di Alessandro Riva
Cosa sarebbe successo se fosse stato Woody Allen a girare Shiningal posto di Kubrick, con Diane Keaton al posto di Shelley Duvall e lo stesso Allen nella parte del guardiano impazzito dell’Overlook Hotel? E se invece Fellini avesse girato Jurassic Parkal posto di Spielberg, con Paolo Villaggio a impersonare il vecchio John Hammond, l’eccentrico miliardario col pallino dei dinosauri, e un cast comprendente Giulietta Masina, Roberto Benigni e Carmelo Bene? E cosa ne sarebbe stato, poi, di Mary Poppins, se a girarlo fosse stato nientepopodimeno che Alfred Hitchcock, con Audrey Hepburn nei panni della supermagica tata volante, e l’inquietante Anthony Perkins nei panni del bel spazzacamino? Le domande potrebbero continuare all’infinito, con The Rocky Horror Picture Show girato da Kubrick (interpreti: Tom Cruise, Nicole Kidman, Malcolm McDowell e Jack Nicholson), Batmantrasformato in commedia all’italiana popsurreale da Monicelli (attori principali Carmelo Bene, Mariangela Melato, Renzo Arbore, Massimo Troisi e, last but non least, la performer Xena Zupanic), e ancora Il ritorno dello Jedida Kurosawa, Colazione da Tiffanyda Tarantino, Pretty Womanda Lars von Trier…
Un’autentica storia del cinema riscritta secondo le regole dell’ucronia(genere narrativo basato sul principio che la storia sarebbe potuta andare in un altro modo rispetto a quello che noi conosciamo), con implicazioni più vaste del solo ambito cinematografico: se è vero infatti che il cinema ha contagiato e riflesso molti comportamenti sociali e collettivi dell’ultimo secolo, una sua diversa scrittura, o riscrittura, secondo parametri del tutto differenti da quelli che conosciamo, avrebbe potuto avere, come riflesso indotto, non solo il fatto di cambiare, ovviamente, la storia del cinema, ma anche, più in generale, quella della società, ovvero di tutti noi.
È da queste premesse che un giovane scrittore e regista temporaneamente prestato all’arte, Maurizio Temporin (già autore di libri di successo come Il tango delle cattedrali, Rizzoli, e della trilogia Iris, Giunti), ha messo in piedi un complesso progetto che vede la realizzazione non solo di falsi manifesti cinematografici (attentamente invecchiati e “trattati” come fossero autentiche reliquie storiche), creati sulla premessa ucronica di una storia “alternativa” del cinema mondiale, ma anche di gadget, foto di scena, recensioni immaginarie, videoclip (tutti in fase di progettazione o di realizzazione), insomma di tutto ciò che circonda la messa in scena (seppure immaginaria) dei suddetti film ucronici.
Un giochetto per cinefili? Un divertissementintellettuale? Forse. Ma probabilmente, invece, anche qualcosa di più. Se infatti provassimo a seguire il “gioco” di Temporin fino in fondo, forse potremmo immaginarci – oltre a un diverso sviluppo della storia con la “S” maiuscola, come hanno già ampiamente sperimentato diversi scrittori nel corso del tempo, da Philip K. Dick con la sua Svastica sul sole, che vedeva Hitler vincitore della Seconda Guerra Mondiale e il Nazismo diffuso in tutto il globo, a Philip Roth con Il Complotto contro l’America, in cui si ipotizza l’elezione di Lindbergh alla Presidenza degli Stati Uniti nel 1940, e un suo avvicinamento alla Germania nazista –, anche “un’altra” storia della letteratura, del design, della moda… oltre che, naturalmente, dell’arte contemporanea.
Proprio per restare sul terreno che ci è più congeniale – l’arte –, possiamo immaginarci, ad esempio, cosa sarebbe successo se Duchamp a suo tempo fosse stato considerato solo un fantasioso artista sconosciuto e un po’ sciroccato, e il suo Orinatoiofosse rimasto nel più totale oblio, come un tentativo (fallito) di ridicolizzare l’arte, che nessuno avrebbe mai preso in seria considerazione (ricordato, magari, solo dalla Settimana Enigmistica, a proposito del quale, nella rubrica “Strano ma vero”, avremmo potuto oggi trovare un trafiletto del tipo: “Nel 1917, la Society of Indipendent Artists di New York ricevette da uno sconosciuto artista di nome R. Mutt un’opera da esporre nella sua prima esposizione collettiva di opere d’avanguardia. Si trattava di un comunissimo orinatoio in ceramica, modello Bedfordshire, firmato in basso a destra con il nome del suo “autore”. La singolare… opera d’artefu rifiutata dalla commissione e andò in seguito perduta. Dell’autore del bizzarro “scherzo” non si è mai più avuta alcuna notizia”). Se le cose fossero andate in questa maniera, è lecito pensare che, con ogni probabilità, oggi non avremmo né Cattelan, né Koons, né le centinaia di migliaia di imitatori duchampiani e di tardo-dadaisti da strapazzo che da un’infinità di anni a questa parte infestano il sistema dell’arte.
E ancora: che piega avrebbe potuto prendere l’arte contemporanea, se Germano Celant, anziché il santone pluriosannato e plurimilionario che è oggi, fosse rimasto solo un idealista scamiciato, un ribelle dell’arte che negli anni Settanta propugnò, senza grande successo, un’idea dell’arte utopica e barricadera, che tuttavia, passata la gloriosa e un po’ funerea sbornia avanguardista, se ne fosse poi tornato – come sarebbe dopotutto normalissimo e sensato – nel novero di quegli intellettuali, che sempre le stagioni d’avanguardia si portano dopotutto dietro, fanatici e un po’ cialtroni (magari a caccia di qualche stipendiuccio pubblico…), e la sua (povera) ideuzza di arte come “guerriglia permanente” fosse nel frattempo finita nel dimenticatoio delle sperimentazioni balzane e senza seguito, esattamente com’è avvenuto per molto cinema e letteratura d’avanguardia dei tempi andati, oggi finiti in gran parte nella paccottiglia della storia, tra i pur divertenti o geniali tentativi generosi quanto utopici di cambiare il gusto del momento, ma senza avere in realtà alcuna vera influenza sul gusto successivo e reale del grande pubblico?
E che dire, poi, di Piero Manzoni e della sua Merda d’artista, se un sistema meno idiota e boccalone di quello in cui ci troviamo (chissà perché), a vivere e a operare, l’avesse presa per quello che in fondo era, poco più di una freddura ben confezionata, una boutadeinventata per smerdareil sistema, il quale, una volta smerdato, anziché restare ipnotizzato a vita dal suo goliardico e geniale “smerdatore”, avesse reagito con un’alzata di spalle e l’avesse catalogata tra le freddure e i lazzi di cui ogni grande storia è dopotutto costellata, senza per questo l’obbligo di consegnarsi per sempre mani e piedi ai suoi detrattori, costretta e ripetere per decenni gli stessi lazzi e le stesse merde d’artista,messe ogni volta in salse e confezioni differenti, fino ad essere essa stessa – la Storia dell’arte di oggi e il sistema che la contiene e la caratterizza –, scambiata per un’immensa, stratificata, maleodorante massa escrementizia (di cui l’ultima, sconfortante installazione di tale Mike Bouchet a Manifesta, intitolata The Zurich Loade costituita a 80mila chilogrammi di feci umane, non è che il tristissimo, patetico epilogo)?
E se Jackson Pollock fosse rimasto solo un anonimo alcolista sconosciuto, senza alcun appoggio da parte di mercanti e collezionisti, e il suo drippingconsiderato poco più di un caotico pasticcio sulla tela? Cosa sarebbe stato, a quel punto, dell’arte mondiale, se l’Espressionismo astratto e tutta l’avanguardia americana degli anni Cinquanta e Sessanta non l’avesse universalmente colonizzata per decenni (con l’ormai comprovatissimo aiuto della Cia), imponendole stili, approcci, gusti e obblighi di collezione per essere à la page, e fossero invece stati altri paesi, altre culture, altri stili, altri approcci al mercato e al gusto (stili magari provenienti dall’India, dalla Cina, dal Giappone, dal centroamerica, o dall’Australia con l’arte aborigena) a imporsi come generi universalmente riconosciuti e apprezzati, e non paternalisticamente accettati come corollario folkloristico al gusto dominante? Cosa ne sarebbe stato dell’arte contemporanea se, anziché una pratica aggressivamente e militarmente egotista e maniacalmente narcisistica, basata sul potere della griffee del nome dell’artista (e del potere del denaro del collezionista o del mercante che vi sta dietro), e non sul senso profondo che vi è sotteso, avesse guardato come modello dominante a un’arte e a un’estetica del tutto differenti – nulla a che fare col mito delle avanguardie, con la sistematica e maniacale rottura di tutti gli schemi per il gusto eterno di épater les bourgeois, col gioco ossessivo degli sberleffi e dell’estetica del putridume, con l’eterno ribaltamento di tutti i gusti, di tutti gli stili, di tutti i sensi comuni come obbligo sociale e culturale?
Utopie. Ucronie. Saremmo, certo, un’altra società, un’altra storia: dell’arte, e non solo. Un’altra storia, rispetto al patetico ciarpame e all’immenso, maleodorante caravanserraglio di idiozie spacciate per opere d’arte, di performance banali spacciate per opere d’arte, di giochetti, di sberleffi, di merde e cessi d’ogni genere, di barzellette sporche, di pacchianate, di sciocchezzuole senza capo né coda che, per il solo fatto di trovarsi nel posto giusto al momento giusto, col critico e il mercante giusti a fiutare il vento e a mestare nel torbido per farle accettare da collezionisti boccaloni e da direttori di musei compiacenti come grandi opere d’arte, dal sistema stesso vengono infine accettate, portate in palmo di mano, e in breve, di quel sistema, divengono esse stesse, col tempo, un punto centrale e irrinunciabile, un caposaldo, insomma opere storicizzate, pronte per essere musealizzate e consegnate ai posteri. Se vogliamo pensare a un’altra storia, limitiamoci a sognarla, a divertirci nell’ipotizzarla come mero esercizio intellettuale, come gioco fantasioso di un possibile, diverso sviluppo di quel che la Storia, quella con “s” maiusola e quella con “s” minuscola, avrebbero, in un altro universo, in un altro angolo di spazio-tempo, potuto essere, e potuto diventare. Ma a noi tocca tenerci il presente, con la sua massa di feci maleodoranti e di banalità. Un altro mondo (non) è possibile.