Anche una foto è per sempre

di Emanuele Beluffi.

Poi dice di non leggere i giornali di carta, ‘chè per informarsi basta Facebook’. Non fossi un frequentatore della messa quotidiana del laico (copyright Hegel), con ogni probabilità non sarei stato tentato, l’altro giorno, dal leggere quell’articolo rilanciato da un notissimo quotidiano online che riportava i tafferugli americani scoppiati all’insegna dello slogan Black Lives Matter (sia chiaro una volta per tutte: vuol dire “Le vite dei neri contano”) commentandoli con una foto che rappresenta il senso di una reconquista all’insegna di un coinvolgimento massivo, neri e bianchi, contro il fermo omicida del poliziotto Derek Chauvin. Il fermo omicida è diventato un fermo immagine, come la ragazza del maggio francese fissata in posa plastica da Jean-Pierre Rey, la Marianna del ’68 che occupa la Sorbona come La Libertà che guida il popolo dipinto da Eugène Delacroix 138 anni prima.

La foto dei riot americani blocca per sempre tre dimostranti, due neri e un bianco, sopra la carcassa abbruciata di una macchina che sembra dipinta da Basquiat, mentre dietro un quarto soggetto li fotografa (o li riprende con la camera, boh) indossando una maglietta nera con su scritto “FUCK ICE”, cui la mente attacca pavlovianamente un “POL”, mentre sullo sfondo una colonna di fumo nero come i coppertoni abbruciati, fa diventare brunito quel cielo americano che fino al giorno prima le immagini dei quotidiani (di carta!) mi raffiguravano rosso fuoco.

Quest’immagine è troppo bella, ho pensato: sembra il quadro di un pittore del Romanticismo francese, sembra una foto degna di Vice (la rivista, non il film), c’è un dialogo fra i colori che sarà del tutto casuale ma quel rosso della maglia del capellone in posa sul tetto della macchina sull’asfalto di Fairfax a Los Angeles mi ricorda il rosso delle redini del cavallo nel quadro La morte di Sardanapalo (sempre di Eugène Delacroix) che brilla luminoso sul nero della pelle dell’uomo in primo piano nella composizione.

Questa foto dei riot americani è una composizione. Magari non voluta, in mezzo al casino, ma chi l’ha fatta questa opera d’arte? Chi è il Jean-Pierre Rey di questo giugno americano? La posto su Facebook: senza saper né leggere né scrivere penso che questa foto non stonerebbe affatto in una mostra da 10 Corso Como a Milangeles prima che diventasse una città sfigata, quando vedevi le foto del World Press Photo insieme alla gente che piace. Cerco nell’inFernet questa foto: da qualche parte l’avranno sicuramente pubblicata con i crediti. E invece nì. Non ho troppo ravanato nell’etere, ma un pochino ho cercato, prima di scoprire che l’autore della foto è lui, il losangelino Wally Skalij, già vincitore del World Press Photo (appunto. Mazza quanto ce l’ho lungo, lo sguardo). È un’immagine che sintetizza il senso di un evento, come il filmato di Abraham Zapruder con Jacqueline Kennedy che si allunga sulla coda della limousine per recuperare il frammento di cervello di JKF.

Anche una foto è per sempre. E niente, ancora e sempre l’iconoclastia è sempre insana e ancora e sempre l’immagine dice più della parola e per questo mi fermo qui.