinte per sempre al fondo più scuro del nostro inconscio.
Le sculture di Ciulla hanno questa fissità di sogni e di immagini ancestrali che sembrano sgorgare dalle favole d’una mitologia remota e antica come la stessa terra.
Non c’è mai nulla di didascalico, di artefatto, nei suoi sogni di travertino e di pietra. Ci sono dèi e dee che con la loro immobilità remota sembrano sfidare il trascorrere del tempo. Ci sono animali severi e austeri come antichi monarchi, sovrani di un altro mondo e di un altro tempo − coccodrilli, capri, muli che si trascinano dietro, come due bisacce, piccoli tempietti fissati al dorso da robuste corde. Ci sono coccodrilli in tessuto di iuta, stretti tra vecchie corde come nelle fasce d’una mummia egizia, che sembrano essersi arrampicati, chissà come, sulla cima più alta d’una colonna per scrutare, da là sopra, il mondo come appare oggi, ai loro coccodrilleschi occhi: e che mondo vedranno, questi residui di mitologie e di epoche che sembrano ormai esistere solo nelle vecchie teche in legno dei musei archeologici? Il mondo com’è oggi, con le sue ridicole follie in technicolor, o il mondo com’è stato e sempre sarà, il mondo sterminato e arcaico delle leggi immutabili della vita e della morte, il mondo delle favole e delle leggende antiche che si tramandano fin dall’origine dei tempi, il mondo fatto di pietra e di grano, di costruzioni semplici e lineari come la pianta d’un tempio greco, di dee e miti arcaici ed ancestrali come quello di Cerere e della Grande Madre, di riti di fertilità e di rinascita, di leggende antichissime che, parlando d’altro, non fanno che parlare di noi stessi e della nostra natura più intima e segreta?
“Ciulla”, ha scritto una volta Soavi parlando d’uno di quei meravigliosi luoghi ridisegnati dalle sue sculture, quei luoghi magici e spirituali come antiche cattedrali, “è l’artista contemporaneo più adatto a farci credere che un piccolo luogo raccolto come un tempietto o un battistero tanto simile alle sue giostre sia ancora il posto necessario a chi vuole dedicare un poco del proprio fiato al culto e alla venerazione di quell’autentica reliquia che siamo noi. Proprio noi passanti, quando entriamo per metterci seduti e guardare come è stato fatto il luogo per stare tutti soli e concentrati per chiedere aiuto”.
A volte, guardando le ieratiche e silenziose opere di Ciulla, vien quasi da sedersi, da mettersi seduti, sì, per non dire in ginocchio, come in chiesa, a meditare sul filo rosso che ci unisce, indissolubilmente, ai nostri avi, alle leggende e alle storie che abbiamo letto e sentito raccontare mille volte, di dèi e dee che parlano e s’innamorano, che discutono e litigano come facciamo noi, e che nel caso decidono del destino degli umani con un semplice tiro di dadi.
Nelle sue sculture, elaborate e insieme semplici e ruvide come misteriosi totem votivi provenienti da un’altra epoca e da un’altra dimensione (insieme sovraculturale e sovratemporale), si respira il senso di una vita che guarda ai miti e ai culti di morte e di rinascita con la naturalezza che solo i popoli antichi, che traevano la loro saggezza profonda dal rapporto quotidiano con la terra, con le messi, con le stagioni e con i loro miti antichi e primitivi, riuscivano pienamente a sviluppare. E non sarà un caso, allora, la presenza costante e ripetuta di Cerere tra le sue figure femminili più riguardate e ripetute − Cerere, la Grande Madre, Cerere, la madre di Proserpina, colei che sconfigge Ade, ma al contempo ne è sempre sconfitta, Cerere la dea del grano e delle stagioni, di tutte le morti e di tutte le rinascite.
È risaputo che tutte le civiltà hanno simboleggiato nel culto della morte, e nell’immaginazione di ciò che potrà accadere “dopo”, o “oltre”, la morte, una parte fondamentale della costruzione simbolica del proprio mondo; l’attraversamento – simbolico – dell’esperienza della morte è stata sempre una parte importante di tutti i riti di iniziazione e di rinascita, perché è solo attraverso l’esperienza simbolica del morire e del rinascere che l’uomo può giungere, non diciamo alla conoscenza di se stesso, ma a un tentativo, seppure approssimativo, di conoscenza di sé, e dunque dello stesso mondo che lo circonda. Dai riti di morte e di rinascita di molte popolazioni arcaiche africane ai riti sciamanici, dalle costruzioni mitologiche greche e romane di attraversamento del regno dei morti – dal mito di Proserpina a quello minoico della sconfitta del Minotauro all’interno del labirinto, e via via con i racconti di discesa agli inferi, e ritorno sulla terra, di Ulisse e di Enea, per citarne solo alcuni –, le civiltà antiche hanno fatto dell’esperienza umana della morte un rito, e un fulcro simbolico centrale attorno al quale costruire il senso stesso dell’attraversamento dell’esistenza terrena. “Il paradosso della traslazione reciproca tra simboli e metafore della vita e simboli e metafore della morte”, scrive Mircea Eliade, “rivela che, qualsiasi cosa si pensi o si creda di pensare della vita e della morte, noi sperimentiamo continuamente modi e livelli del morire. Ciò significa di più che una semplice conferma del truismo biologico che la morte è sempre presente nella vita. Il fatto importante è che, consciamente o inconsciamente, noi non cessiamo mai di esplorare i mondi immaginari della morte e di inventarne interamente di nuovi. Ciò significa inoltre che anticipiamo le esperienze della morte persino quando siamo per così dire trascinati dalle più creative epifanie di vita”.
“A volte”, mi dice Ciulla, “Soavi mi telefonava e mi chiedeva: ‘come stai?’. Io rispondevo: ‘bene, grazie’. E lui: ‘bene, ora ti devo lasciare’. E metteva giù”.
Guardando il sole che splende, lassù in cielo, così caldo e strabattente come solo il sole di Sicilia riesce a essere, anche quando non batte sulla terra di Trinacria, mi assopisco un momento.
Mi assopisco, e sogno.
Sogno di coccodrilli giganti, che si muovono lentamente sotto il solleone. Sogno di caproni e di civette. Sogno di un asino che, lemme lemme, si trascina dietro due piccoli templi greci legati stretti in groppa. E sogno di Cerere, la Grande Madre, con un volto affilato incorniciato da ciuffi di capelli formati da spighe di grano.
E poi, sogno Girolamo. Girolamo che, al bar di Pietrasanta, sorseggiando un caffè, mi guarda, e mi dice, con la sua aria corrucciata e la sua voce roca: ”Oggi sai chi mi ha telefonato?”.
Io lo guardo a mia volta, e gli domando: “No, chi è che ti ha telefonato, oggi?”.
“Giorgio. Giorgio Soavi, mi ha chiamato”.
“Ti ha chiamato? Da dove, ti ha chiamato?”.
“Da lassù”, mi risponde lui, imperturbabile.
“E che cosa ti ha detto?”, gli domando.
“Mi ha chiesto come stavo”.
“E tu cosa gli hai risposto?”.
“Che stavo bene”.
“E lui?”.
“Lui niente: ‘bene’, mi ha detto. ‘Ora ti devo lasciare’. E ha messo giù”.
Girolamo Ciulla | In prima fila i coccodrilli, quindi l’asino… e le Dee
9 giugno – 10 luglio 2014
Antonia Jannone Disegni di Architettura
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inaugurazione lunedì 9 giugno alle ore 19.00