di Maurizio Sciaccaluga
in occasione della mostra di Fulvio Di Piazza alla Galleria Bonelli, pubblichiamo un testo scritto da Maurizio Sciaccaluga per l’artista nel 2007.
Di Fulvio Di Piazza si è già scritto molto, spesso con notevole cognizione di causa, e io stesso ne ho affrontato la ricerca in più d’una occasione, ora evidenziando la stretta parentela che lo legava al fumetto sci-fi, ora sottolineando talune evidenti (seppur smitizzate) affinità con certa pittura cinquecentesca, ora recuperando la matrice di una presunta – e tuttora ancora da dimostrare in toto – ‘sicilianità’ nel tratto e nei temi.
L’allestimento di personali puntuali e importanti – tra cui l’antologica presentata alla Galleria Nazionale di San Marino nel 2004 – e la partecipazione a collettive in spazi prestigiosi o fortemente significativi – come, per fare qualche esempio, ‘Sui generis’ al Pac di Milano nel 2000, ‘Palermo blues’ ai Cantieri della Zisa di Palermo nel 2001 o ‘Italian Factory’ ai margini della Biennale di Venezia nel 2003 – hanno poi fatto il resto, permettendo a critici e giornalisti di dare letture a tutto tondo dell’opera dell’artista palermitano. Del quale, tra presentazioni e articoli, a volte è stata esaltata a dismisura l’atipicità della figurazione, altre volte è stata analizzata la collocazione all’interno della nuova pittura italiana, infine è stata discussa l’importanza nell’ambito di un genere e indiscutibile ritorno alla perizia tecnica della realizzazione.

Eppure, nei pur tanti testi dedicati all’autore, che non elenco per paura di dimenticarne qualcuno magari considerevole, risulta innegabile una lacuna preoccupante, che di fatto impedisce che gli sia riconosciuto lo spessore che invece merita: non è mai stata analizzata, o almeno con la necessaria consapevolezza, l’appartenenza di Di Piazza a uno stile trasversale e internazionale che va al di là della questione meramente pittorica, la sua stretta relazione con una tendenza, mai teorizzata, che travalica le logiche della storia peninsulare recente, e si colloca su un palcoscenico prestigioso di più grande respiro, vicino tanto all’arte visiva quanto al cinema, tanto alla letteratura quanto alla danza contemporanea. In pratica, non è stata affrontata la questione oggi fondamentale circa la ricerca dell’artista, quel nodo adesso assolutamente da sciogliere per poter davvero pesare interpretare i lavori. Messi in evidenza fino a risultare stucchevoli, i riferimenti a Bosch e ad Arcimboldi restano di sicuro imprescindibili per gustare le tele di Di Piazza, individuate e catalogate fino a diventare didascaliche le derivazioni dal disegno immaginifico di certi ‘comics’ non sono per questo meno evidenti, ripetuta fino allo sfinimento la partecipazione del pittore al momento italiano della cosiddetta Nuova Figurazione che non può e non deve essere messa in dubbio ma, evidentemente, ora, sono altre le argomentazioni e le sottolineature che possono rendere giustizia a Di Piazza.
E, precisamente, sono la relazione diretta con la pittura citazionista e colta di John Currin e Lisa Yuscavage, la convergenza immaginifica con l’astrazione riordinata di Fiona Rae e Daniel Richter, i punti di contatto con la costruzione simbolica e architettonica delle coreografie di Angelin Preljocaj, l’affinità con il gusto ridondante, assurdo ed esasperato dei romanzi di Tom Robbins, la simpatia evidente con il senso del racconto, del colore e dei personaggi del cinema di Tim Burton e Terry Gilliam.
Appare palese che ad accomunare tutti questi indiscutibili protagonisti dell’arte attuale siano la consapevolezza della storia unita all’amore per l’esagerazione, la padronanza del mestiere affiancata al piacere del paradosso, il rispetto della tradizione tradito di continuo, ma al contempo anche esaltato, da un’innovazione ardita e intelligentemente popolaresca, e bisogna ammettere che sarebbe davvero difficile, se non impossibile, non notare e prendere atto come anche Fulvio Di Piazza presenti proprio queste medesime caratteristiche. Male me ne incolga nel dirlo, poiché difficilmente nel nostro paese può essere perdonata la correlazione tra un vero pittore, un figurativo in senso classico, e i nomi più grandi della scena internazionale, ma con i maestri di cui sopra l’artista siciliano condivide suggestioni e ispirazioni (in senso lato) e come loro mette sempre in atto una trama complessa e contrappuntata, ma pure rigorosa e inappuntabile, scandita dalla proliferazione indiscriminata dei temi e delle trattazioni, dei particolare e dei soggetti.
Tutti, insieme a molti altri, sanciscono il ritorno del Barocco, fanno parte di una situazione neosecentesca e neofastosa nata dalle ceneri del minimalismo, fiorita naturalmente e quasi inesorabilmente sull’ ‘humus’ marcescente del concettuale. Tutti reagiscono a un’insopportabile, almeno per loro, rarefazione dei significati (e dei significanti) attraverso la ridondanza, l’humour, una drammaticità ampollosa e retorica.

Se ‘L’ultimo Natale’ equivale a un sogno del Sam Lowry di ‘Brazil’, con quello scontro titanico tra bene e male ritmato soprattutto dalla magniloquenza dei colpi e delle ferite, ‘Peste’ è il contraltare in noir della ‘Fabbrica di cioccolato’ del Willy Wonka di Tim Burton, se ‘Supervillage’ risulta costruito per movimenti, accordi e passi indipendenti l’uno dall’atro eppur difficilissimi da separare come i balletti di Noces o N di Preljocaj gli alberi di ‘Spettatore interessato’ nascondono la stessa vita suadente, alternativa, diversa raccontata con estrema abilità in ‘Natura morta con Picchio’ da Robbins.
Per usare una descrizione perfetta per ‘Brazil’, appunto, nelle opere diversissime e apparentemente incomparabili di questi artisti, e dunque di Di Piazza, “trova modo di funzionare al meglio la descrizione di un mondo inumano e angosciante, volgare e assurdo… nostalgico ed eversivo rispetto a una realtà invivibile”.
Il mondo è visto attraverso lo specchio deformante dello sguardo barocco, e come nei momenti più alti dello stile il pessimismo più duro e tetro si confonde all’ironia aerea, divertita e svagata. Non è un caso che la rivisitazione della forma vegetale e un’ossessione aggressiva per gli sviluppi naturali tornino in gran parte delle varie ricerche sopra citate, e non è certo una pura combinazione che l’ultima serie dipinta dal pittore palermitano insista sull’idea del bosco, sulla crescita tortuosa ma armonica dei rami, sul compiacimento antropomorfo di una certa Natura matrigna. Spesso al buio si sostituisce la luce, sovente (anzi, sempre) l’oro lascia il posto a un colore più caldo, ma la sovrapposizione di un motivo all’altro, la difficoltà nel discernere e ricercare la logica prima di ogni composizione, il continuo rimandare ed eccedere su un tema fanno in modo che i sensi dello spettatore, mentre sono meravigliati da tanta esasperazione di linguaggio, risultino ottusi dalla magniloquenza, non riescano a ragionare distratti da una tale forza espressiva. La creatività, orchestrata in tal modo, sembra quasi sovrannaturale, di certo innaturale, probabilmente supernaturale. Di Piazza, parimenti ad alcuni dei più talentuosi creatori internazionali, possiede quella capacità di coinvolgimento e quelle doti narrative che stanno di fatto sancendo il ritorno prepotente del popolare (seppur venato di mistero, d’inquietudine) nell’arte, ed è proprio solo paragonando la sua a queste ricerche che si può capire la forza del suo discorso e delle sue proposte. È, di fatto, con buona pace di molti altri, l’unico tra i pittori italiani dotato parimenti di un’originalità assoluta – ovvero uno stile dissimile da ogni altro – e di uno stile incredibilmente condiviso – ovvero comunemente riscontrabile nel momento storico, in più luoghi e più discipline.

Fulvio Di Piazza | Pacific
20 febbraio | 30 marzo 2014
Galleria Giovanni Bonelli
Via Luigi Porro Lambertenghi, 6 | Milano
tel. 02 87246945
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www.galleriagiovannibonelli.it