“Nella città ci annoiamo, non c’è più il tempio del sole”, scriveva Gilles Ivain nel suo Formulario per un nuovo urbanesimo, pubblicato sull’“Internazionale situazionista” nell’ottobre del 1953. “Tra le gambe delle passanti i dadaisti avrebbero voluto trovare una chiave a stella, e i surrealisti una coppa di cristallo, tutto questo è andato perduto. Sappiamo leggere sui visi tutte le promesse, ultimo stadio della morfologia. La poesia dei manifesti è durata vent’anni. Ci annoiamo nella città, bisogna faticare molto per scoprire ancora dei misteri sui cartelli della pubblica via, ultimo stadio dell’umorismo e della poesia. Tutte le città sono geologiche, non si possono fare quattro passi senza incontrare dei fantasmi, armati di tutto il prestigio delle loro leggende”.

“Noi ci evolviamo in un paesaggio chiuso i cui punti di riferimento ci portano inevitabilmente verso il passato. Alcuni angoli mobili, certe prospettive fuggevoli ci permettono di intravedere concezioni originali dello spazio, ma questa visione resta frammentaria. Bisogna cercarla nei luoghi magici delle leggende popolari e degli scritti surrealisti: castelli, mura interminabili, piccoli bar dimenticati, caverna dei mammut, specchi dei casinò”.
“Queste immagini sorpassate conservano un piccolo potere catalizzatore, ma è quasi impossibile utilizzarle in un urbanesimo simbolico senza ringiovanirle, caricandole di un nuovo significato. Il nostro abito mentale popolato di immagini-chiave è rimasto troppo indietro rispetto alle macchine perfezionate. I diversi tentativi per integrare la scienza moderna in nuovi miti restano insufficienti. Poi, l’astratto ha invaso tutte le arti, in particolare l’architettura di oggi. Il fatto plastico allo stato puro, senza aneddoti ma inanimato, riposa l’occhio e lo raffredda. Altrove si incontrano altre bellezze frammentarie e sempre più lontana la terra delle sintesi promesse. Ognuno esita tra il passato che vive nell’affetto e l’avvenire morto già nel presente…”. Ma, avvertiva Gilles Ivain: “Noi non prolungheremo le civiltà meccaniche e la fredda architettura che conducono alla fine della corsa verso passatempi annoiati. Ci proponiamo di inventare nuovi scenari mobili… L’architettura è il mezzo più semplice per articolare il tempo e lo spazio, per modellare la realtà, per far sognare. Non si tratta solamente di articolazione e di modulazione plastica, espressione di una bellezza passeggera. Ma di una modulazione influenziale che si inscrive nella curva eterna dei desideri umani e dei progressi nella realizzazione di questi desideri. L’architettura di domani”, concludeva Gilles Ivain, “sarà dunque un mezzo per modificare le concezioni attuali del tempo e dello spazio. Sarà un mezzo di conoscenza e un mezzo di azione“.

A quasi settant’anni di distanza, il monito e l’utopia situazionista riverbera ancora la sua aura sul presente. C’è una singolare profezia di quello che di fatto diventerà lo scheletro geografico della contemporaneità, dove esistono sì dei luoghi di divertimento, ma sono sempre oasi sotto il completo dominio di un ben preciso interesse economico: sono le tante Disneyworld sparse per il mondo, i mille luna park, che oggi sono diventati il perfetto parametro per le mostre d’arte, che spesso si ispirano ad essi come luoghi chiusi a sé stante, dove ci si può divertire e distrarre o si può anche riflettere, ma sempre al di fuori della normale vita della città. In questo senso, il lavoro di molti artisti che lavorano dentro la città appare come una via di fuga, perché dal luogo chiuso della galleria e della mostra d’arte torna a parlare alla strada e della strada, iniettandosi come un virus in essa. La grande spinta del situazionismo è stata quella di voler tornare ad agire sulla realtà tramite i modelli della psicogeografia, che è “lo studio delle leggi e degli effetti precisi di un ambiente geografico ordinato, coscientemente o meno, che agiscano direttamente sul comportamento affettivo”, ma anche e soprattutto secondo la teoria della deriva, il cui concetto “è indissolubilmente legato al riconoscere effetti di natura psicogeografica e all’affermazione di un comportamento ludico costruttivo, ciò che da tutti i punti di vista lo oppone al concetto classico di viaggio e di passeggiata. Una o più persone che si lasciano andare alla deriva rinunciano per una durata di tempo più o meno lunga alle ragioni di spostarsi e di agire che sono loro generalmente abituali, concernenti i lavori, le relazioni e gli svaghi che sono loro propri, per lasciarsi andare alle sollecitazioni del terreno e degli incontri che vi corrispondono”.

Si torna di fatto all’idea di un’arte non di decorazione urbana, ma di sorpresa o di disturbo, per cui nel nostro cammino quotidiano ci troviamo improvvisamente di fronte ad un evento inaspettato, concepito come un’opera d’arte che vuole intervenire direttamente sulla realtà, e questo ci spiazza e provoca una messa in crisi dei nostri percorsi e rapporti abituali. La pratica della deriva era, ed è ancora, il lasciarsi andare a questa improvvisa rottura dei nostri parametri quotidiani di relazione codificata. L’inaspettato diventa una realtà di fronte alla quale noi siamo invitati a reagire, a interrogarci, a indignarci o a solidarizzare con chi ha messo in atto una pratica di détournement del normale tran tran urbano quotidiano.
Uno degli artisti che in questo senso hanno dato un contributo significativo a questa pratica artistica è ovviamente proprio Christo, ben prima degli immensi impacchettamenti che lo hanno reso famoso. La sua prima opera monumentale è del 1962 ed è un’opera tanto esemplare quanto anticipatrice del complesso rapporto degli artisti con la città: è ispirata alla costruzione del muro di Berlino, che aveva creato una frattura non solo fisica tra le due città, ma anche nella coscienza delle persone che fino ad allora avevano vissuto ancora la città come il luogo della libertà per eccellenza. L’idea è del settembre del 1961 (un mese dopo la costruzione del muro) e si intitola “Progetto per un muro temporaneo di barili metallici”, da realizzare in rue Visconti, una qualsiasi strada di Parigi con “pochi negozi, una libreria, una galleria d’arte moderna, un negozio di antiquariato, uno di materiale elettrico e uno di alimentari”.

“Il muro”, scrisse Christo nell’illustrarne il progetto prima dell’effettiva realizzazione, “sarà collocato tra il numero 1 e il numero 2 in modo da chiudere completamente la strada al traffico e impedirà qualunque comunicazione tra rue Bonaparte e rue de Seine. Questa cortina di ferro può essere usata come barriera in occasione di lavori della sede stradale o per trasformare la strada in una strada senza uscita. Lo stesso principio può essere esteso a un intero quartiere oppure a un’intera città”. Da quel momento, fino a giugno dell’anno dopo, l’artista cercherà di realizzare la sua opera, tra richieste alla pubblica sicurezza e domande in carta bollata all’amministrazione, e persino una lettera al Presidente della Rrepubblica francese. Non ci riuscirà neppure il padre della sua compagna Jeanne-Claude, che era un generale in pensione dell’esercito, amico di ministri e di politici, il quale aveva scritto al prefetto e aveva ricevuto una risposta che diceva: “Dato che non intendo entrare in merito dei contenuti artistici, dove tutte le opinioni hanno uguale legittimità, mi terrò alla giurisprudenza sulla questione: una pubblica via deve per definizione essere agibile a tutti. L’autorità che rappresento non può permettere che venga chiusa nemmeno per poche ore” (e in questa risposta, gentile ma ferma, dove il giudizio negativo sull’opera viene nascosto dietro a motivi burocratici, emerge tutta l’ipocrisia del potere, disposto a chiudere interi quartieri se lo richiede la legge di Hollywood, della pubblicità o della moda, ma pronto a tirar fuori il codice e se a pretendere la stessa cosa è un artista, per di più squattrinato).

Quando finalmente Christo decide di chiudere la via col suo simbolico muro di barili, lo fa dunque in maniere illegale, affittando un camion pieno di barili, un operaio che lo aiuta a scaricarli e procedendo alla costruzione in pieno giorno, nell’ora di maggior traffico. Ecco come il blitz dell’artista viene raccontato in una recente biografia: “Alle 18.30 arrivarono in rue Visconti dove batteva ancora un caldo sole estivo, si fermarono vicino a rue de Seine dove Jeanne-Claude e diversi altri amici li aspettavano. L’operaio cominciò subito a scaricare i barili con i quali Christo prese a costruire la base di una barricata costituita di 10 barili, uno a fianco all’altro, che ostruiva la strada. Fu subito pandemonio, il traffico si fermò, la gente si radunò, i clacson cominciarono a suonare. Ma lo scarico continuava. Christo sembrava un funambolo mentre cercava di tenersi in equilibrio sulla sommità della struttura che diventava sempre più alto, un Christo magrissimo, concentratissimo ed esausto. Il camion faceva da scala, quando il muro era finito stando sui barili era più alto del camion. Lavorarono a grande velocità, in meno di trenta minuti avevano finito. Il primo gendarme arrivò mentre Christo e i suoi aiutanti stavano ancora scaricando i barili”.

È esilarante, degno della miglior commedia, il resoconto della trattativa di Jeanne-Claude con i poliziotti: “Il gendarme allibito osservò quell’agitazione frenetica e chiese: ‘che roba è?’. Lei sorrise e rispose con tono tranquillo: “è un’opera d’arte”. Lui ribattè: ‘non si può, è proibito, gli dica di smettere’. Jeanne-Claude non fece una piega: ‘non posso interferire, non è ancora finito’. Spiegò che si trattava di un’attività legale e temporanea. Quando il gendarme ordinò di sospendere la costruzione lei insistette per parlare con un suo superiore. Il gendarme tornò accompagnato dai suoi superiori, ma la situazione era ormai diventata ingestibile. Il camion se n’era andato, si era radunata una gran quantità di gente che pareva divertirsi un mondo, la stampa aveva trovato la notizia del giorno e una nuova barricata francese era diventata storia”.
Il quartiere, dai resoconti di quella giornata, pare che abbia reagito in modi diversi. Molti erano sconvolti, ma la maggior parte dei passanti sembra che fossero divertiti: era un quartiere di artisti, si era abituati alle stranezze (“a un certo punto”, dicono le cronache, “uno dalla finestra butta anche giù un pitale, un secchio pieno di urina che investe in pieno Restany e il suo vestito nuovo comprato a Milano il giorno prima”). Questo resoconto è fortemente simbolico. Prima di tutto, per il fatto che inevitabilmente gli artisti, per agire direttamente sulla città, a meno che non si tratti di azioni che non disturbano il tran-tran quotidiano, devono agire per lo più illegalmente. In secondo luogo, la reazione della gente è simbolica della relazione degli artisti con gli abitanti della città: da una parte ci sono cittadini che incoraggiano l’artista folle che mette un muro in mezzo a una strada, dall’altra cittadini indignati perché devono andare al lavoro, tornare a casa, fare quello che tutti noi facciamo quotidianamente.

Ecco allora che si torna di nuovo all’idea di un’arte che, per riallacciarsi alle grandi utopie di intervento diretto sulla città, diventa un’arte di disturbo, di attivazione di cortocircuiti psicologici, sociali, antropologici e mentali, di rimessa in discussione dei codici e delle visioni precedentemente acquisite a livello collettivo, ben più che di mera decorazione urbana. Una pratica artistica che deve mettere in crisi le nostre certezze acquisite sul modo in cui viviamo la città, e non limitarsi a soddisfare una ricerca di gusto, di bellezza o di “riqualificazione” di quartieri degradati, che spesso si risolve in gentrificazione ad uso di cittadini abbienti quando non di speculatori. Tornare all’anima psicogeografica e disturbante dell’intervento urbano è forse la chiave con cui si potrà declinare in futuro l’intervento dell’arte nel tessuto urbano.
Dottor Zivago