Gligorov: ricomincio da Histery

di Dafne Riva

GEMMA,2014Robert Gligorov è uno degli artisti più eclettici, complessi e poliedrici della scena europea e internazionale. Le sue opere, in bilico tra intelligente demistificazione dei luoghi comuni e ricerca del paradosso, hanno spesso scioccato, disturbato, creato dibattiti e subìto a volte anche censure, come quando, nel 2011, gli si impedì di esporre un “muro di bistecche” alla sua mostra personale al Padiglione d’arte contemporanea di Milano (PAC).

Oggi, Gligorov continua a lavorare con grande libertà, senza steccati né costrizioni o limiti di linguaggio. La sua ultima creazione, non a caso, non è né una fotografia né un’installazione, ma un magazine: Hystery, rivista totalmente autosufficiente, che racchiude i migliori lavori di tutto il percorso dell’autore, assieme a una serie di riflessioni sul ruolo dell’artista e sul senso di fare arte oggi.

Ma perché fare una rivista, per un artista contemporaneo? E perché proprio ora, nel momento di maggiore crisi dei mezzi cartacei? Provocazione? Desiderio di sorprendere ancora una volta? Intuizione avveniristica? Lo abbiamo chiesto all’artista, che in questa intervista ci spiega cosa significhi per lui fare arte oggi, ripercorrendo la sua esperienza e ragionando sul ruolo dell’artista e del fruitore.

Da che esigenza e da quali riflessioni nasce “Hystery”?

Faccio una premessa: amo cambiare anche per non annoiarmi. il mio lavoro deve partire da una fonte d’ispirazione e da una voglia di mettere in campo competenze ed energie. In questo caso è arrivato il momento di realizzare una rivista, anche se è riduttivo chiamarla così: è un contenitore di immagini e di idee, di testi e di grafica. Io ho sempre amato il cartaceo, negli anni della giovinezza amavo i fumetti, poi questa mia passione si è un po’ spenta e mi sono dedicato all’immagine artistica. Avendo fatto, prima ancora che l’artista, una serie di esperienze professionali, come il grafico, il fotografo, l’illustratore e il videomaker, oggi ho deciso di condensare tutto il mio percorso in una rivista, che in qualche modo riassume tutte queste cose messe insieme. Hystery  è un’opera a tutti gli effetti, che si vende nei musei, nelle librerie e nelle gallerie d’arte. Ha un aspetto commerciale – la vendita – ma non lo è nei contenuti: non ha sponsorizzazioni, è autoprodotta e ogni idea e pagina vuole essere un quadro. Una pagina dialoga con l’altra.

All’interno della rivista si trovano i nomi di alcuni collaboratori: sono persone reali o pseudonimi dietro i quali ti celi ancora una volta tu?

Questo è un lavoro di gruppo, realizzato in team; ma, per citare Flaubert, posso dire anch’io che “Madame Bovary c’est moi”. Quindi, in realtà, Hystery sono io, mi ci identifico nei contenuti, nelle forme e nella grafica. I nomi presenti sulla rivista sono quelli di personaggi inventati da me, ma ammetto la presenza di persone reali che operano sotto la mia guida. Il lavoro dell’arte deve essere sempre collettivo, il dialogo è molto importante: invidio, infatti, gli artisti che lavorano in gruppo perché c’è sempre un confronto, ci si autocritica e spesso si raggiunge una sintesi di quella che era l’idea originale; è così che dev’essere fatta un’opera d’arte.

compotQuesta rivista è molto più che un mezzo di comunicazione: è un’opera d’arte in sé. Ma il fatto che tu abbia deciso di fare una rivista denuncia un vuoto nel settore delle riviste d’arte?

È un momento di crisi in tutti i settori, l’editoria sta morendo. Non si vende perché la rete dà tutto. E quale momento migliore per un artista che montare su un cavallo e andare contro corrente? Il momento è difficile per l’editoria, e le riviste campano con la pubblicità, in Hystery invece la pubblicità non c’è. È controcorrente non soltanto fare una rivista, ma anche qualunque investimento: aprire gallerie, investire nei musei e comprare opere d’arte. Oggi è un momento di difficoltà, fare l’artista è un gesto folle ed eroico.

Tu sei stato uno dei primi a proporre immagini forti, e un’arte che mira a colpire l’osservatore, spesso a turbarlo…

Quando faccio un’opera non penso che voglio mettere KO qualcuno, voglio dare un’emozione. Col mio lavoro trasmetto un’energia, dirompente, uno squarcio, un sole che illumina la notte. L’arte ha sempre un aspetto luciferino, qualcosa di demoniaco, ovvero ciò che accade quando una cosa non è rassicurante. C’è un po’ di resistenza quando una cosa esce dagli schemi prestabiliti dell’accettabile e del tempo. È ovvio che con un’opera più silente si fa fatica ad emergere, e che con un’urlata hai una visibilità mediatica immediata. Io creo opere che cercano di dialogare con il nostro tempo. Nell’arte non ci sono veli, anche se l’audience è minore, in ogni caso l’artista non deve diventare una vittima di quello che vogliono che tu sia o ti hanno fatto diventare, deve sempre mantenere una totale libertà intellettuale.

Nelle tue opere utilizzi tutti i tipi di linguaggi. Quanto influisce la tecnica utilizzata e in base a cosa ne preferisci una differente ogni volta?

La tecnica è tutto, bisogna conoscere il mezzo per addomesticarlo e utilizzarlo per quello a cui serve. Io parto dal disegno per ricordarmi le idee, e poi decido. La fotografia, invece, è la cosa più gestibile e più facile da trasportare, perché le installazioni vengono distrutte una volta finita la mostra. Ad esempio, una volta avevo realizzato una piscina in verticale al PAC a Milano, poi abbiamo dovuto demolire tutto. Cosa mi è rimasto di quella piscina? Una foto. Quindi è essenziale non diventare vittime del virtuosismo del mezzo, ma sapersi fermare in tempo.

PistoriusLo shock è stato spesso un mezzo di innovazione nell’arte. Ma ha ancora senso parlare di provocazione come mezzo di proposta artistica?

Sono anni e anni che si dichiara la morte dell’arte, della pittura e della scultura, c’è il ritorno all’ordine, alla tradizione, sembra che ci sia sempre una fine. Finiscono certe ideologie ed esperienze, ma non finisce la voglia di fare esperienza, di innovare, di reinventare, di ridisegnare. Non solo nell’arte, ma anche nella politica, lo shock non sarà mai abbastanza e ci sarà sempre. Per questo ho creato Hystery, non mi basta più la mia piccola audience, non voglio quella della rock star, ma voglio dialogare anche con quelli che solitamente dicono di non capire niente di arte.

Per quanto riguarda la novità, è difficile che si inventi qualcosa che non è già stato fatto, semmai si ridisegna qualcosa, lo si reimpacchetta in un altro modo. Le nuove generazioni avranno linguaggi sempre nuovi per poter plasmare quelle che sono le esigenze eversive, poiché l’arte è una forma di eversione.

La tua biografia è molto variegata e articolata. Quali esperienze hanno avuto una maggiore importanza all’interno del tuo percorso artistico, e quali si ritrovano oggi in questa tua ultima esperienza?

Questa domanda richiederebbe molto tempo, perché in passato sono stato folgorato da decine di suggestioni, per esempio i fumetti, per il loro aspetto grafico: da piccolo il mio più grande sogno era di diventare disegnatore di fumetti. Da quello si è allargata la visione dell’immagine alla fotografia. Negli anni Ottanta c’era molta fotografia, perché esisteva ancora il ruolo del fotografo; ora non c’è più. Sono diventato fumettista per davvero, ho lavorato come fotografo per riviste come Max, ho realizzato una decina di film come attore, mi sono buttato in ogni singolo settore facendo l’esperienza reale per toccare con mano ciò che ogni mondo poteva offrire.

Tutto questo è racchiuso in qualche modo in Hystery: un’unica opera in cui io cerco una sintesi del mio lavoro. Non esiste un mezzo ideale, non è la foto o il dipinto, quello che conta è l’intuizione e il modo in cui voglio proporla. Voglio ancora gioire della bellezza della fotografia, dell’oggetto cartaceo come una sorta di lanterna magica.