di Arnaldo Romani Brizzi
Mi ricordo e vi ricordo che, in finale del mio precedente “Amarcord”, ho fatto accenno alla prima mostra personale di Franco Piruca presso la Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis. Era il mese di maggio del 1978, trentasei anni fa. De Martiis (ma lo seppi in seguito) si era molto incuriosito per l’intelligenza di questo pittore catanese, capace anche di scrivere testi di notevole bellezza del pensiero. C’era molta stanchezza in giro per le sorti istituzionalizzate di un’arte concettuale che ormai aveva preso a ripetere pigramente se stessa, con maniera e senza nemmeno compiacimento, e che andava avanti più che altro, oserei dire, per forza d’inerzia. Si stavano già muovendo gli artisti della Transavanguardia di cui, però e al tempo, non avevo ancora una visione complessiva del loro fare. Devo dire, in piena onestà, che esibivo un atteggiamento piuttosto bloccato sull’arte in quel momento, andando avanti anch’io per forza d’inerzia. Di certo mi sembrava impossibile che si potesse tornare a formulazioni pittoriche più o meno tradizionali, pur rispettando ampiamente i pittori storici che erano ancora in piena attività nei territori i più vari.

In quell’anno 1978 ignoravo tutto di quegli artisti che, giovani, alcuni da poco usciti dall’Accademia, si stavano cominciando a presentare in luoghi autogestiti, molto adeguati ai tempi ancora rivoluzionari; luoghi come La Stanza, dove già si muoveva Stefano Di Stasio, o come Sant’Agata de’ Goti, dove Felice Levini, Giuseppe Salvatori, Vittorio Messina, tra gli altri, si sperimentavano sperimentando.
De Martiis aveva aperto una nuova sede de La Tartaruga, il suo marchio storico di galleria, in via Pompeo Magno, nel rigoroso quartiere romano chiamato Prati – nuova sede che, lo dico subito, non mi piacque: appartamentosa e d’aspetto borghese, senza l’attitudine «aristocratica» della sede di piazza del Popolo che mi aveva sempre affascinato. In quell’occasione Franco Piruca espose tre dipinti di fortissima traccia figurativa, con azione volutamente provocatoria, considerando quanto ancora si andava vedendo nelle gallerie e negli spazi che si dedicavano all’arte contemporanea. I tre olii su tela avevano ognuno un formato diverso: una tela quadrata, Mirum, una rettangolare, Dedalus, una tonda, La porta dell’attimo. Due dei tre quadri erano stati dipinti l’anno precedente, il 1977. Piruca, inoltre, si autopresentava con un testo su un fogliettino che tutto era tranne che un catalogo. Il testo riportava in epigrafe una citazione che era una vera e propria dichiarazione di intenti: «Il cuore è la sede di tutti gli atti conoscitivi dell’anima. La meditazione è a disegno del cuore», frase che mi impressionò non poco.
Non così la mostra: i dipinti non mi piacquero. Devo dire per onestà piena che li osservai velocemente, irritato in partenza per un pregiudizio che avevo covato già andando a vedere la mostra: cosa voleva dire un ritorno a una pittura così tanto segnata dal tempo? Mi sembrava una espressione nostalgica che, all’epoca, la mia militanza ideologica non poteva consentirmi. Ecco, quando appunto si dice che l’ideologia non consente, non ha mai consentito una serena valutazione, uno sguardo scevro da pregiudizi nei confronti della libertà espressiva del fare artistico. Se a questo si aggiunge che se tra i pittori potevo apprezzare Piero Guccione, che era lì presente all’inaugurazione in quanto amico e conterraneo di Piruca, di certo non riuscivo ad apprezzare la chiassosità narrativa (e la presenza volgarotta delle forme nude di donna Marzotto) di Renato Guttuso, anche lui lì presente, amico da sempre di Plinio De Martiis, anche per implicazioni di partito (e che partito: il PCI di allora!).
Erano presenti Giorgio Franchetti, Ovidio Jacorossi (collezionisti di punta), e Maurizio Calvesi che parlava ammirato con Piruca, fortemente incuriosito da quanto gli stava dicendo e raccontando (nel 1979 lo segnalò sul Bolaffi-Arte come artista tra i più interessanti del panorama di quell’anno).

Non potevo certo immaginare che nel 1980, sempre nella galleria di De Martiis, la mostra dedicata a Sei pittori (Alberto Abate, Stefano Di Stasio, Salvatore Marrone, Nino Panarello, Franco Piruca, Piero Pizzi Cannella) avrebbe determinato l’atto di nascita del gruppo dell’Anacronismo, fortemente protetto proprio da Calvesi che ebbe modo di presentarlo anche nelle due edizioni della Biennale di Venezia da lui curate nel 1982 e nel 1984. Insomma non avevo capito niente perché mi ero rifiutato di leggermi dentro, rimanendo fedele a libri e lezioni di altri. Tornai a casa con il sospetto di avere assistito a una mostra «reazionaria».
Poi, non so come e non so perché, tornai a vedere altre due o tre volte l’esposizione. C’era qualcosa ne La porta dell’attimo che conquistava sempre più la mia curiosità: le tre figurine fantasma in rapporto narrativo a tre palle da biliardo dello stesso colore bianco, a sottolineare la sorte incerta dell’umana esistenza e della memoria, il treno che si vedeva sul fondo ricordandomi il treno che passava lungo la riviera adriatica dove andavo con i miei a villeggiare; e tutto un insieme di vicenda familiare e biografica che pure si poteva rintracciare negli altri due quadri. Insomma, un racconto che prese a entrarmi nel cuore. Quel dipinto rotondo fu acquistato da Giorgio Franchetti, collezionista di grandissimo prestigio (ora, ma già da molti anni, l’opera è presente nella bella raccolta di Nicola Bulgari), e questo accese di più la mia lampadina dell’attenzione: se Franchetti, collezionista tanto esigente e perfezionista aderiva a quel gusto, a quella proposta, di sicuro ero io a sbagliare nel giudizio. Jacorossi acquistò Dedalus, e De Martiis tenne per sé, e fino alla morte, Mirum.

Oltre tutto, nel 1981, alla Galleria Rondanini nella piazza omonima, in una mostra personale di Renato Guttuso (Le Allegorie e altre opere recenti), nei mesi di febbraio e marzo, potei ammirare l’unico dipinto che di lui mi è sempre piaciuto e da subito: La visita della sera, che realizzò nel 1980 (ora di proprietà della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, GNAM). Ho sempre pensato che quel dipinto, senza la personale dei tre quadri di Piruca, e senza la mostra dei sei pittori, Guttuso non lo avrebbe mai realizzato, così intenso, misterioso, un po’ surreale e silente come si presenta.
Chi qui ha avuto modo già di leggermi, sa che spesso mi riferisco a un destino che si chiama Clotilde (riprendendo un titolo, a mio avviso geniale, di un romanzo di Guareschi, Il destino si chiama Clotilde, per l’appunto), intendendo sottolineare come nella vita si finisca con apprezzare, proprio in virtù di un destino scritto, ciò che inizialmente non si era apprezzato o, più propriamente, quanto era sembrato non avere altri punti di incontro e di incrocio con la nostra esistenza. Ed eccomi qui: tutti quelli che hanno seguito alcune delle vicende espositive dedicate all’Anacronismo e alla Pittura Colta, sanno quale strenuo difensore io ne sia stato e ancora ne sono. Di Franco Piruca, poi, scomparso nell’anno 2000, curai e presentai la mostra personale intitolata La Casa Scomparsa, nel 1998. Venti anni dopo quella mostra di esordio che all’inizio mi aveva così poco convinto.