Garbelli, negli anni 80 anticipò a Milano la nuova ondata street

Di VladyArt.

I cultori del genere urbano, graffiti o istallazioni, amano sostenere che la cosiddetta “street art” è sempre esistita, rifiutando di individuarne gli inizi da qualche parte sul finire del XX secolo. Eppure, vi è sì un momento in cui le scritte o le firme sono diventate a spray e in style hip hop. Così le installazioni; se queste sono sempre esistite, vi fu un momento dal quale i lasciti, i sabotaggi o le alterazioni si arricchirono di cultura pop, prendendo esattamente il sapore urbano che oggi conosciamo.

Francesco Garbelli, “Neo, post, trans”, 1988, Milano.
Francesco Garbelli, “Neo, post, trans”, 1988, Milano.

Ben prima del 2000, prima dell’esplosione globale del fenomeno grazie a grandi mostre collettive sul tema, operavano per le strade delle città d’Europa non pochi artisti visuali e in un contesto profondamente diverso da oggi, dove l’assenza non solo di Facebook ma proprio di internet limitava i contatti e la consapevolezza stessa del genere. Personalmente trovo questo lasso di tempo, dell’arte urbana “pre-internet” o de “l’era analogica”, davvero affascinante. Vi è una genuinità tale, dovuta alla mancanza di mezzi digitali, che conferisce potenza ad ogni creazione o pensata, anche la più banale. E più si scava, più si trova, come in archeologia, quando si rischia di riscrivere la storia.

Francesco Garbelli, Troika, (o degli apprendisti stregoni), 2014,  Isola Bella, Lago Maggiore.
Francesco Garbelli, Troika, (o degli apprendisti stregoni), 2014, Isola Bella, Lago Maggiore.

In Italia, una posizione di rilevo spetta a Francesco Garbelli, milanese classe ‘62 che negli anni ’80 iniziò una pioneristica ricerca artistica sull’iconografia della segnaletica stradale, direttamente operando in strada, pure senza permessi. La sua arte non derivò dai graffiti, ne subì l’influenza urbana americana: in Italia era piuttosto la transavanguardia a dettar legge. Mosse i primi passi presso la Brown Boveri, una fabbrica dismessa quasi nel centro di Milano e insieme ad altri artisti si espresse in diversi linguaggi, concettuali e installativi. Siamo nel 1984. In quello che per Garbelli fu come un tempio abbandonato dell’era industriale, realizzò con tubi di ferro arrugginiti una sculto-parola emblematica: ”ALTARE”. Con l’abbattimento della struttura, Garbelli spostò i suoi interventi all’aperto, iniziando così senza troppa consapevolezza un filone che oggi non esiteremmo a chiamare “street art”. Già allora il suo intento era di colpire, interagire e spiazzare il fruitore del caso, esortandone lo humor e la curiosità creativa. Le creazioni en plain air del Garbelli furono documentate e raccontate solo a singhiozzo (nonché in maniera approssimativa) da ignari giornalisti, che cercarono di interpretare le istallazioni, in assenza di indizi. Altri tempi, decisamente: oggi molti artisti “che fanno notizia” allertano le redazione dei giornali anticipatamente, come i bombaroli. Se Garbelli non fu figlio della cultura urbana americana, visse pure con una certa distanza anche la pittura europea e Italiana di quegli anni. Nel 1988 realizzò un’installazione che esprimeva questo concetto, questa distanza: un cartello di pericolo generico (quelli col punto esclamativo) con una tabella aggiuntiva che indica la natura del pericolo, ovvero la scritta “NEO, POST, TRANS” (neoespressionismo, post-espressionismo o transavanguardia).  Dagli Stati Uniti stava arrivando il fenomeno culturale di graffiti e rap, una tempesta capace di spazzare via il substrato punk ancora presente nella street art europea di quegli anni. Garbelli, venuto subito a conoscenza dei nomi americani più eminenti come A-One, Futura 2000, Hambleton e Keith Haring, rimase però sulla sua posizione, equidistante dalla cultura di strada newyorkese quanto dall’arte dipinta su di un cavalletto. Attraverso alcune incursioni urbane particolarmente riuscite (“Atlantide”, “Operazione Zebra”, entrambe realizzate a Milano) e grazie a qualche mostra in Italia, il suo nome fu presto preso in considerazione all’estero. Fatta eccezione per il Macam, (Museo d’arte contemporanea all’aperto di Maglione Canavese), i primi interventi che poté realizzare con  regolare permesso  furono in Olanda e Germania, paesi dove l’arte pubblica temporanea veniva apprezzata e autorizzata senza particolari intoppi burocratici.  Negli anni novanta ha fatto anche parte del gruppo “Concettualismo Ironico Italiano”,  con cui ha partecipato ad una serie di fortunate mostre in Germania in musei e spazi pubblici. Così come avviene oggi, Garbelli adoperava l’arte visuale per esprimersi in posizioni sociali, politiche e artistiche, possibilmente ingaggiando il pubblico. Lo ha fatto per anni pur senza crearsi facili illusioni: l’arte condiziona positivamente, è vero, ma “come potrebbe esistere ancora gente convinta della necessità della guerra dopo un film come Orizzonti di Gloria?” si chiede. Con la ricerca sociale urbana, pare che si venga a scoprire sempre più l’uomo della clava, che vince con la forza, il sopruso. I grattacieli di Milano celano atteggiamenti da popolo delle caverne, nonostante i nostri tablet e social network. La ricerca anche se rivolta alla contemporaneità, è in realtà un’indagine sulla comunicazione primordiale.

Francesco Garbelli, Senza Titolo, 1992, Milano.
Francesco Garbelli, Senza Titolo, 1992, Milano.

Non possiamo stabilire quanto Garbelli ci sia negli artisti urbani di nuova generazione. È probabile che ce ne sia molto, seppur in modo casuale e indiretto. Garbelli toccò alcuni temi e sfruttò alcuni concetti (visuali e iconografici; giochi di percezione e antropomorfismi) che non si possono attribuire ad un’artista in particolare quanto all’immaginario collettivo. L’arte della metafora per esempio, ovvero quello che nella street art possiamo riassumere nell’equazione “questa forma x mi ricorda y quindi la trasformo in y” è molto in voga da decenni: hanno operato così Banksy, Pao, il collettivo Mentalgassi e Clet ovviamente… ma la cosa riguarda praticamente, quasi tutti. Inoltre Garbelli scese in strada quando i trentenni di oggi avevano sì e no cinque anni. La sua produzione non è stata sufficientemente promossa in rete e questo sappiamo che ha un peso determinante sulla percezione della qualità-fama (più presente = più famoso). In altre parole, Garbelli ha attraversato i decenni senza troppo clamore ma è paradossalmente grazie alla curiosità della nuova generazione di street artist che sta riscontrando rinnovata considerazione.

Francesco Garbelli, “Il paradosso del pedone”, Regensburger Mai Dult, 1995.
Francesco Garbelli, “Il paradosso del pedone”, Regensburger Mai Dult, 1995.

www.francescogarbelli.com