Per molti, che per tanti anni lo hanno conosciuto e frequentato a Milano, è stato semplicemente un amico, generoso, disponibile, sincero. Per altri, Gino Armuzzi è stato invece l’autore di un fortunato e irresistibile romanzo-cult, “Sognavo di essere Bukowski”, libro-simbolo di una generazione, quella cresciuta negli anni Ottanta tra leggerezza, ironia, fancazzismo, tempo sbattuto via tra feste, aperitivi, discoteche, droghe, sesso, week end al mare e tanta musica.
Un romanzo generazionale, pop, pieno zeppo di situazioni e personaggi improbabili al limite del demenziale, ma nello stesso tempo perfettamente credibili, soprattutto per chi ha vissuto quel periodo assurdo e strabordante che è stato (per citare Tondelli), il lungo “week end postmoderno” degli anni Ottanta, anticipatore della deriva superflat, de-ideologicizzata e iperspettacolarizzata degli anni Novanta e primi Duemila; un romanzo cult (oggi ormai introvabile, e ripubblicato in versione ebook da Le case Books, http://www.lacasebooks.com/), il cui protagonista, un bocconiano sfaccendato e ozioso senza qualità, con poche idee in testa, voleva solamente “vivere come Miller, morire come Mishima e uccidere come Burroughs”; ma che, soprattutto, “sognava di essere Bukowski, buttato qua e là tra i bordelli di Los Angeles, con un bicchiere di whisky in mano e una prostituta accanto”. In seguito, Armuzzi avrebbe tentato il bis con “Centomila atomiche su Levorpool”, tra miti rock e derive sataniste, non riuscendo a replicare il boom del primo romanzo, ma ottenendo sempre un notevole successo.
In pochi, però, sanno che Armuzzi era, ed è sempre stato, anche un artista visivo, senza forse la costanza e la determinazione necessaria a trasformare la sua genialità e il suo talento in vero e proprio mestiere, come hanno fatto altri suoi compagni di strada. Ma anticipando, però, di molti anni le tendenze oggi dilaganti nel sistema dell’arte internazionale.
Prima di altri, infatti, Armuzzi aveva inaspettatamente precorso la deriva iperpop, barocca e fumettistica dell’arte visiva. Chi aveva avuto modo di frequentare il suo studio-laboratorio sui Navigli, con le pareti interamente tappezzate, dal pavimento fino al soffitto, di pagine di fumetti attaccate una sull’altra come fossero un’immensa, sbalorditiva e surreale carta da parati, aveva potuto rendersene conto fin dalla prima occhiata.
Ma ce ne si poteva rendere conto anche, e soprattutto, guardando le sue opere, che fin dai primissimi anni Novanta alternavano, in anticipo sui vari Murakami, Koons & co., immagini di characters tratti dai fumetti manga, supereroi, personaggi Disney e star dei primi videogiochi giapponesi. La tecnica, che inizialmente era quella del collage e della giustapposizione di materiali differenti (anche con interessanti effetti di estroflessione delle stesse pagine a fumetti, o di lastre di plexiglass dalla forma tondeggiante che riflettevano, come in un curioso gioco di specchi, le stesse strisce a fumetti che si intravedevano al di sotto), col tempo si è poi evoluta, spostandosi dalla manualità fortemente artigianale degli albori all’elaborazione digitale delle immagini, con un effetto coloratissimo, volutamente kitsch e iperpop, di sdoppiamento e sovraffollamento iconografico, di strabordante e barocca ripetizione dei medesimi soggetti e di ricorso a elementi eterogenei e spiazzanti, come scritte, loghi, oggetti di consumo e marche di prodotti, in perfetta anticipazione della deriva iperpop e superconsumistica del contemporaneo.
Ma, negli ultimi anni, Armuzzi era andando anche oltre: creando una complessa architettura narrativa e visuale, che mescolava perfettamente la sua naturale passione per la fiction e la narrativa di genere e il suo amore per l’immagine pop. Ecco allora che la sua fervida mente aveva creato una vera e propria saga artistico-famigliare, talmente complessa e intricata da non riuscire a districarsi nelle ingarbugliatissime storie che la contraddistinguevano. È la saga della Famiglia Jagelka, vera e propria epopea famigliare nella quale si mescolavano, tra assurdità di ogni genere, cinismo, megalomania e immaginario trash e televisivo, l’arte, la musica, il sottobosco politico internazionale, e poi storie incrociate di truffe, di ricatti, di furti, di galera, di passioni indicibili, di sesso, di amori contorti e di sogni mai realizzati; una saga più immaginata che realmente sviluppata, che Armuzzi aveva consapevolmente scelto di separare dal suo nome, volendone fare un progetto a se stante, quasi una realtà parallela, priva di autore e di una reale paternità.
Nel sito dell’improbabile Famiglia Jagelka, infatti (http://www.jagelka.it/index.html), non si trovano riferimenti al nome di Armuzzi se non nei contatti. Si trova invece la storia di Gelka Jagelka, il capofamiglia, il cui nome è già di per sé una buffa allitterazione, padre-falsario, amico di Andy Warhol, a cui rubò un ritratto di Mao il giorno in cui l’artista fu (quasi) ammazzato da Valerie Solanas, iniziando così la sua carriera di ladro, bugiardo matricolato e spacciatore di tele false; c’è Gea, la madre prostituta, che ha dipinto un solo quadro e che si è convertita (singolare parodia della confusione ideologico-religiosa di oggi) dall’induismo all’ortodossismo, passando per lo shintoismo, l’Islam, il protestantesimo, i testimoni di Geova, con una breve parentesi in Scientology. C’è poi Iago, il bodyguard cannibale che dipinge solo photofinish, Gekko che produce piogge pop di lattine d’olio della Texaco e della Sinclair, di contenitori di bagno schiuma e di bottigliette di Seven up, Jango che idolatra i manager delle multinazionali come dèi e che un giorno progettò e mise sul mercato un cellophane estremamente resistente che aveva un unico inconveniente: dopo sei mesi dalla data di produzione andava in autocombustione, incendiando il prodotto contenuto e il magazzino che lo conteneva; e ancora Kongo, vecchio cartoonist con una ragazza sulla coscienza, Kyle che sfonda fin da giovanissima nel mondo dell’arte concedendo senza sosta le proprie grazie a critici, galleristi e collezionisti… come scriveva lo stesso Armuzzi, è “la famiglia più strana del mondo dell’arte”, o anche “una famiglia di avatar disturbati, in cui tutti odiano tutti”, ma ognuno di loro non ha che una passione: l’amore matto per la pop art. Proprio come il loro autore, artista, scrittore, creatore di iconografie strabordanti e sconclusionate, e inventore di storie apparentemente folli e deliranti, eppure così simili al nostro pazzo pazzo mondo di oggi.
Gino se n’è andato, ma la sua folle creatività pop rimane, e forse è già diventata una mezza verità. Chissà che oggi, al suo funerale, non faccia capolino anche qualche strano personaggio: magari un tipo losco che sostiene di avere per le mani un Warhol o un Litchenstein scovati chissà dove, o un psicopatico amante delle piogge psichedeliche, o magari una virago che sogna di portarsi a letto tutto il mondo dell’arte. Insomma, che ci piaccia o no, la solita genia del mondo dell’arte, la malaerba che bazzica tutte le inaugurazioni che si rispettano e che a volte costituisce il meglio, e molto più spesso il peggio, di questo folle mondo in cui bene o male ci tocca continuare a vivere.
Alessandro Riva
Milano, 25 novembre 2015