di Arnaldo Romani Brizzi
Mi ricordo il giorno in cui vidi passare per via Sistina Irene Brin e Palma Bucarelli, l’una accanto all’altra, sottobraccio, elegantissime e molto belle: Irene Brin sembrava un dipinto di Campigli (scoprii, anni dopo, che Campigli, effettivamente, l’aveva ritratta); Palma Bucarelli era bella come una diva, con degli occhi giganteschi che andavano da tutte le parti (sempre anni dopo vidi il ritratto che le aveva fatto Alberto Savinio).

Ero piccolo, avevo quattordici anni, e procedevo per via Sistina con mia madre. Fu lei a dirmi chi fossero le due singolari, eleganti e bellissime signore. In particolare mamma ammirava Irene Brin, famosa come Contessa Clara, pseudonimo con cui scriveva, o aveva scritto, su La Settimana Incom (una delle riviste di cui mia madre era una lettrice appassionata).

L’aveva molto seguita anche su Harper’s Bazaar, rivista la cui passione condivideva con le sorelle sarte, su Grazia e su Annabella.
Di ritorno dalle commissioni che mia madre doveva fare, decise di farmi vedere la Galleria L’Obelisco, che era la galleria d’arte che Irene Brin aveva fondato e dirigeva con il marito Gaspero del Corso.
Erano i primi di giugno del 1967, e le opere esposte si rivelarono, per me e al tempo, stranissime: si trattava della mostra Progetto Mercury-Progetto Minerva, dell’artista Elio Marchegiani (chi avrebbe mai pensato che, in età adulta, avrei scritto sull’arte di Marchegiani, nonché presentato delle esposizioni, come Raffinato Rosa 700-007, presso la mia galleria Il Polittico; e che sarei diventato collezionista di sue numerose opere. Come sosteneva Guareschi Il destino si chiama Clotilde!).
Mamma commentò: «Una mostra molto avveniristica, non è vero?». Il termine avveniristico mi piacque molto, e da quel giorno presi a visitare la galleria, di tanto in tanto.
Due anni dopo, nel 1969, Irene Brin morì, ma io mi ero già lanciato verso altre esperienze della creatività coeva.

Dopo diversi anni, quella Clotilde del destino alla Guareschi mi diede la possibilità di conoscere Gaspero del Corso.
Già affiancavo Italo Mussa nella direzione del Centro di Cultura Ausoni, nell’ex Pastificio Cerere. Proposi a Italo, in considerazione del grande spazio che avevamo a disposizione, di realizzare una mostra collettiva dedicata alle migliori gallerie attive a Roma (mostra intitolata Galleristi a Palazzo): risultò inevitabile invitare L’Obelisco; in più chiedemmo a Gaspero del Corso di scrivere un testo che lui intitolò Storia di una Galleria, e nel quale tracciò in sintesi la lunga vicenda di quello spazio espositivo all’epoca tanto all’avanguardia (ricordò anche la mostra di Elio Marchegiani che aveva acceso in me il sentimento della contemporaneità).

Con Palma Bucarelli, la signora Clotilde del destino alla Guareschi, mi fece avere molti altri incontri. Il primo fu nei primissimi anni Settanta. A scuola si presentò un’insegnante di storia dell’arte bella ed elegante, Rosanna Giovannetti, il suo nome da sposata, ma era in realtà Rosanna Barbiellini Amidei (sorella, tra l’altro, del giornalista Gaspare) che dopo alcuni anni sarebbe entrata in Soprintendenza. Ci portò subito a visitare la Galleria Nazionale d’Arte Moderna.
Era in corso una grande mostra dedicata a Giacomo Balla, curata da Giorgio De Marchis. Per l’occasione, però, la nostra insegnante ci fece conoscere la signora Bucarelli, che si presentò con un camice di colore tra il grigio e il marroncino, spiegandoci il senso dell’omaggio a Balla e raccontandoci molte altre cose del Futurismo.
Per me fu passione assoluta. Le pochissime volte che mi capitava di non andare a scuola (sì, insomma, di fare sega), andavo alla Galleria Nazionale. Mi capitò anche, una o due volte, di vedere passare, in fila indiana, la Bucarelli, seguita da un cagnetto bassotto, e da una assistente, e di sentirla impartire ordini a raffica: «Qui bisogna pulire meglio. Lì ridipingiamo in grigino la parete. Mi ricordi di cambiare l’allestimento della sala…», e via di seguito. L’assistente, o forse segretaria, scoprii anni dopo, era Augusta Monferini, che divenne a sua volta e poi Soprintendente della GNAM.
Altri incontri seguirono, per mostre ed eventi (ricordo anche nella Gibellina ricostruita), non solo di arte, ma anche di teatro d’avanguardia. Negli anni Ottanta, in una Villa Torlonia non ancora recuperata alla bellezza dai restauri, nell’ex limonaia furono rappresentati due notissimi spettacoli di Tadeusz Kantor: La classe morta, e Wielopole Wielopole. Non ricordo per quale dei due, ma arrivai trovando una fila di persone che non riuscivano a entrare per il numero chiuso degli spettatori ammessi alla rappresentazione. Giunse anche Palma Bucarelli, elegantissima, che non riusciva a passare tra la folla. Chiedeva permesso con voce molto autorevole (per non dire autoritaria), finché un ragazzo non le fece spazio domandandole: «Anche lei, signora, cerca un biglietto?». Rispose con un sorriso smagliante, ma irritato: «Biglietto, io?». Al che il ragazzo, spazientito, le disse: «E chi sarà mai?». Un inserviente, riconosciutala da lontano la chiamò per farla passare: «Dottoressa Bucarelli, venga, venga, non faccia la fila». Lei si rigirò verso il ragazzo e sempre sorridendo a cento denti, dichiarò: «Non sono vissuta invano!», e si allontanò trionfante.
Poi, nel 1990 (nel mese di settembre), la intervistai per la rivista romana di arte Next (diretta da Anna di Biagio ed Emma Ercoli). Una lunga intervista, a casa sua, in via Ximenes. Palma Bucarelli aveva abitato nella Galleria Nazionale, in un appartamento studio, in cui conservò per molti anni la dimora, anche dopo il 1975, anno in cui smise di esserne la Soprintendente.

Fu proprio Augusta Monferini a impuntarsi e a «sfrattarla» definitivamente. Lei, però, la Palma, fece causa, con ferma intenzione di rientrarvi. Trovai, infatti, la casa di via Ximenes molto provvisoria: scatoloni da tutte le parti, grandi e importanti dipinti (tra cui un gigantesco Capogrossi) non appesi a parete, ma solo appoggiati a terra. Impertinente le domandai come mai non l’avesse ancora sistemata. Lei mi rispose: «Se la sistemo, poi mi tocca di rimanerci». Aveva tutte le intenzioni, ancora, di riprendere possesso della Galleria.
Alla fine dell’intervista lei cominciò a schermirsi, dicendomi che avrebbe tanto preferito se la vita fosse andata diversamente, se fosse rimasta a Locri, sposandosi con un «baronetto» locale, e facendo «tanti bei figliolini locresi». Io, non cadendo nel tranello, le chiesi se invece non fosse soddisfatta di tutto quanto aveva realizzato nel corso della sua meravigliosa carriera. Lei rispose: «No, io non sono mai soddisfatta, e non lo sarò mai».
Stavolta caddi nel tranello e chiesi: «Cosa avrebbe voluto fare e non ha fatto?». E lei: «Ma io volevo diventare Caterina di Russia! O Elisabetta d’Inghilterra – la prima, però -: sono le due regine che mi piacciono di più!».